Cremazione: un regalo per la terra, per la Terra e per i nostri figli | Cinzia Picchioni
Da almeno due anni ci penso seriamente. Ho cominciato a farlo molti più anni fa, quando mio padre (morto nel 1995), durante uno dei nostri bei viaggi, mi confidò – tra il serio e il faceto – che se si fosse accorto che stava per morire si sarebbe imbarcato su una nave buttandosi in mare (del resto era stato un marinaio, in tempo di guerra). Uno dei motivi, mi disse, era che non sopportava il «teatrino» del vestito, della camicia, delle scarpe (!), insomma della «vestizione» di un corpo morto, usanza che gli sembrava assurda.
Cinema
Successivamente per me c’è stato Braveheart (si sa che devo sempre fare almeno una citazione cinematografica… non posso proprio farne a meno), in cui Murron, l’amata moglie di «Cuore impavido» (questa è la traduzione del titolo) viene seppellita in piena terra, avvolta in un sottile lenzuolo che sembrava di garza… una scena meravigliosa.
Prima ancora, per me c’era stato un altro film (di cui non ricordo nulla se non quella scena), in cui il vecchio padre del protagonista, accorgendosi di essere troppo vecchio per proseguire impone al figlio di abbandonarlo sul ghiaccio, a morire. E il figlio gli lascia una coperta, e prosegue il suo cammino, perché altrimenti sarebbe morto anche lui: si vede la sagoma scura del padre, accovacciato su una lastra di ghiaccio, che piano piano si fa sempre pù lontana e sbiadita. Pensavo: che coraggio! E che bel regalo per il figlio… lui ormai era vecchio e avrebbe solo rallentato la marcia.
Mamma?
Tempo fa ho dovuto presenziare all’esumazione del corpo di mia madre, morta quando io avevo solo 28 anni. In Lombardia – dove viveva – la scadenza è 30 anni, dopo la quale si può rinnovare – pagando, ovviamente – il contratto di «affitto» del loculo per altri 30 anni. Oppure – come le mie sorelle maggiori hanno scelto di fare – si apre il loculo, si rompe la bara e la chiusura di zinco, si guarda se il corpo è «mineralizzato» (un eufemismo per non dire «ischeletrito») e, nel caso che non lo sia, si crema. Ma come, cremarlo? Alla fine di tutto non lo si è fatto 30 anni fa, nonostante il desiderio di mia madre (che però non l’aveva scritto, e così ha deciso mio padre per lei), e si fa adesso, con costi ben più alti? (se si voglia considerare anche l’aspetto economico…)
Così, mi sono detta, oltre ad aver pagato fiori di soldi al momento del funerale, e poi per 30 anni (lapide, affitto, luce, fiori, piante), si paga pure adesso, come se fosse un «nuovo» funerale? Non potevo crederci, eppure è successo proprio così: siamo andati al cimitero, come per un funerale, la lapide è stata tolta (e per fortuna qualcuno ha recuperato la foto) e probabilmente verrà distrutta, la bara è stata tirata fuori, è stata aperta, rovinandola, ovviamente, lo zinco è stato spaccato a colpi di ascia e infine abbiamo potuto rivedere la mummia del cadavere di quella che era mia madre…
Le mie credenze mi portano a considerare che «mia madre» non fosse già più «quel» corpo, a partire dal 9 ottobre 1986, quando lo ha lasciato. In Oriente si usa questo significativo modo di dire, «Ha lasciato il corpo», proprio come si lascia un abito per indossarne un altro. Questa è la teoria della reincarnazione (perché di teorie si tratta, nessuna è certa, nessuno è tornato dal «mondo dei morti» per rassicurarci), per me la più plausibile. Immaginate quindi che senso ha avuto pr me questa operazione, fatta soprattutto per le mie sorelle maggiori, che ci tenevano… Nessun senso ha avuto, ma un «senso» di tenerezza per quel piccolo corpo avvizzito attraverso e tramite il quale sono venuta al mondo. Questo è stato un bel pensiero, che ha albergato nella mia mente per qualche giorno dopo.
Figlio
La riflessione che invece da subito molto presente è stata quella della parte finale del titolo di questo articolo: «per i nostri figli». Mio figlio (unico, 27enne) ha voluto presenziare a questo «rito», anche perché non ha conosciuto la nonna, né aveva assistito al funerale, essendo nato nel 1990. Ed è pensando a lui, tra tot anni, obbligato a occuparsi del «mio» corpo, che ho deciso per la cremazione. Non sono stata convinta finora, stavo ancora raccogliendo dati e pensando e ripensando. Ma sul treno che ci riportava a Torino (mia città d’adozione, giacché sono milanese per nascita e vita fino a 28 anni) mi si è chiarito tutto.
