Governo Lega e 5 Stelle. Un commento a margine | Claudio Belloni
Lo si ripete spesso, ma forse questa volta è proprio vero: stiamo assistendo a cambiamenti epocali che ora travolgono anche il nostro Paese. Trump conquista la più grande democrazia del pianeta, Putin consolida il suo controllo autoritario sulla grande Russia, entrambi invocano esplicitamente il primato degli interessi nazionali ed esercitano una forte influenza sui molti che li guardano con ammirazione. L’Europa Unita è minata dalla Brexit, dalla crescita dei partiti neofascisti e dei «populismi», dalla deriva autoritaria e razzista del gruppo di Visegrad. Per ora il cuore dell’Europa, Francia e Germania, ha saputo porre un argine a questi fenomeni grazie ad accordi politici che non sembrano riproducibili in altri paesi come il nostro.
Nel momento in cui scriviamo queste righe, in Italia si profila un inedito esecutivo guidato da un movimento difficilmente inquadrabile da un punto di vista ideologico e con una capacità di governo tutta da dimostrare. Il principale alleato, invece, ha chiarito fin troppo bene il suo posizionamento lepenista ed essendo anche il più vecchio dei partiti italiani può contare su una classe dirigente che ha dato prova di saper ottenere ciò che vuole. La presenza ingombrante di un Berlusconi ora riabilitato, e comunque mai sconfessato dalla Lega, lascia intendere che alcune delle più promettenti istanze del M5S – come legge sul conflitto di interessi, lotta alla corruzione e alla mafia – verranno per l’ennesima volta diluite se non del tutto accantonate. Gli altri partiti o non hanno nessun peso politico o non intendono farlo contare, come nel caso di un PD tenuto in disparte dai calcoli di colui che ne determina l’indirizzo. Lo spessore umano e politico di questa legislatura, insomma, non consente di immaginare che il nostro Paese possa affrontare i problemi che lo affliggono e tanto meno quelli di un quadro internazionale sempre più preoccupante.
Ciò che scuote l’occidente dal suo cuore americano fino alle sue estreme propaggini nei territori dell’ex impero sovietico è un profondo e diffuso malessere. L’ultima crisi ha colpito duramente ceti medi e lavoratori, i quali per di più, in quanto principale base contributiva, hanno pagato l’intervento pubblico per salvare gli istituti finanziari che avevano generato la crisi (a quanto pare, nella generale demonizzazione dell’intervento pubblico un certo tipo di eccezione rimane auspicabile). Il sistema che ora (bisognerebbe scrivere ancora, perché era già successo nel 1929, ma la storia non insegna mai nulla) mostra le sue falle – e che sempre più spesso viene messo in discussione non appena al popolo sovrano è concesso di esprimersi – è quello del sistema di potere economico-politico-ideologico degli ultimi decenni. Qualcosa di simile si era verificato nei ruggenti anni Venti americani; poi la brutalità della crisi aveva costretto gli Usa a trattenere con politiche «keynesiane» i peggiori istinti del capitalismo con una più equa distribuzione della ricchezza. Questa e un maggiore consenso politico hanno poi sostenuto la potenza americana e la crescita dell’intero mondo occidentale nel secondo dopoguerra. Per alcuni decenni, l’occidente capitalista ha dunque condiviso col suo nemico – l’oriente comunista – una certa attenzione al mondo dei lavoratori. Al di là dell’ideologia e di una sobria sicurezza sociale, sull’effettiva capacità del socialismo reale di prendersi cura dei lavoratori si possono nutrire non pochi dubbi, ma gli effetti più positivi il sistema sovietico li ha forse ottenuti in modo indiretto dall’altro lato della cortina di ferro, dove la minaccia comunista ha pesato sul piatto della bilancia dello stato sociale.
Tutto questo è finito con Reagan, Thatcher e la caduta dell’Unione Sovietica. Il capitalismo, senza più freni politici interni ed esterni, dagli anni Novanta ha riprodotto le condizioni della nuova crisi. Come la classe dirigente liberale degli anni Venti e Trenta, una classe politica diversamente piegata all’ideologia capitalista ha assecondato e servito i profitti di pochi perdendo progressivamente contatto con i molti. Ora come allora, nel disorientamento generale le democrazie e i partiti tradizionali si indeboliscono mentre si rafforzano le tentazioni semplicistiche dei nuovi nazionalismi, autoritarismi, delle chiusure identitarie, razziste, ecc. Giocare con questi fenomeni, tollerarli, sottovalutarli, pensare di gestirli è giocare con il fuoco. Lasciarli fare pensando «tanto peggio tanto meglio» è follia irresponsabile. Purtroppo lo abbiamo già visto e pagato carissimo. Denunciare i «populismi» (termine onniesplicativo per dire «antisistema») non serve a risolvere i problemi dei popoli, né a scongiurare i loro errori elettorali. Ostinarsi a far sacrifici a Mammona può giovare al benessere dei suoi sacerdoti, ma la storia insegna che è tragicamente miope, e lo spirito insegna che è anche poco evangelico.
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