Per una giustizia ambientale: ricerca e attivismo

Elena Camino

Una petizione che nasce nel cuore dell’Europa

Come le altre persone iscritte alla mailing list dell’European Environmental Bureau (EEB) che ha sede a Brussels, Belgio) ho ricevuto nei giorni scorsi questa segnalazione, che mi sembra interessante da condividere. La traduco qui di seguito.

Negli ultimi due mesi una petizione dall’ European Environmental Bureau (EEB), basata su in testo inviato da Federico Demaria, ‘project manager’ di EnvJustice, è stata condivisa da quasi 100.000 Europei. La petizione chiede a tutte le Istituzioni Europee di porre fine alla dipendenza dalla ‘crescita’. L’ EEB ha anche fatto pervenire questa petizione al secondo ‘uomo’ della Commissione europea: Frans Timmermans.

EEB è la più grande rete europea di organizzazioni ambientaliste di cittadini: circa 150 organizzazioni della società civile da più di 30 paesi europei. E’ impegnata per la realizzazione di uno sviluppo sostenibile, per la giustizia ambientale e per la democrazia partecipativa. http://eeb.org/

Il Progetto di ricerca ENVJUSTICE è finanziato dall’Unione Europea attraverso l’ European Research Council (ECR), che ha assegnato al Professor Joan Martinez-Alier un sostegno economico dal 1 giugno 2016 al 31 May 2021, ed è il proseguimento di un precedente progetto, anch’esso finanziato dall’UE dal 2011 al 2015 (The Environmental Justice Organisations, Liabilities and Trade: EJOLT) in cui scienziati, attivisti, studiosi e decisori politici di varie competenze (giurisprudenza, medicina e salute, ecologia, economia ecc.) si sono confrontati e hanno elaborato studi e riflessioni su temi riguardanti la giustizia ambientale http://www.envjustice.org/.

Ed ecco il testo della petizione, indirizzata all’Unione Europea, alle sue Istituzioni, e agli Stati Membri: Europe, It’s Time to End the Growth Dependency.

Continuare a inseguire la crescita economica è risultate una scelta inefficace a ridurre le disuguaglianze, ambientalmente insostenibile, e non contribuito a promuovere la democrazia e ad assicurare il ben-essere dei cittadini. Ci appelliamo all’Unione Europea, alle sue istituzioni e agli Stati membri per:

  1. Costituire una Commissione speciale sui “Post-Growth Futures” (Futuri dopo la crescita) presso il Parlamento Europeo. Questa Commissione dovrebbe discutere attivamente il futuro dell’economia, mettere a punto delle alternative politiche, e mettere in discussione l’approccio della crescita come traguardo principale delle scelte politiche.
  2. Mettere al primo piano gli indicatori sociali e ambientali. Le politiche economiche dovrebbero essere valutate in termini di impatto sul benessere umano, uso delle risorse, riduzione delle disuguaglianze, disponibilità di un lavoro dignitoso. Questi indicatori dovrebbero avere più peso del PIL nei processi decisionali.
  3. Passare dall’idea di Stabilità e Patto di Crescita (un insieme di regole volte a limitare il deficit dei governi e il debito nazionale) a quella di Stabilità e Patto di Ben-essere, in modo da soddisfare i bisogni primari dei cittadini, ridurre il consumo di risorse e la produzione di rifiuti fino a un livello sostenibile.
  4. In ogni Stato Membro nominare un Ministro per la Transizione Economica: una nuova visione di Economia, volta a promuovere il ben-essere delle persone e degli ambienti, che potrebbe offrire un futuro assai migliore di quello che dipende strutturalmente dalla crescita economica.

Perché è importante?

Negli ultimi settant’anni la crescita del PIL è stata considerata come l’obiettivo economico principale delle nazioni Europee. Ma al crescere dell’economia è cresciuto l’impatto negativo sull’ambiente. Stiamo ormai superando i limiti di uno spazio sicuro di azione dell’umanità sul nostro pianeta, e non c’è traccia di un disaccoppiamento tra attività economica e consumo di risorse e inquinamento, almeno al livello di scala che sarebbe necessario. Attualmente per risolvere i problemi sociali all’interno delle nazioni europee non occorre una ulteriore ‘crescita’, bensì una più equa distribuzione dei guadagni e della ricchezza.

