Spingendo la notte più in là | Alessandro Ciquera

Il vento soffia forte e sbatte i teli che coprono le tende, si incrina il legno come un violino.
I tuoni in lontananza spezzano il silenzio della sera a Tel Abbas, siamo vicini alla stufa, mentre fuori sembra diluviare l’impossibile.
Ogni tanto la nostra quiete viene interrotta dal suono di pugni che bussano alla porta, per chiedere aiuto, per implorare un ascolto. Entrano, stanno alcuni minuti e chiedono supporto: per farsi ascoltare dalle Nazioni Unite, per ottenere le tessere dell’aiuto alimentare, per essere inseriti nelle liste dei corridoi umanitari.
Abu Zahra viene da Hama, ed è uno di loro, una delle migliaia di anime in pena che risiedono in questo limbo di Paese che è diventato il Libano, che brutta fine per quella che era considerata la Parigi del medio oriente.
In questa notte buia e tempestosa, con la luce elettrica che salta in continuazione e la connessione internet assente, ci racconta della fuga dalla Siria quando le bambine erano ancora piccole, e dello scoramento a vederle crescere e diventare grandi in un campo profughi.
Lui e sua moglie ci ripetono quella frase, quella benedizione stanca che ci portiamo dietro ovunque andiamo e chiunque incontriamo: “non ci rimane nessun altro, se non Dio e voi”.
Il Dio in cui credo non è un Dio vendicativo, e spero che un giorno tutte queste persone possano ricevere la loro giustizia su questa terra.
Un sacerdote che stimo un giorno mi ha detto, che bisogna cercare Dio nella relazione con le persone, più che nel regno dei cieli.
Il Dio in cui credo è il Dio dei vivi, che aiuta gli umili di cuore.
Alla luce di questo osservo Abu Zahra, che per l’ennesima volta ci chiede di poter partire con i corridoi umanitari, senza riuscire a comprendere che si tratta di un processo lungo, e che ci sono tantissime persone in attesa e in stato di bisogno almeno quanto lui, eppure lui questo fa fatica a capirlo, perché dal suo punto di vista lui è senza documenti, senza lavoro e lo scorso mese ha rischiato di essere arrestato ad un posto di blocco militare a nord di tripoli.
Abu Zahra è molto affaticato rispetto all’ultima volta che lo abbiamo incontrato.
La pioggia batte forte sulle tende, martellante come uno scalpello, il vento continua a tendere la plastica, facendola sbattere in maniera fastidiosa, spero vivamente che le costruzioni reggano e non vengano scoperchiate dalla forza degli eventi. Siamo in mezzo a un campo profughi, a cinque chilometri linea d’aria dalla frontiera con la Siria, intorno a noi non c’è niente che si potrebbe definire sviluppato, eppure non mi sento solo.
In questo piccolo rifugio, in balia della tempesta ritrovo le ragioni più profonde del perché abbia scelto di vivere qui in questi anni, perché ogni notte ha il suo termine, anche quella più scura e violenta. Se si ha la forza di aspettare, e di accendere una fiamma per riscaldarsi.
Ieri sera, più o meno alla stessa ora di questo incontro con Abu Zahra, accompagnavamo Rabia nella clinica di Issa, un villaggio alawita dove i profughi sunniti hanno spesso paura a recarsi da soli, a causa della simpatia dei suoi abitanti verso il regime di Assad in Siria; lo stesso che ha perseguitato i nostri amici.
Sopra la clinica serale frequentata da molti rifugiati siriani abbiamo visto due ritratti enormi che campeggiano, sono Nasrallah di Hezbollah e Assad insieme, anche questo non aiuta ad alleggerire il clima di tensione.
Ieri sera ci è stato chiesto di accompagnare il piccolo Rabia in questa luogo, il nome di Rabia in arabo significa Primavera: ha sei anni e da quando è arrivato profugo in Libano con la sua famiglia soffre di una disabilità dovuta ad un attacco di meningite acuta.
Rabia era uno dei bambini più vivaci del campo, ma in seguito a questo è rimasto pressoché immobilizzato nella sua misera tenda. Sua sorella, Amal di quattro anni, è affogata nel pozzo di scolo delle fogne lo scorso inverno, in una giornata infernale.
Comunica molto con gli occhi ed ha uno sguardo espressivo. Tutti i volontari che sono passati per un certo periodo da Tel Abbas hanno avuto occasione di conoscerlo e di affezionarglisi. Spesso, quando è stato male, lo abbiamo accompagnato a farsi una maschera di ossigeno e una puntura di antibiotici per alleviare il disagio.
Ieri sera era un giorno come tanti altri in Akkar, se non fosse che chiacchierando con l’infermiere in turno è venuto fuori che le condizioni di salute di Rabia, solitamente, non permettono a chi ne è colpito di vivere sopra i dieci anni.
Dopo un po’ nel suo stato, si fa fatica a respirare, perché i muscoli del torace non si sviluppano come dovrebbero, a causa del danno celebrale.
La mamma ha incassato questa notizia, non so quanto potesse esserne davvero consapevole, e siamo tornati a Tel Abbas, fermandoci in una farmacia notturna a comperare alcune medicine e latte in polvere.
Arrivati al campo, Abdelrazak, ci è venuto incontro e ha scorto un ombra sul viso della mamma di Rabia, a seguito di ciò, con una nota di preoccupazione nella voce le ha chiesto:
“Um Rabia, cosa è successo?”.
Lei ha iniziato a tremare e a piangere, abbiamo dovuto aiutarla a sistemare il bambino con la flebo attaccata in tenda, insieme ad altri abitanti del campo.
È una scena che mi si è impressa nella mente, questa madre, circondata dal buio e da domande senza risposta, che porta in braccio suo figlio con le lacrime che le rigano il volto.
Lei sa che suo figlio, che si chiama come la primavera, ha i giorni o gli anni contati, ma continua ad amarlo come meglio può, in questo luogo che con la pioggia battente di questi giorni diventa un mare di fango.
Mentre sto scrivendo, rifletto su come anche ogni singola goccia possa essere un insopportabile strumento di ingiustizia, su vite già segnate dal dolore.
Eppure la tempesta se ne frega dei miei ragionamenti, e continua a scuotere le tende, da sotto la porta filtra un’aria gelida come il ghiaccio.
Il cielo si è fatto coperto e senza stelle. I tuoni continuano a scandire i minuti. Passerà anche questa notte.
Comprendo che Rabia, come altri, ha il tempo scandito come la pioggia che batte sui tetti, e che non possiamo fare niente di concreto per impedirlo: ancora una volta siamo posti di fronte al limite umano.
Non possiamo sconfiggere la morte, ma possiamo dare valore al tempo che abbiamo a disposizione. Per Rabia e per tutti. La sua vita è il tempo di una lunga e bellissima primavera, piena di fiori.
Possiamo sembrare degli illusi, noi, sua mamma, la sua famiglia, a ostinarci a prendersi cura della sua situazione irreversibile. Tuttavia l’affetto scandisce il tempo molto più della sofferenza, lo rallenta, gli da un’altra forma. Allontana di giorno in giorno l’inevitabile, e Rabia, con il suo sguardo che ti scava dentro, ci insegna a vivere, ci ricorda di non sprecare nulla, di mordere l’esistenza. La sua vita è uno spartiacque, un promemoria, che mi fa sgorgare un ricordo di una poesia letta alcuni anni fa:
“Passa una vela, spingendo la notte più in là“
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