La situazione dei profughi in Bosnia/Croazia | Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi

Riceviamo attraverso la Fondazione Micheletti di Brescia testimonianze drammatiche sulla situazione dei profughi/rifugiati in Bosnia e Croazia: si tratta di un messaggio inviato con telefonino da un migrante in cerca di salvezza e del rapporto di viaggio di due volontari italiani, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi.

TERZO RAPPORTO DAI CONFINI BOSNIA/CROAZIA | 9-10-11 luglio 2018

Testimonianza di B.

“Ciao amici,
ieri sera ero nel “game” in Croazia. (espressione usata per descrivere la corsa verso l’altra parte del confine).
Ad un certo punto ci hanno arrestato. È stato terribile.
Eravamo tutti completamente bagnati. Quando si sono avvicinati siamo tornati subito nella “jungle”.
Eravamo vicino ad una fattoria, e siamo dovuti rimanere in piedi tutta la notte. Ci siamo nascosti. Erano a tre metri da noi ma non sono riusciti a trovarci, hanno comunque aspettato fino a mattino. Hanno sparato, ma non ci siamo mossi.
Per 5 ore sono stato in piedi sullo stesso posto fermo immobile.
Potete immaginare, 5 ore?
Se ci fossimo mossi ci avrebbero trovato, hanno aspettato tutta la notte.
La mattina quando è giunta la luce del sole, ci hanno trovato. Il poliziotto mi ha messo l’arma alla testa dicendo “pensi di poterti nascondere da me? Vuoi che ti fotto?”
Buttandomi a terra e mettendomi il piedi sulla schiena.
Gli ho detto di essere un vigile del fuoco (nel paese di origine) e che volevo solamente richiedere asilo.
Mi ha immediatamente gridato “puoi fare a botte con me?” Colpendomi al volto e dicendomi di stare zitto.
Sono rimasto in silenzio.
Successivamente hanno rotto tutti i telefoni. Ci hanno fatto sedere in un’auto che ci ha riportato indietro, ma non sul confine. A 23 chilometri da Kladuša.
Abbiamo poi camminato per 7 ore per ritornare al campo di Kladuša.
Non siamo né animali né criminali. Vogliamo solamente vivere una vita decente, ma loro ci trattano come criminali.
Hanno colpito un uomo di fronte a sua moglie ed al suo bambino. Chi può fare tanto? Chi?

Prendono tutto dai rifugiati. Soldi, telefoni.
Sono ladri, non poliziotti.

Buona notte.”

16/17 luglio 2018

Velika Kladusa 9 e 10 luglio 2018

È il nostro terzo viaggio in Bosnia; stiamo andando verso Velika Kladusa e poi scenderemo a Bihac.

Facciamo fatica a contemplare il paesaggio, pur così dolce, ampio e verde. Il nostro sguardo cade piuttosto sui boschi, sul limitare fra prato e macchia, sui pendii, e ogni volta ci chiediamo se ‘loro’ ce la faranno. Altrimenti, il prezzo è pesante: ricacciati, picchiati, derubati, deportati.

Noi siamo europei, anzi appariamo come turisti europei, graditi portatori di ricchezza. Al confine croato/bosniaco di Velika Kladusa transitiamo tranquilli, forti della nostra identità documentabile.

La cittadina di oltre 40.000 abitanti è più sparsa rispetto a Bihac e, ci sembra, con edifici nuovi o maggiormente restaurati. Poche sono le case rimaste con le tracce di proiettili e granate. Le strade e i locali sono animati fino a tarda sera, pieni di gente che appare convivere pacificamente con la massa dei profughi in continuo movimento da un posto all’altro.

Sappiamo che varie famiglie accolgono dei ragazzi o alcuni nuclei partecipando a un clima di accoglienza e di iniziative private che vanno dall’offrire vestiario, cibo o preparare dei pasti. Sappiamo, però, che l’amministrazione comunale vieta i contratti di affitto di case o stanze ai rifugiati ponendo con ciò una restrizione a possibili progetti avanzati da associazioni e onlus che di volta in volta si affacciano in modo propositivo.

Lungo la strada che ci porta al centro di Kladusa incrociamo vari ragazzi zoppicanti, ammaccati, sconvolti, frastornati, che stanno rientrando dal fallimentare tentativo di entrare in Europa. Quello che chiamano “the game”, il gioco per cui vinci o perdi nella “jungle”, li ha traditi e sanzionati. Sappiamo che ritenteranno, non hanno altra scelta se non marcire nel campo di terra e fango ai margini di ogni possibile vita.