Inoltre la crescita sta diventando più difficile da conseguire: i margini di produttività si riducono, il mercato è saturo e aumenta il degrado ambientale. Se questo trend prosegue, entro dieci anni in Europa non ci sarà più crescita economica.   Attualmente la risposta consiste nell’aumentare il debito, stracciare le norme ambientali, prolungare l’orario di lavoro e ridurre le protezioni sociali. Sono scelte politiche aggressive, che per proseguire con la crescita a tutti i costi creano divisioni sociali, instabilità economica, indebolimento delle pratiche democratiche.

Finora chi è in posizione di potere non ha espresso la volontà di impegnarsi in un cambiamento: il progetto della Commissione Europea – di andare oltre il PIL – è diventato “il PIL e oltre”. Il mantra ufficiale rimane la crescita – anche se ‘sostenibile’, ‘verde’, ‘inclusiva’ – ma sempre e soprattutto crescita. Persino i nuovi traguardi dell’ONU per lo Sviluppo (UN Sustainable Development Goals) includono la crescita economica come obiettivo per tutte le nazioni, nonostante la fondamentale contraddizione tra crescita e sostenibilità.

Ma ci sono buone notizie: nella società civile e nel mondo universitario sta emergendo un movimento ‘post-crescita’, che in luoghi diversi viene definito con nomi diversi: décroissance, Postwachstum, economia di stato stazionario o ‘della ciambella’, prosperità senza crescita… tanto per citarne alcuni. Dal 2008 vengono organizzati regolarmente incontri e conferenze che raccolgono migliaia di partecipanti. Una nuova iniziativa globale, la “Wellbeing Economies Alliance” (WE-All), sta attivando dei collegamenti tra questi movimenti, mentre una rete Europea di ricercatori sta sviluppando ‘modelli macroeconomici ecologici’.

Questi lavori suggeriscono che è possibile migliorare la qualità della vita, ripristinare gli ecosistemi, ridurre le disuguaglianze, mettere a disposizione impieghi che hanno un senso – senza bisogno di una ulteriore crescita economica, purché si mettano in atto delle politiche svincolate da questa dipendenza.La petizione è stata firmata da Dan O’Neill University of Leeds, Federico Demaria Universitat Autònoma de Barcelona, Giorgos Kallis Universitat Autònoma de Barcelona, Kate Raworth autrice dell’Economia della ciambella’ (‘Doughnut Economics’), Tim Jackson University of Surrey, Jason Hickel Goldsmiths, University of London, Lorenzo Fioramonti University of Pretoria, Marta Conde President, Research & Degrowth e da altri 230 firmatari accademici. (Per la lista completa consultare il sito: http://degrowth.org/2018/09/06/post-growth-open-letter/).

Lavoro di ricerca e comunicazione sui conflitti ambientali

I firmatari della petizione sottolineano l’importanza di rendere operativi i risultati di ricerche che mettono in discussione il modello dominante basato sulla ‘crescita’, e fanno notare che – pur essendo stati pubblicati numerosi lavori accademici, anche recenti, su questo tema – i risultati non vengono illuminati dai riflettori dei media. Per questo motivo il gruppo si sta impegnando per far arrivare queste nuove prospettive al pubblico, organizzando eventi e pubblicando articoli divulgativi, e invitano i lettori a consultare il materiale pubblicato (qui).
Tra gli articoli citati ne segnalo uno, in particolare, di cui propongo qui di seguito la traduzione del riassunto. L’Autore, Joan Martinez Alier, è tra i maggiori studiosi dei conflitti socio-ambientali, che colloca all’interno di una prospettiva di ‘giustizia ambientale’. L’articolo (accessibile da web: http://link.springer.com/chapter/10.1007%2F978-981-10-5675-8_11) è il seguente: Martinez-Alier J. (2018) Ecological Distribution Conflicts and the Vocabulary of Environmental Justice. In: Dayal V., Duraiappah A., Nawn N. (eds) Ecology, Economy and Society. Springer, Singapore

