A partire da Simone Weil. Il nostro tempo interroga l’Arca | Annibale C. Raineri
Tempo
Che cosa è il nostro tempo?
Il nostro tempo è una struttura stratificata, in cui coesistono più cicli storici. Noi viviamo simultaneamente vicende non-simultanee: sincronia dell’asincronico. La crisi che viviamo è una faglia in cui – in una congiuntura il cui tempo non possiamo determinare – le diverse rotture, aperte in ciascuno di questi cicli, si sovrappongono determinando un’unica frattura.
Essa ci interroga e ci costringe a pensarla prima che, richiudendosi, ognuno dei diversi cicli riprenda la sua differente sincronia e si renda meno comprensibile.
Primo ciclo
In primo luogo possiamo definire il nostro tempo come il tempo della guerra. È questa la caratteristica più importante, ed insieme ciò che immediatamente si presenta innanzi a noi, si offre alla nostra vista sebbene volgiamo lo sguardo da un’altra parte. Un unico paradigma unifica guerre fra stati, terrorismi, costruzioni di muri fisici, costruzione di muri simbolici, riduzione in schiavitù.
Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che guerre locali non siano mai cessate: dopo i due massacri delle guerre mondiali si era istituito, nel discorso pubblico, il pensiero che la guerra non fosse un modo legittimo di risolvere le controversie internazionali. Al contrario nel tempo presente la guerra è nuovamente legittima. È un cambiamento enorme. La sua legge consiste nella legittimità dell’uccidere sistemico: posso uccidere l’altro perché gli nego lo statuto di essere umano, posso ucciderlo perché l’ho già ridotto a mera cosa, lui, essere umano vivente. Insisto: se posso legittimamente ucciderlo, esso è già, pur vivendo, mera cosa, un’anima che alberga in una cosa, condizione paradossale (Simone Weil). Il destino di morte cui sono costretti da politiche attive i migranti in ogni parte del mondo, e non solo nel Mediterraneo, è il segno più eloquente di questo paradigma, il grido che più ci interpella.
Al paradigma della guerra corrisponde il principio identitario: umani sono solo i membri della comunità cui io appartengo, fondata sulla identità nazionale, etnica, sociale. Il riaffermarsi di questo principio, che legittima il ritorno della guerra, sembra la risposta alla crisi sociale prodotta dall’ondata neoliberista che ha soppiantato il ciclo fordista-keynesiano.
È questo il primo dei cicli storici che coesistono nel presente del tempo che viviamo. Il suo orizzonte temporale abbraccia l’arco degli ultimi anni, ma ipoteca fortemente il nostro futuro. Esso ha la potenza dell’immediatezza che afferra i corpi.
Secondo ciclo
L’onda nera, razzista e neonazista, che attraversa l’Europa e gli Stati Uniti, sembra avere un carattere reattivo: cercare, con costruzioni immaginarie, di rifondare una forte identità, un senso collettivo di sé, un principio di autorità che dia stabilità all’universo sociale dentro cui si svolgono le nostre vite. Il senso profondo di anomia, di mancanza di sicurezza e stabilità, non sono però solo l’effetto dell’ultima congiuntura economico-sociale, essi sono il prodotto strutturale di una tendenza secolare che agisce nel profondo delle nostre società e che si impone con una andamento oscillante ma determinato, che diviene evidente nelle periodiche crisi economico-sociali che lo caratterizzano.
Questa tendenza è propria della dinamica del capitale. Il secondo strato del tempo presente è quindi il tempo del capitale, un ciclo storico che abbraccia gli ultimi trecento anni, in cui l’epoca della democrazia (liberale) sembrava aver realizzato l’ideale. Capitalismo non è oppressione sociale, è quella formazione sociale in cui domina il denaro, in cui cioè il denaro in quanto capitale è in posizione dominante. Denaro è, in questo senso, una forma di relazione sociale (fra gli essere umani che sono sottoposti al suo dominio) dotata di vita propria, cioè di una intrinseca tendenza espansiva (denaro che produce più denaro) e caratterizzata dall’essere mera relazione quantitativa, qualitativamente indifferente (nello scambiare un kg di mele con una cerniera attraverso la identica misura in denaro del loro prezzo, si istituisce non una relazione fra due cose ma una relazione – sociale – fra esseri umani, e si struttura questa relazione come relazione meramente quantitativa, qualitativamente indifferente, “piatta”, superficiale, senza profondità).
Il capitale è una relazione sociale dotata di una straordinaria potenza espansiva (se non si espande, crolla), che progressivamente penetra in tutti gli ambiti della vita: dalla produzione di oggetti concreti alla produzione dell’immaginario sociale (televisioni commerciali), alla produzione di strutture di relazioni interpersonali (social network: facebook, twitter, instagram, whatsapp), fino alla penetrazione nella riproduzione biologica della vita (ogm e biotecnologie), e della vita umana.
Questo lungo processo ha come effetto:
- – progressiva dissoluzione di ogni fissità sociale tramandata
- – dissoluzione di ogni autorità
- – individualismo sempre più accentuato e dissoluzione di ogni legame sociale concreto
- – relazioni prive di stabilità e durata
- – relazioni prive di profondità
A livello di questo ciclo storico, la riproposizione ideologica dell’autorità e del potere dello stato sovrano, combinato con il diffondersi di ideologie razziste, nazionaliste e neofasciste, appare come il tentativo (periodicamente riproposto) di contrastare la tendenza di lunga durata delle società capitalistiche, ricostruendo (illusoriamente?) senso di identità duraturo, certezza di sé, stabilità della struttura sociale.