E se fra 30 anni (immaginando ch’io muoia tra poco e venga seppellita) mio figlio fosse in Nicaragua? O in Olanda, a vivere? Mi sono immaginata il Comune di Torino che lo cerca (chissà poi se lo trova…) e gli comunica – come è stato fatto con la mia sorella maggiore – che deve tornare per decidere cosa fare delle spoglie di sua madre… No, proprio no, non vorrei fargli questo torto. Molto meglio che, una volta «lasciato il corpo» quell’ammasso di ossa e muscoli sia subito incenerito, e ritorni «polvere», come si legge nei testi sacri (o «alla Natura», se si preferisce). Già perché a Torino, al Tempio Crematorio, c’è la possibilità di far confluire le ceneri in un «luogo comune», posto sotto a un roseto. Così, se proprio si ha il bisogno di «rivedere» il proprio caro estinto, lo si può ammirare nei petali e negli steli di quei fiori vivissimi. Non vi pare più bello? Più «leggero»? Invece delle visite, che si protraggono per anni, davanti a una lapide con una foto «ferma» ai tempi della morte… mentre invece, al di là della lapide, il corpo si decompone?
Ricordo vivo
Non so voi, ma io non ho la sensazione di andare a trovare mio padre o mia madre, quando vado (raramente e «trascinata» da mia sorella, più per fare un piacere a lei) al cimitero. Mi sento molto più vicina a mio padre quando nuoto nel mare (o anche in piscina, dove siamo andati migliaia di volte), giacché lui mi ha insegnato a nuotare; ricordo meglio mia madre quando andavamo al lago, con la mia prima auto comprata usata con i primi soldi; mi sento più vicina ai miei genitori quando ripenso all’ultima indimenticabile vacanza (mia madre morì quell’autunno) in giro per l’Italia centrale; ricordo mio padre quando lo ringrazio per ogni pedalata che imprimo alla mia bicicletta, pensando alle decine di ore che ha speso per insegnarmi l’equilibrio sostenendomi per il sellino e correndo accanto a me; o ancora camminando in montagna, dove mi ha portato cento domeniche, scappando dalla Milano nebbiosa per andare a «cercare il sole». Questo sì, è mio padre, non il corpo che giace (vestito, calzato e truccato) dietro alla lapide con la sua foto a 60 anni!
Ecco dunque che spererei di essere anch’io ricordata in modo simile da mio figlio, senza lasciargli una specie di «spada di Damocle» che prima o poi gli cadrà sulla testa. Mi sembra un dono per lui, per la terra (a cui tornerei, rientrando nel ciclo della vita) e per la Terra (di cui non occuperei abusivamente gli spazi. Ricordiamoci lo slogan che un po’ di anni fa accompagnava le allora innovative campagne di sensibilizzazione verso la cremazione: «La Terra ai vivi»).
Non sono sola a pensarla un po’ così…
Fulco Pratesi, Presidente del WWF, propone una soluzione per lo smaltimento del «nostro» corpo, dopo che l’abbiamo lasciato (sono parole sue, da un suo scritto, riportate alla lettera).
«Si potrebbero adoperare i carnai, gli appositi terreni recintati e sorvegliati, impiegati dalle associazioni naturalistiche come il Wwf e la Lipu per alimentare i rapaci (soprattutto gli avvoltoi in Sardegna e i capovaccai sulle colline a nord di Roma). In quei carnai i nostri resti mortali potrebbero servire da cibo agli ultimi grifoni. Il tempo medio di distruzione della salma è di poche ore. Restano le ossa, è vero. Ma a questo inconveniente si potrebbe ovviare se al festino partecipasse anche l’avvoltoio barbuto, che lancia le ossa sulle rocce per divorarne il midollo. In pochissimi giorni, delle nostre spoglie non resterebbero che escrementi mineralizzati».
Cosa ne pensate cari amici?
Grazie per le risposte illuminate…
Qualcuno ha inviato delle risposte, e questa è la migliore:
già il Mazdaismo, antica religione dei Medi, prevedeva le cosiddette «torri del silenzio», sulle quali venivano posti i cadaveri perché gli uccelli rapaci ne ripulissero le ossa.