Il riassunto. Tra economia e ambiente c’è uno scontro dovuto al crescente metabolismo sociale [1] delle economie industriali. L’energia non può essere riciclata. Quindi quella proveniente dai combustibili fossili   può essere usata una volta sola, e occorre trovare continuamente nuove fonti di carbone, petrolio e gas dalle cosiddette “frontiere di estrazione” di queste risorse. La situazione per i materiali non è molto diversa: anche se in parte si possono riciclare, anche un’economia industriale che non cresce ha sempre bisogno di nuovi apporti di minerali di ferro, bauxite, rame, polpa di legno. […] Nel frattempo beni permanenti, come gli acquiferi, le foreste, le riserve di pesca sono sovra-sfruttate, la fertilità dei suoli è minacciata, la biodiversità impoverita. Così, i cambiamenti di metabolismo sociale indotti dalle economie industriali (compresa la produzione di rifiuti e l’emissione eccessiva di CO2) danno luogo a un numero crescente di conflitti di distribuzione ecologica che talvolta si sovrappongono con altri conflitti sociali (di classe, di etnia, di identità, di diritti territoriali).

Il termine “ecological distribution conflicts (EDC)” cioè conflitti che si manifestano in relazione a trasformazioni ecologiche, è stato introdotto per descrivere conflitti che nascono da un accesso ingiusto alle risorse naturali e da un carico ingiustamente distribuito dei danni ambienali. Tali conflitti danno vita a movimenti di resistenza, al punto che ormai si può parlare di un movimento globale per la giustizia ambientale.

Uno scenario globale: l’atlante dei conflitti ambientali

In un altro degli articoli citati il responsabile della ricerca finanziata dall’European Research Council, Joan Martinez-Alier, insieme a Leah Temper e Daniela del Bene, presenta il risultato (tuttora in progress) di uno straordinario lavoro di indagine e documentazione di conflitti socio-ambientali , che in alcuni anni di lavoro (accademico e sul campo, frutto di collaborazioni tra ricercatori, attivisti, comunità di base, gruppi locali) ha permesso di costruire un ‘Atlante mondiale’ di tali conflitti, rendendo evidenti le situazioni di sopraffazione e di ingiustizia che caratterizzano il modello di sviluppo ‘estrattivo’ che si spinge sempre più lontano dalle sedi del potere, per impadronirsi di fonti energetiche e risorse minerarie, per saccheggiare ambienti naturali e scaricare nelle ‘periferie’ della Terra residui nocivi e prodotti inquinanti. La progettazione delle ‘grandi opere’ – dalle mega-dighe agli oleodotti, dai grandi tunnel ai nuovi aeroporti intercontinentali – è la premessa che spinge al saccheggio, perché c’è bisogno di grandi quantità di materia ed energia per costruirle. La loro realizzazione incentiva la crescita incontrollata del ‘metabolismo sociale’ (più spostamenti, più merci, tragitti più lunghi e più veloci) che porta a trasformare sempre più rapidamente il naturale in artificiale.

E’ in questo scenario che va interpretata la petizione citata all’inizio dell’articolo: ed è una petizione che arriva dal cuore dell’Europa!   In un mondo in cui il mito della crescita economica infinita si è scontrato con i limiti biofisici del pianeta, ogni ulteriore sostegno al modello di sviluppo dominante è fonte di crescenti conflitti, di profonde ingiustizie, e di trasformazioni irreversibili della biosfera. Ed è all’interno di questo scenario globale che dovremmo riflettere sulla situazione locale (della Valsusa e non solo) , e sulle alternative – ancora meravigliosamente (e miracolosamente…) possibili nel nostro Paese – per intraprendere finalmente una transizione socio-economica basata sull’equità sociale e sulla giustizia ambientale.


Nota

[1] Il metabolismo sociale è l’insieme dei flussi di energia e materia con una società scambia con la natura: esso dipende dalle attività che si svolgono, dalla cultura che orienta i modi di vivere della società, dai vincoli ambientali, dall’assetto politico ecc.

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