La guerra è la pratica sociale che, paradossalmente, più si presta a realizzare questo compito, in quanto combina “virtuosamente” “rinforzo identitario” e lotta di potenza fra le diverse componenti sociali (sia verticalmente che orizzontalmente) delle concrete società capitalistiche, per loro natura anarchiche. Il paradigma della guerra è quindi, oggi, punto di intersezione fra il ciclo immediato della congiuntura storica attuale ed il ciclo lungo del tempo del capitale.
Terzo ciclo
Il tempo della guerra, infine, si sovrappone al lunghissimo tempo della storia umana inaugurato dall’imporsi del patriarcato e da forme di comunità umane fondate sulla coppia amico/nemico, che erigono muri ed armano eserciti (a segnare simbolicamente questo passaggio è il confronto fra l’antica Cnosso priva di mura e la rocca di Micene). Non è un caso che negli anni trenta del secolo scorso Simone Weil, mentre l’Europa si avvia verso l’epoca più nera della sua storia, si rivolge all’Iliade omerica per intendere il tempo che sta vivendo, che interpreta come espressione pura del lungo ciclo storico delle società fondate sull’oppressione: la forza come potenza della “bestia sociale”. (Significativamente Simone Weil indica fra i principali errori di Marx l’aver ignorato il ruolo della guerra nella storia umana, al pari della lotta sociale, indice ulteriore della sua subalternità alle idee del XIX secolo).
Identicamente Lanza del Vasto in quegli anni parte per l’India dove diviene discepolo di Gandhi, e in quel “oltre l’occidente” individua nella nonviolenza l’orizzonte spirituale per uscire da quella storia dell’uomo di cui la notte dell’Europa è manifestazione estrema.
Il terzo strato del tempo che stiamo vivendo è quindi quello del lunghissimo ciclo che abbraccia cinquemila anni della storia umana, il tempo del patriarcato e degli stati. Il carattere fondante che la guerra ha in questo universo sociale fa sì che il paradigma della guerra sia punto di intersezione del tempo attuale anche con questo lunghissimo ciclo della storia umana.
Confrontarsi con questo lunghissimo ciclo, segnato dall’imposizione del patriarcato e di forme di comunità fondate sulla coppia amico/nemico, e sulla negazione del carattere umano (non “meramente animale”) della generazione della vita umana e della cura di e per essa, significa fare i conti con la potenza sociale della forza – in particolare quando essa si organizza a partire dal carattere concentrato e monopolistico della violenza.
Arca
Lo sviluppo e la riflessione sull’esperienza comunitaria ha portato l’Arca a immaginare una via per affrontare il dilemma fra le due alternative non mediabili: svuotamento di senso-superficializzazione della vita versuscostruzione identitaria attraverso la coppia amico/nemico. Questa via consiste nell’approfondimento della dimensione relazionale del legame comunitario fondato sulla differenza e non sull’identificazione, dimensione che si sviluppa lungo i tre assi della relazione con l’Altro che abita il centro interiore di ciascuno, della relazione con la sorella ed il fratello che vivono accanto a me, della relazione con la Terra di cui mi prendo cura attraverso il lavoro.
La nonviolenza, in questa evoluzione, viene sviluppata come dimensione positiva (non oppositiva) di costruzione di stili di vita che si sottraggono al potere violento e oppressivo dei sistemi sociali, potere che, proprio in forza del suo carattere sistemico, sovrasta il singolo gettandolo nell’impotenza. Si tratta cioè, anzitutto, di sottrarsialle regole del gioco del sistema sociale, non di contrapporsi ad esso in una battaglia frontale. Il valore di questa direzione della vita è immediatamente evidente quando la violenza sistemica assume le forme del potere democratico, in particolar modo nella sua forma perversa (in Italia esemplificato dal governo Berlusconi), e il mondo sociale assume la forma della piena libertà individuale del consumismo (libertà di scegliere fra le infinite opzioni di godimento offerte dal mercato). In queste formazioni sociali il potere (conformato al denaro-capitale) si presenta come un muro di gomma che progressivamente assorbe ogni tentativo oppositivo. Di fronte ad esso non vi è altra strada che perseguire il proprio indirizzo di vita con coerenza, mirando con forza metodica all’essenziale.
Tuttavia, come penso ormai da qualche anno, siamo entrati in un’altra fase, se ciò che ho esposto all’inizio corrisponde effettivamente allo spirito del tempo. Viviamo tempi drammatici dai quali dobbiamo lasciarci interrogare, senza voltare lo sguardo altrove. L’immagine dei trattamenti subiti dai migranti e delle vittime civili delle guerre sono innanzi ai nostri occhi.
Il primo passo è uscire dalle nostre case, dalle nostre comunità, essere presentiaccanto a chi subisce violenza, ed insieme camminare accanto ai tanti in movimento animati da un’irriducibile sete di giustizia.
Essere presenti al nostro presente, tempo della disumanizzazione del mondo, là dove l’esercizio della forza riduce, per propria natura, esseri umani a mere cose, là dove non soltanto chi è sottoposto alla forza oppressiva perde la propria umanità, ma anche chi quella forza agisce (Simone Weil); tempo in cui la violenza torna in tutta la sua evidenza brutale a mostrarsi come il modo di funzionamento della macchina sociale, sbattuta in faccia ad ognuno senza che si possa più dire “non avevo visto”.
No, la sottrazione non basta più, sebbene continui ad essere dimensione fondamentale del vivere libero.
Di fronte alla affermatività del male non basta sottrarsi alla sua seduzione, occorre fronteggiarlo.
Ogni tempo richiede un diverso bilanciamento dei principi che guidano il vivere secondo giustizia e verità: oggi è tempo che il Sì torni a sostenere e far vivere il No dei profeti, e che la forza interiore si trasformi in potenza di interdizione.
Il duro nodo della forza è nuovamente la questione alla quale non possiamo sottrarci.
Palermo 25 agosto 2018
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