Anche i pellerossa delle praterie americane facevano la stessa cosa (hai visto «Corvo, Rosso, non avrai il mio scalpo» o «Piccolo Grande Uomo»?), non costruendo torri, ovviamente, ma preparando una specie di catafalco di rami su una collina sacra dove si deponevano le salme perchè le fiere le divorassero.
Cosa me ne frega di quello che sarà del mio corpo quando non ci sarò più come anima, pensiero, coscienza?! Se potessi servire ancora a qualcosa, mi farebbe piacere, ma so che sarà impossibile, perciò ho deciso che mi farò cremare. Del resto perché deve essere più accettabile l’idea di essere chiusi in una cassa piombata saldata con la fiamma ossidrica a decomporci lentamente, riempiendoci di vermi, di liquidi maleodoranti e verdastri, degli orripilanti gas della putrfazione? Meglio gli avvoltoi, che compiono un’operazione naturale e, tutto sommato, pulita, per cui Dio o la Natura stessa li ha selezionati.
Addirittura…
Sopravvivere nei propri cari: il rito funebre Yanomami
di Elisabetta Gatto (tratto da: www.sipuodiremorte.it)
Tra il mondo dei vivi e quello dei morti c’è una continuità e una corrispondenza: la relazione tra i defunti e chi è in vita è salda e deve essere coltivata.È ciò che credono gli Yanomami, una società di cacciatori-raccoglitori e orticultori che vivono nella foresta tropicale dell’Amazzonia del nord, al confine tra Brasile e Venezuela: per loro il (…) momento centrale del funerale è il reahu, un rituale che prevede una serie di fasi ben scandite. A cominciare dalla cremazione del defunto e di tutto ciò che a lui apparteneva. Le ossa calcinate sono raccolte e deposte in un paniere coperto poi di foglie e collocato in un luogo alto della casa. Allo spuntare del giorno gli uomini si recano nella foresta per tagliare il tronco dell’albero kamai che, scavato e decorato con motivi geometrici in urucù, un pigmento di colore rosso, servirà come mortaio per triturare le ossa. Quando ha inizio il pianto corale delle donne, un gruppo scelto di uomini – anch’essi con le guance dipinte – inizia la cerimonia della triturazione, riducendo in polvere le ossa. Il resto delle ceneri – ovvero gli oggetti e la legna usata per fare la pira – è buttato nel fiume, perché nulla di appartenente al defunto rimanga a interferire con i ritmi della vita della comunità (la sottolineatura è mia, NdA). Il giorno successivo si procede con la preparazione della festa. […] Viene preso il paniere con le ossa e portato in processione sul luogo dove già sono stati preparati pestello e mortaio. Dopo la macinazione, le ceneri del defunto vengono mescolate a un frullato caldo di banane. Mentre le donne piangono, i parenti e gli amici del defunto si riuniscono in cerchio e bevono la mistura: è un prezioso momento di condivisione, che testimonia la solidarietà con la famiglia in lutto, sancisce il rispetto per la persona amata defunta ed è un modo per assicurare alla sua anima il viaggio verso l’aldilà. È estremamente importante che vengano consumate le ceneri del defunto, per permettergli di trovare pace e fare in modo che non rechi disturbo ai vivi, nel villaggio (la sottolineatura è mia, NdR). Attraverso questa forma di endocannibalismo – vale a dire la pratica di consumare i resti dei propri parenti – i vivi assorbono la forza spirituale dell’anima del defunto. Per evitare che il suo spirito possa ritornare causando problemi alla comunità, vengono distrutti tutti gli oggetti che gli appartenevano e si evita di menzionare il suo nome. (…)
Alt! Fermi tutti: cosa-cosa-cosa? Mangiano i loro morti??? Bah! Selvaggi! Mi sembra già di sentirlo. Sentite allora qua, dalla civilissima Svezia, anni 2011 e 2014:
Morte naturale
di Christian Benna, 11 marzo 2011 e Anja Jardine, 4 luglio 2014
Che riposino in pace, purché a impatto zero. Nell’età della green economy anche l’ultimo viaggio deve ingranare la marcia della sostenibilità. Lo chiedono a gran voce gli ambientalisti britannici (e non solo) di Natural Death, un’associazione che da vent’anni si batte contro la morte che inquina. E lo mettono in pratica le centinaia di imprese inglesi che si sono tuffate nel florido business dell’eterno riposo in chiave ecologica: bare di cartone riciclato, urne di scarti di riso e vimini, cimiteri dove il cadavere si decompone senza conservanti chimici, macchinari per sciogliere i corpi nell’acqua.
