Il rivoluzionario sogno differito di Martin Luther King | Mgr. Danny Sjursen

 

 “Stiamo sperimentando l’affiorare di una tripla malattia acuta … [che] è stata in agguato nel nostro Stato fin dall’inizio … le malattie del razzismo, dell’eccessivo materialismo e del militarismo. … la piaga della civiltà occidentale”. — Martin Luther King, Aug. 31, 1967

Foto segnaletiche di Martin Luther King Jr. a seguito del suo arresto del 1963 a Birmingham, Alabama, per le proteste contro il trattamento dei neri (Wikimedia)

Uccidiamo i più belli fra noi—chiunque, pare, riveli gli elementi bruti, più indecenti della società americana e ha l’audacia d’immaginare, addirittura esigere, una rotta migliore: di pace, unità e tolleranza. Abraham Lincoln, Bobby Kennedy, Martin Luther King e tanti altri.

Quest’anno segna il 50° anniversario del tragico assassinio di King, e sebbene innumerevoli pubblicazioni saranno ricolme di commemorazioni e retrospettive di quest’icona fraintesa, per lo più mancheranno il bersaglio. Da tempo cooptato e sterilizzato dai personaggi politici mainstream, il King del ricordo corrente somiglia poco all’uomo reale, radicale e complesso.

Viene ricordato da Democratici e Repubblicani indifferentemente come il leader “buono”, “pacifico” dei diritti civili—nozione utile per mettere in risalto i “cattivi” attivisti del movimento per il potere nero, gli Stokely Carmichael, i Malcolm X e i Huey Newton del mondo. In realtà, le categorie non furono mai così nette, le comunanze sbalorditive.

In certo senso, tutti noi—bianchi e neri, liberal e conservatori—abbiamo il nostro King. Quello provocatorio, quello critico della bigotteria ma anche del capitalismo e della guerra del Vietnam. Il King, in verità, che è stato intenzionalmente nascosto alla vista.

Quando arrivai al dipartimento di storia [nord]americana a West Point nel 2014, mi diedero la cattedra e l’onere didattico dei diritti civili—a me, uomo bianco, eterosessuale, militare. Pareva che chiunque altro avesse studiato la Rivoluzione Americana o la Guerra Civile, e io, beh, feci una figura vagamente progressista e ben disposto, almeno in confronto con i miei pari. Da ex-studente di operazioni contrinsurrezionali in Irlanda del Nord, decisi di lasciar perdere la vecchia borsa di studio ed abbracciare il mio nuovo ruolo. Non mi sono mai guardato indietro. Ho fatto lezione e guidato un’escursione annuale estiva per cadetti per far visita a veterani del movimento qua e là per il sud [degli USA]. Mi trovai immediatamente di fronte una sfida, con due professori di diritto dell’accademia: al grossolano fraintendimento dei cadetti—e di gran parte degli americani—del movimento dei diritti civili e dello stesso Martin Luther King.

Dopo 50 anni, con gli Stati Uniti di nuovo nella morsa del conflitto razziale, di guerre culturali, di una rampante diseguaglianza  e di una guerra globale perpetua, sembra un momento valido come altri di inventariare lo stato dei “tre mali” di King: razzismo, materialismo e militarismo.

Il peccato originale dell’America: razza e privilegio

Il grido di “Potere Nero” è, alla base, una reazione alla riluttanza del potere bianco di fare il tipo di cambiamenti necessari a rendere la giustizia una realtà tangibile per i Neri. Penso che dobbiamo constatare che una sommossa è la lingua dei non ascoltati. E che cos’è che l’America ha mancato di sentire? L’andazzo economico precario dei poveri neri. MLK, 1966

Sono tutte sfide collegate, a proposito. Trattarne ciascuna come separata è privarle del loro ineluttabile potere intrecciato. Il razzismo è un’insensatezza. Non siamo progrediti quanto ci piace credere. Certo, c’è stata la sentenza Brown vs. Board, leggi sui diritti civili ed elettorali, perfino un presidente nero. Cionondimeno, ciascuna di queste vittorie storiche sta venendo rimangiata sotto i nostri occhi. Le scuole sono di nuovo segregate come due generazioni fa. Tribunali conservatori hanno smantellato clausole chiave della Legge sui Diritti Elettorali. Diamine: Jefferson Beauregard Sessions—un uomo troppo razzista per essere giudice del distretto federale [di Columbia: Washington, ndt] negli anni 1980—è a capo del Ministero della Giustizia.

Razza ed impero sono intimamente connessi. A riprova, si guardi solo alla  militarizzazione senza precedenti della polizia nazionale—abbigliata in tuta da campo e a bordo delle stesse autoblindo che guidavamo a Baghdad—e un infinito catalogo di casi di brutalità a sfondo razziale a livello nazionale. L’America sembra due accampamenti armati, fisicamente e intellettualmente isolati fra loro. Da cinquant’anni in una invincibile guerra alla droga tarata razzialmente: sono afroamericani a riemplre le prigioni in questa nazione —che ha il più alto tasso di carcerazione al mondo. Negli USA del 2018 un maschio nero ha una probabilità di reclusione nove volte maggiore che nel paese che lo precede nella lista nera: Cuba. Abbiamo molta strada da fare.