Raggiungiamo in breve la postazione delle “docce”, un ex macello che dei bravissimi volontari hanno trasformato in uno spazio meno degradante ma sempre squallido. Gli orribili ganci appesi alle volte del soffitto sono una metafora della vita di questi migranti appesa al filo di una scommessa quasi impossibile.

Troviamo Samyr seduto su una pietra, la postura congelata, la schiena a ridosso del muro color prugna, nel volto una smorfia di inconsolabile sconforto.  “Vengo dalla Siria. Sono stato torturato, ho perso tutto. Ho camminato 10 giorni per arrivare in Slovenia. I poliziotti mi hanno scoperto nei boschi. Quando ho sentito i loro passi, mi sono trovato di fronte 4 uomini senza uniforme, ma ormai era troppo tardi. Sotto la maglietta avevano il distintivo della polizia. Mi hanno ammanettato e incarcerato per 2 giorni in un container senza acqua e cibo. Poiché mi hanno preso le impronte ho chiesto l’asilo. Mi hanno invece deportato in Croazia dove sono stato trattato in modo crudele e dove la polizia mi ha rotto il cellulare e derubato. La polizia croata mi ha poi accompagnato vicino al confine con la Bosnia. Mi hanno detto: vai cammina, sono solo 5 km per arrivare a Kladusa. Invece erano 25 km…”.

Il suo racconto è simile a quello dei tanti, innumerevoli ragazzi che tentano la via dei boschi. Poco distante, un gruppetto è seduto a terra tra rifiuti e sporcizia. Si sono tolti le scarpe, i loro piedi sono pieni di piaghe, le braccia e le gambe portano i segni di maltrattamenti e i tagli delle sterpaglie dei boschi attraverso cui avevano tentato la fuga. Nel tardo pomeriggio giunge il team di “SOS Kladusa”, Adis serbo di Banja Luka e Petra austriaca, che si occupano della gestione del “campo”, del reperimento e costruzione di chiodi e legni per costruire lo scheletro delle tende fatte di teli di plastica e di tante altre infinite cose. Adis gode un buon riconoscimento non solo da parte dei rifugiati ma anche da parte della polizia locale poiché mantiene una sorta di ordine e organizzazione fra le centinaia di persone.

Verso le cinque della sera, giunge su una piccola Volkswagen per distribuire le scarpe dividendosi i compiti con Petra. Mentre Petra, in piedi sul bagagliaio della macchina ritira il “tagliando” e consegna le scarpe “prenotate”, Adis cura le piaghe ai piedi e le ferite dei ragazzi che hanno perso il “game” e ritornano – dopo le deportazione dall’Italia, o dalla Slovenia che deporta in Croazia che deporta in Bosnia – contusi, picchiati, maltrattati, derubati di tutto e con i cellulari fracassati.

Yasir ci testimonia: «sono stato nelle mani dei croati, mi hanno preso nella “jungle”. Mi hanno portato via i pochi soldi che avevo, mi hanno picchiato e rotto il cellulare perché il mio non era buono. Se avessi avuto un telefono buono me lo avrebbero rubato. Ci fracassano i cellulari per impedirci di usare le mappe gps nella foresta. Senza gps ci perdiamo e siamo in balia di tutti i pericoli, anche della gente che se ci vede chiama la polizia»

Entrambi collaborano con le volontarie di “No Name Kitchen”. Le due associazioni si sono spartite le consegne: le ragazze spagnole raccolgono una a una le richieste con nome del profugo e numero di scarpe di cui necessita, mentre Adis con Petra le procurano per poi distribuirle uno o due giorni dopo. Le volontarie di “No Name Kitchen” si sono assunte anche il compito delle docce per cui, a giorni alterni, uomini e donne possono lavarsi con l’acqua fredda di fronte all’ex macello, in uno spazio organizzato e suddiviso con teli di plastica in 4 “cabine”. Organizzano, inoltre, la lavanderia ritirando il capo da pulire e rilasciandone un altro pulito. Portano tutta la biancheria nella loro casa, la lavano e asciugano per riconsegnarla alla doccia successiva. Con tutti i rifugiati intrattengono relazioni empatiche, fresche, genuine, solari oltre che professionali. A sera, quando cala il sole, svolgono delle attività ludiche con i bambini del campo che, sfortunatamente ed ovviamente non vanno a scuola e vivono nella deprivazione.

Ci raccontano che il problema sanitario più preoccupante, oltre alle allergie, ai funghi, agli esiti delle violenze subite dalla polizia croata, è la scabbia ormai diventata endemica. Poter avere calzini puliti da distribuire è una forma modesta ma necessaria di prevenzione, difficile però da reperire. Per questo motivo, il mattino seguente compreremo insieme decine e decine e decine di calzini oltre a biancheria intima e medicine, mentre occupiamo la serata con Adis e Petra a comperare scarpe, soprattutto quelle con la suola che non scivola per chi ha deciso di affrontare la foresta.