Ogni anno, nel mondo, 50 milioni di persone passano a miglior vita. Ma lasciano dietro di sé sostanze tossiche e pratiche funerarie tutt’altro che ecocompatibili. Un cimitero a inumazione, secondo uno studio della Federazione europea dei servizi funerari, è equivalente a una discarica urbana di materiale organico. A mettere a rischio il suolo e le falde acquifere dei luoghi della sepoltura ci sono inquinanti come la formaldeide — utilizzata per fermare il processo di putrefazione — insieme a cloruro, ammoniaca e carbonio sprigionati dalla decomposizione stessa.
Insomma, il caro estinto è una vera e propria bomba ecologica. Che neppure la pratica della cremazione, sempre più in voga (utilizzata per oltre l’80 per cento dei defunti a Hong Kong, per il 70 per cento in Svizzera e Regno Unito, mentre in Italia è ferma al 10 per cento), sembra in grado di disinnescare. «Incenerire la salma in un crematorio significa emettere nell’atmosfera circa 200 chilogrammi di CO2. E l’energia utilizzata è pari a quella consumata da un’auto in 400 chilometri di percorso — spiega Rosie Inman-Cook direttrice di Natural Death — senza contare il peso delle otturazioni dentali. Il 19 per cento del mercurio rilasciato nell’ambiente deriva da cattive pratiche di sepoltura e dalle cremazioni».Will Hunneybel, titolare di Greenfield Creations, un’impresa funeraria dell’Essex, produce bare di cartone riciclato dal 1993: «Siamo stati i primi a entrare nel mercato. Oggi c’è un affollamento di imprese, anche se molte sono semplici importatori dall’Estremo Oriente. Noi realizziamo qui prodotti ad hoc esaudendo anche le richieste più insolite. Eco-bare a tema, disponibili in tutti i colori e tutti i motivi». In Gran Bretagna, il mercato dei green funerals cresce a doppia cifra: ci sono oltre 200 luoghi di sepoltura ecologica nell’isola (20 in più all’anno), e più di 20mila persone scelgono questo estremo addio ogni anno. L’ultima novità del settore arriva dalla Svezia, dalla biologa Susanne Wiigh-Masak che ha avviato in franchising (nel Regno Unito e in Corea del Sud) il suo brevetto sulla criomazione. Si tratta di un procedimento che scioglie la salma in un cocktail di acqua e azoto liquido a una temperatura di -18°C, con una macchina che separa l’acqua dai resti e dalle sostanze tossiche, come il mercurio. In Australia, Aquamation Industries utilizza il processo inverso: un ultimo bagno in acqua bollente di idrolisi alcalina che polverizza la salma e permette di usarla come fertilizzante. «Soluzioni davvero ecologiche — precisa Rosie Inman-Cook — ma che si scontrano con barriere culturali molto forti, specialmente nei Paesi cattolici».
E in Italia? Il fenomeno è cominciato in ritardo: da Venezia, dove a gennaio si è celebrato il primo funerale verde a opera della ditta Pagliarin, fornitore italiano di bare di cartone.
Buone speranze
«Addio lapidi di marmo e fiori di plastica. Per ricordare il nostro caro che non c’è più, faremo visita ad un albero ai cui piedi sono state interrate le sue ceneri. Il defunto rientrerà così a pieno nel ciclo della natura. In Italia alcune aree boschive acquisteranno una speciale sacralità grazie al progetto «Boschi Vivi», nato dall’idea di 4 giovani che si propongono di offrire un’alternativa alle classiche sepolture nel cimitero a cui siamo abituati».
Il Bosco Vivo sarà inaugurato a primavera 2018 a Martina d’Olba, in provincia di Savona, Liguria. Se l’iniziativa avrà riscontro, altri boschi sorgeranno, ovunque se ne trovino di raggiungibili.
L’intento della cooperativa Boschi Vivi è di prendere in gestione (da privati e/o da amministrazioni pubbliche) un bosco abbandonato e ripristinarlo, con manutenzione di sentieri e alberi, e recuperando i costi dai proventi delle sepolture (i cui prezzi dipendono dal diametro dell’albero, dalla sua posizione e dall’accessibilità).
