La guerra tra noi

La guerra tra noi

Angela Dogliotti

Cecilia Strada, La guerra tra noi, Rizzoli, Milano 2017, € 18,00, pp. 182 

Sono andata lontano per capire quello che succede qui. Questa affermazione, messa come sottotitolo all’avvincente libro di Cecilia Strada, La guerra tra noi, è forse la chiave di lettura più profonda e complessiva per comprendere ciò che l’autrice ci racconta nel testo.

Provo ad enucleare quelli che mi sembrano i più significativi contributi ad una riflessione critica sul mondo nel quale siamo immersi, attraverso alcune parole/espressioni-chiave.

La prima è “sicurezza” e mette in evidenza la grande contraddizione: si dice che è per la nostra sicurezza che andiamo in guerra, fabbrichiamo armi, manteniamo eserciti e alleanze militari “[…] dopo molti anni, però, siamo tutti più terrorizzati. Più guerra, più violenza, più terrorismo. Più povertà e disuguaglianza […]” (p.7). È la guerra, dunque, che alimenta insicurezza, toglie diritti, impoverisce le persone perché sottrae risorse alla vita per destinarle alla morte. Dobbiamo, allora, riprenderci questa parola. Perché, come scrive Cecilia, la sicurezza vera è “[…] avere un tetto sopra la testa, un’esistenza dignitosa, la garanzia dei bisogni fondamentali. Essere liberi dalla paura” (p. 9).

E sapere che, attivando la nostra parte di potere e di “responsabilità” (ecco la seconda, fondamentale parola-chiave), possiamo mettere qualche sassolino nell’ingranaggio potente della guerra e della sua preparazione. Perché il punto debole del sistema guerra è l’essere umano che, come scrive B. Brecht, ha un difetto: può pensare.

Collegato a ciò, un aspetto che balza subito agli occhi nel libro è una duplice narrazione: da un lato è rappresentato in tutta la sua potenza il “mostro della guerra”, con le sue conseguenze di dolore, fame, malattie, miseria, morte, orrore e distruzione; dall’altro emerge con forza anche la costante azione di donne e uomini che cercano di contrastarlo: negli ospedali di Emergency, nell’azione politica dei movimenti pacifisti e nonviolenti, nella denuncia contro le fabbriche e il commercio degli armamenti, nella lotta dei comitati per la riconversione…

Anche perché è sempre più evidente che “il conto della guerra” si presenta sia nei luoghi in cui è combattuta, sia dove la si prepara e sostiene. Una delle voci di questo conto, che paghiamo qui, è quello delle persone che da noi cercano rifugio, quelle che, secondo una propaganda purtroppo oggi molto in voga, dovremmo “aiutare a casa loro”.

Ci sono pagine di intensa partecipazione ed empatia nel raccontare di bambini come Mohammad – dieci anni, della minoranza afghana degli Hazara – confinato su una roccia in mezzo all’oceano, l’isola di Nauru, che riesce ad essere accettato con la sua famiglia in Australia solo dopo tre anni di attesa e dopo scioperi della fame e bocche cucite col filo da pesca da parte dei naufraghi in fuga dalle violenze dei talebani, dalle bombe della Nato, dalla miseria. O come il bambino con il panciotto, sbarcato in Sicilia, o la nonna scappata dall’Eritrea con i suoi sette nipoti e che ci ha messo due anni di viaggio per arrivare…

Ma ci sono anche tante storie a rammentarci la guerra tra noi: il G8 di Genova, con il ricordo del terrore che provi quando ti trovi a scappare dal tuo Stato, a nasconderti da chi ti dovrebbe proteggere; la Sardegna occupata dalle basi nato, sfregiata dall’attività bellica dei poligoni di tiro, inquinata dai veleni di Quirra e delle altre servitù militari; lo sfruttamento brutale dei lavoratori soggetti al caporalato nei ghetti di Puglia e Calabria; la militarizzazione della Val Susa, dove il cantiere dell’Alta Velocità è protetto da alti cancelli e filo spinato, contro il nuovo terribile nemico No Tav.

Tuttavia, quando il buio sembra essere sempre più fitto, bisogna ostinarsi a cercare le luci o, come scrive Italo Calvino, a “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (citato a p. 132).

“Se mi guardo indietro, vorrei solo aver dedicato più tempo, in mezzo alle macerie, a mettere via i mattoni delle cose belle e positive. Delle alternative possibili, di chi anche in tempo di guerra costruisce pezzi di pace. Di chi ferma anche solo un ingranaggio della fabbrica della guerra, di chi cerca di uscire dal sistema di sfruttamento e lo fa tirandosi dietro qualcun altro. Perché davanti ai mali sociali non dobbiamo restare soli ma uscirne insieme […] (p. 175).

In questa ostinazione sta la forza di chi rifiuta di sentirsi impotente e, nonostante tutto, cerca di percorrere strade di resilienza, di solidarietà e di lotta.

Come Cecilia Strada testimonia in questo libro.

1 commento
  1. Emanuela
    Emanuela dice:

    Parlare di guerra, di armi e delle loro conseguenze oggi si deve più che mai. Affrontare i temi delle migrazioni, della povertà e della sicurezza sotto questa chiave è necessario. Promuovere la cultura della Pace in questo mondo alla deriva ci sembra indispensabile. Per questo anche noi ospiteremo Cecilia Strada il 16 marzo pv.
    Grazie per l'accurata recensione.
    Emanuela Morani
    libreria Il Segnalibro (Magenta)

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