Apprendiamo che ora a Kladusa, a differenza del nostro primo viaggio avvenuto circa 20 giorni fa, nel campo interviene un medico, Samir, di MSF, per 3 volte alla settimana. Per i quattro giorni restanti cura i rapporti con l’ospedale di Kladusa rendendo possibile la cura dei casi più importanti. Samir, tuttavia, si lamenta per la troppa burocrazia cui deve attenersi come operatore di MSF.

La visita al campo è sempre uno shock. Tra qui ed altre postazioni fra cui un hangar poco distante, pare ci siano tra le 600 e le 800 persone in un numero sempre variabile fra chi arriva e chi se ne va. Restano soprattutto le famiglie, tante, troppe, con bambini piccoli, anche neonati, impossibilitate ad affrontare fiumi e foreste con i figlioletti così piccoli. I minori non accompagnati sono molti. Nei loro visi l’espressione è pietrificata, c’è chi si muove in modo meccanico, chi nervoso, chi chiede il sacco a pelo perché non riesce più a stare in questo inferno e vuole tentare il “game”. Tutti chiedono ombrelli perché qui piove tanto e i teli di plastica fanno acqua da tutte le parti.

Un gruppo di otto ragazzi curdi, cucina il chapati in improvvisate teglie su fuochi di sterpaglie. Vogliono raggiungere l’Europa ma per ora hanno solo accumulato due anni nei camps della Serbia e 3 mesi di detenzione in Bulgaria. Accanto a loro, steso a terra con una coperta che lo ricopre, il corpo di un ragazzo che aveva tentato la salvezza ed in vece, ci raccontano, la polizia croata l’ha preso e picchiato duramente con i manganelli sulla schiena, sulle gambe, sulle braccia. Poi, naturalmente, derubato e deportato a 30 km da Velika Kladusa. Ora giace qui, inerme, dormiente, evitando il risveglio che lo riporterà alla realtà.

Quando arriviamo al campo, i bambini, soprattutto loro, compaiono per primi correndo scomposti. Alcuni ti arrivano addosso con quel vezzo di indifferenziata amicizia chiedendoti tutto e nulla, attaccandosi alle tue mani o gambe come a voler trarre una presa corporea che li agganci alla vita che non hanno.  Altri bimbi, invece, non si separano dalle madri, non alzano lo sguardo o ingannano sé stessi vagando nella polvere alla ricerca di qualcosa che non c’é. Il loro è un tempo pieno di vuoto che si fa corpo nello sguardo a volte assente, a volte vacuo.  Spicca oggi una bellissima bambina di 6 forse 7 anni, i capelli neri e lunghi raccolti con un elastico dietro la nuca. Indossa un vestitino color rubino che contrasta con lo squallore e la polvere del campo. Nei suoi occhi una tristezza senza nome, nel suo volto non un sorriso. Vedere un bambino che non sorride è come guardare allo specchio la nostra civiltà che sparge morte

Questa Europa tanto desiderata è in realtà un trauma di Stato inscritto nel corpo

Bihac 11 luglio 2018

A Bihac ci sono due grandi edifici fatiscenti che ‘ospitano’ i rifugiati, costruiti prima della guerra e rimasti poi abbandonati da quasi trent’anni, quindi in grave stato di degrado. Uno dei due, a pochi metri dal fiume in cui ci si lava e anche si beve, non è seguito né dalla Croce Rossa, né da altre associazioni.

Ci avvicina un uomo, che ci mostra una mano con tracce vistose di bruciature. Ci dice di essere stato torturato nel suo paese: la Siria. Si accompagna a un altro profugo, che sembra essersi assunto un qualche compito collettivo, il quale ci racconta che in questo fiume, in alcuni punti molto largo e con rapide insidiose, pochi giorni fa è annegato uno di loro. Il suo nome è Sayed.

Ci informa subito, palesemente turbato, che tre ragazzi, alle cinque del mattino, forse in dormiveglia, sono caduti dal terzo piano: visto l’edificio molto alto e completamente privo di schermi e ringhiere di qualsiasi tipo per finestre, porte, terrazze e scale, la cosa purtroppo non stupisce. E’ stata chiamata un’ambulanza. Il più grave, con gravi fratture, è stato trasportato a Sarajevo, gli altri due all’ospedale di Velika Kladusa.