«Il bosco si configura come luogo di pace e raccoglimento per eccellenza, atto a dimostrare il fluire della vita lenendo con dolcezza il dolore della perdita: non sono previsti grossi cambiamenti all’ambiente naturale se non per le targhe commemorative. (…) sono previsti anche posti “in comunità”, in coppia (albero partner) e quelli dedicati agli amici animali. Una cerimonia suggellerà l’interramento delle ceneri»
(i virgolettati sono tratti dal sito di Boschi Vivi, e questa è la pagina Facebook: www.facebook.com/BoschiVivi/
Nell’attesa, continuiamo a riflettere…
Quando ancora scrivevo le «Pillole di semplicità volontaria» per questa stessa «newsletter», avevo chiesto ad altri di scriverne qualcuna, «affine» all’argomento. Eccone una, non ancora pubblicata:
Oggi parliamo di buona morte
di Dario Cambiano
Una volta si finiva tutti sottoterra, e un secolo ti rimescolava con la terra, poi dopo un quattro o cinquecento anni magari quel cimitero veniva dismesso, si costruiva sopra, magari si tornava a coltivarci, tutto era più naturale, non c’erano «energie bloccate», la nostra morte non diventava ulteriore fonte di inquinamento. Anche l’uso di una bara di legno (benché molto più spartana di quelle attuali) era comprensibile, il legno torna alla terra, le piogge mescolano tutto, insomma non si creavano separazioni tra noi e l’ambiente.
Adesso?
Adesso siamo diventati matti.
Cremazione. Inquinante, spreca legno massiccio che finisce in cenere (circa 50 chili a bara), e poi le ceneri disperse, lo spreco di combustibile per arrostirci, insomma negativo su tutta la linea.
Inumazione: di nuovo: si spreca la bara, si spreca terreno che non viene più coltivato, e questo nell’ipotesi che si finisca nella terra. Pensate a finire in un loculo. Cemento. Spreco del vostro corpo che rimane rinsecchito dentro una bara, spreco della successiva cremazione (già, andatevi a leggere i contratti, dopo 50 anni al massimo o siete cenere (e in un loculo non potete diventarlo) o il Comune farà pagare a i vostri eredi un migliaio di euro per la cremazione dei resti!)
Dobbiamo tornare alla terra. Trovare il modo di risparmiare la povera bara che non ne può niente.
Allora.
Le bare brasiliane modello Ikea. Pratiche, economicissime, di cartone pressato.
Il funerale islamico. Un lenzuolo, tre se sei ricco, e via, sottoterra. Senza legno, senza spreco.
Il funerale indiano (quelli d’America): vi fate portare da un nipote nerboruto su sopra Chianocco (almeno, insomma, sopra i millecinque), una bella bottiglia di grappa e… via, uccisi dal freddo, carne per i rapaci. Se ce la fate, potete andarci con le vostre ormai molli gambe, ma il nipote che si carica il vostro vetusto corpo sulla schiena è più cinematografico.
Scherzi a parte: ma lo vogliamo fare un comitato per chiedere finalmente l’adozione in Italia della bare di cartone? Ci sarà ben un cavolo di deputato che voglia passare alla storia come «Joe Cimitero», no? O tutti, alla partenopea, al sentir parlare dell’ultimo viaggio si sfruculiano le parti basse e fanno le corna? Uffa.
Mi starebbe bene la bara di cartone (da considerare che il corpo perde liquidi, quindi dovrebbe essere "particolarmente pressato" e il rito fatto velocemente) per eseguire la cremazione. Mi penso cenere nel mio roseto, ad offrire colori di vita a figli e nipoti.
L'argomento ci tocca sempre, e sarebbe ora di costituire un comitato per la richiesta di forme di sepoltura più ecologiche. Oppure aprire un negozio per il noleggio di avvoltoi, iene, licaoni, e tutti quegli animali che possano ancora usare il nostro corpo. Propongo senz'altro che al Sereno Regis si costituisca un comitato per scegliere una delle due strade.
I Nativi Americani hanno sempre avuto difficoltà nel concepire il concetto dei vivi, sul possesso della Terra, figuriamoci il concetto di affitto per i trapassati. Anche loro li affidavano al fuoco, insieme a pochi oggetti personali, per farli ritornare alla polvere.
Favorevolissimo alla cremazione come scelta personale: qualche dubbio ce l'ho rispetto alla necessità di commemorare i defunti incardinandone la memoria in specifici luoghi/edifici. Senza quel che tale necessità ha prodotto saremmo privi di un sacco di testimonianze del passato (piramidi ecc.), che in fondo funzionano un po' come concime per nutrire idealmente le generazioni future.