Un particolare si aggiunge come nota dolorosa in più a queste vicende tragiche: la madre del ragazzo trasportato a Sarajevo ha cercato al cellulare il figlio che, ormai, non poteva più rispondere. Ha chiamato allora un amico apprendendo quello che gli era accaduto.

Come si sarà sentita questa madre lontana migliaia di chilometri? Impotenza, dolore, rabbia si mescolano fra noi ad altre emozioni creando un legame di comunanza con Sayed e con gli altri due siriani che si sono fermati con noi assieme a lui. Impossibile in questo frangente elaborare tanta tragicità.

Osserviamo da fuori questo edificio. La volta precedente eravamo entrati notando la grave pericolosità delle trombe vuote fra piano e piano, il cemento marcito, l’acqua infiltrata che colava, i buchi enormi che si aprivano come voragini nei pavimenti. Allora erano poche decine, poco più di una cinquantina

Ora, dentro questa struttura, vivono circa cinquecento persone (dato della Croce Rossa di Bihac)

Nel cosiddetto Dacki Dom, l’altro e più grande edificio fatiscente che ospita ‘ufficialmente’ i rifugiati, c’è l’intervento regolare della Croce Rossa e, ora, di altre associazioni come IOM, Medici senza frontiere e Save the Children. L’elettricità è stata recentemente ripristinata dal Comune, i servizi sanitari, posti nel cortile, sono stati migliorati rispetto al nostro viaggio precedente, ma sempre inadeguati, dato l’aumento del numero degli occupanti che è salito da 500 a 900 persone. Ricordiamo che si tratta dello scheletro di un edificio destinato a una scuola o casa per la gioventù, con varie locali non agibili perché pericolanti o con pericolosissimi larghi buchi sul pavimento, con porte che danno sul vuoto, con ambienti in cui il cemento marcio lascia passare l’acqua. Immaginiamoci l’autunno piovoso e, peggio, l’inverno in un territorio in cui nevica molto.

A nostro parere, questa condizione pessima, non ha tanto a che fare con l’indifferenza delle istituzioni locali, quanto con la povertà generale del cantone di Bihac.

Salendo la rampa interna di scale, al primo piano, ci si rende conto della pericolosità del palazzo. Sprovvista di corrimano, la scalinata è completamente esposta. Ci sono molti bambini che giocano. Ci sembra che nell’ultimo periodo siano aumentate le famiglie con bambini: almeno trenta ci dicono, ma non c’è un’indagine precisa. Un bambino gioca a nascondino fra le scale, si sporge pericolosamente, e ci rendiamo conto che quel vuoto potrebbe inghiottirlo in un baleno. Scendendo, al piano terra, ci colpisce un bambino che gioca con un carro armato, facendo ‘bum, bum!’.

In uno degli stanzoni dei piani superiori, incontriamo due ragazzi che cominciano a parlare con noi. Ci raccontano: “Abbiamo 18 e 24 anni. Veniamo dalla Siria. Siamo nei Balcani da due anni e mezzo, prima bloccati in un campo in Serbia. 15 giorni fa siamo riusciti ad arrivare a Trieste e abbiamo manifestato la nostra volontà di chiedere asilo. La polizia ci ha preso le impronte, ci ha fatto le foto, ci ha trattenuto per un giorno in Questura. Poi ci hanno deportato in Slovenia, che ci ha deportato in Croazia. La polizia croata ci ha picchiato, ci ha rubato quel poco che avevamo, compreso il cibo, ci ha rotto il cellulare, preso i documenti. Hanno anche aizzato i cani. Poi ci hanno deportato verso la Bosnia e ora siamo di nuovo qua, a Bihac”.

Dopo averci raccontato la loro storia i due ragazzi ci invitano a mangiare con loro una sorta di zuppa che stanno preparando su un fuoco improvvisato dentro una coltre di fumo.

La gran parte degli ‘ospiti’ di questa pericolante struttura mangia invece collettivamente, ai tavoli di uno stanzone, il cibo portato dalla Croce Rossa (una minestra di legumi, ci sembra, con un pezzo di pane – le volte scorse avevamo visto anche pezzi di carne) –, dopo aver fatto una lunghissima fila che dura almeno due ore nel cortile (pensiamo a quando piove!). Il tutto è sorvegliato da due imponenti poliziotti vestiti di nero. Alcuni, invece, preferiscono cucinarsi da soli, in altri stanzoni. “Il cibo della Croce rossa non è buono”, ci dicono. Ma forse intendono dire che preferiscono un cibo più legato alla loro cultura, come abbiamo visto in questi gironi dell’inferno: stavano infatti cuocendo il ‘chapati’.

Attorno al Dacki Dom il parco è ora occupato da moltissime tende, tipo igloo. Incontriamo uno stand di Save the Children che cerca di occupare i bambini con alcune attività ludiche. Anche qui, però, come a Kladusa, i bambini ci appaiono senza infanzia.  Una ragazzina alta e molto magra, sicuramente adultizzata, dall’espressione seria e composta, ci chiede di portarla con sé perché vuole raggiungere la mamma e la sorellina di sei mesi che vivono in Germania. Cerchiamo di capire come mai è qui, ma non è facile. Il suo inglese è stentato. Troppi altri bambini, inoltre, ci tirano da tutte le parti frugando dentro le nostre borse, impedendoci di mantenere la giusta attenzione. Lei ci porta verso una tendina per farci conoscere colui che dice essere suo padre (sperando davvero che sia suo “padre”): un uomo sulla quarantina che non spiaccica una parola. Forse conoscerà anche lui l’inglese, ma perché mai dovrebbe fidarsi di noi?

Chi siamo noi se non degli intrusi che fanno domande e foto, come ci contestava un altro ragazzo con un ascesso al dente che lo tormenta da giorni. “Potevamo portarlo in ospedale? Potevamo aiutarlo? Perché tutti vengono qua, ci fotografano e poi se ne vanno mentre noi restiamo bloccati in questo inferno? Perché non aprite i confini?” ci chiedeva. Un altro amico di questo ragazzo, disteso su un lercio materasso sulla rampa di una scala, ci guardava con lo sguardo di chi non si attende nulla. Due enormi cisti, se di cisti si tratta, gli avevano invaso la fronte e l’occhio. Stava lì, inerme, restio al nostro contatto, in compagnia della sua vulnerabilità.

Tornando alla ragazzina che ci chiedeva di portarla con noi, le lasciamo un sacco a pelo per il freddo della notte e, chissà, per tentare la salvezza.

Come lei, tantissimi altri minori non accompagnati, ragazzini che appaiono avere 16 anni ma forse ne avranno 14 o 15, si aggirano tra il parco e la strada che porta al confine. La sensazione è che si portino addosso una disperata solitudine.

Non esiste un sistema di registrazione dei minori non accompagnati mentre si stima che siano almeno trenta le famiglie con bambini che vivono nell’edificio chiamato Dom

Oltre alla Croce Rossa, a Bihac opera MSF con interventi sia nel Dom (3 volte settimanali), sia alla sede della Croce rossa (4 volte settimanali) mentre l’IOM gestisce tre case per famiglie.

Sarebbe voluta intervenire a Bihac anche l’associazione sanitaria ungherese Smilinghelpers, le cui bravissime operatrici – l’infermiera Adrienne Schmidt e la medica Judit Mogyoròs – abbiamo conosciuto in piazza Victoria ad Atene; ma per loro è stato impossibile non avendo l’autorizzazione per svolgere attività medica in Bosnia.

Regolarmente, una volta alla settimana, interviene con aiuti e volontari l’onlus italiana One bridge to Idomeni.

Il nostro contributo

Il nostro contributo come volontari indipendenti si basa sulla raccolta fondi svolta attraverso una rete costituita ad hoc.

Grazie alle donazioni di molte persone, abbiamo raccolto e consegnato:

nel nostro secondo viaggio (15-16-17 giugno 2018) a Bihac:  1425 euro depositati sul conto della Croce Rossa locale per acquisto di beni di prima necessità

in questo terzo viaggio ( 9-10-11 luglio 2018) abbiamo raccolto 2.380,00 euro

La raccolta fondi è stata suddivisa tra KLADUSA e BIHAC.

A Velika Kladusa abbiamo comperato beni per un totale di 2.891,60 marchi bosniaci

  • il 9 luglio abbiamo acquistato 38 paia di scarpe per 1.203,55 marchi bosniaci  assieme a “SOS team Kladusa”
  •  il 10 luglio 2018, con l’associazione “No Name Kitchen” abbiamo comperato almeno 300 paia tra calzini calzini, mutande, canottiere, poi medicine, colori per bambini per un totale complessivo di 1.688,05 marchi bosniaci

a Bihac ( 11 luglio 2018) abbiamo consegnato e depositato sul conto corrente della Crveni križ grada Biha?a  ossia la Croce Rossa locale un totale di 1.717 marchi bosniaci

Ringraziamo tutte le persone conosciute e sconosciute che hanno creato con noi una comunità solidale permettendoci di portare aiuti concreti ai profughi confinati in Bosnia.


Qui una testimonianza video del campo profughi di Kladusa, ripresa da Al Jazeera (In lingua slava)

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