Il King di cui non si parla: anti-capitalista e anti-materialista

I problemi dell’ingiustizia razziale ed economica non si possono risolvere senza una radicale redistribuzione del potere politico ed economico.

I mali del capitalismo sono reali proprio quanto quelli del militarismo e del razzismo —MLK, 1967

Viviamo un momento peculiare, in cui quasi nessun americano leva lo sguardo dallo smartphone abbastanza da accorgersi che sta perdendosi “Real Housewives” [serie tv di successo, ndt]. Il vacuo mondo dell’adorazione delle celebrità e dell’assillo materiale non si presta all’attivismo appassionato che King esigeva. Un capitalismo del libero mercato, sfrenato, reso possibile da democratici liberisti come i Clinton, ha gettato alle ortiche il sogno americano e l’ha reso un incubo inafferrabile per molti: l’evidenza empirica ne è sconcertante.

La diseguaglianza di reddito negli apparentemente egalitari Stati Uniti ha raggiunto il peggior livello dall’Era Dorata. I salari per i lavoratori ristagnano da 40 anni, mente i superricchi si crogiolano in un imbarazzo di ricchezze. Il salario minimo federale vale meno in dollari reali che 50 anni fa.

Eppure è tutto ben peggio che questo. L’ossessivo materialismo e il gran giro di soldi (si pensi alle case farmaceutiche, al petrolio, al fracking) in politica hanno sospinto la cultura americana nella corsia espresso verso il disastro esistenziale. Viviamo in gran parte in una fissazione illusoria, rimuovendo dalla coscienza la tempesta in arrivo del riscaldamento globale con l’inseguire una gratificazione immediata nei click sui social media. Poco dopo che il presidente Trump ritirasse gli USA dagli accordi sul clima di Parigi, la Siria ci si è finalmente associata, rendendo l’America il vero, solitario pariah internazionale. Raddoppiandone realmente l’effetto, Trump ha poi recentemente emanato la Strategia di Sicurezza Nazionale del tutto priva del cambiamento  climatico nell’elenco delle minacce del Pentagono. Sono sicuro che King approverebbe.

Il maggior approvvigionatore di violenza: il militarismo USA, da 50 anni

Una nazione che continua anno dopo anno a spendere più denaro in difesa militare che in programmi di edificazione sociale sta approssimando la morte spirituale.

Sapevo che non avrei potuto levare la voce contro la violenza degli oppressi nei ghetti senza aver prima parlato chiaramente al più grande procuratore di violenza al mondo oggi: il mio stesso governo. —MLK, 1967

Si potrebbe plausibilmente argomentare che gli Stati Uniti restano un eminente fornitore di morte, o almeno di caos, in molte parti del pianeta oggi. È questo—il terzo dei mali di King—di cui ho più esperienza. Ahimè, nel 2018 il militarismo americano è vivo e prospero, dalla teatralità marziale simbolica che pervade la National Football League fino a una guerra davvero globale, continua e in espansione. Grazie a una laboriosa ricerca alla Brown University, ora sappiamo che l’apparato militare USA sta conducendo operazioni di contro-terrorismo—tutte guerre non dichiarate—in 76 paesi. Il conto finora? Circa 7.000 soldati americani morti (otto fra i miei), 1.300.000 morti arabi/ musulmani collegati alla guerra, 10 milioni di profughi e 5.600.000 milioni di dollari. Per tutto ciò, abbiamo ottenuto 30 volte più attacchi terroristici a livello mondiale di quanti avvenuti nel 2001. Che ruberia!

Acquisire altre nozioni fattuali sullo stato del militarismo USA comporta un giro macabro delle operazioni dirette e sponsorizzate per il Medio Oriente inteso nel senso più ampio. In Yemen, gli USA sono complici dei bombardamenti terroristici sauditi—mediante l’approvvigionamento di munizioni e rifornimenti in volo—che causano estrema carestia e l’epidemia di colera peggioe al mondo nella nazione più povera del mondo arabo. In Siria e Iraq, la campagna (forse giustificabile) contro lo Stato Islamico è risultata in ben più vittime civili di quanto originariamente reso noto. L’incessante sostegno del governo israeliano d’estrema destra ha contribuito a facilitare un incessante stato d’assedio dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Gli USA sostengono pure dittatori, re o uomini forti con ripugnanti stati di servizio sui diritti umani per tutta quanta la regione, dall’Egitto all’Arabia Saudita. Certo, sono dei truffatori, certo, abbattono i manifestanti, certo, decapitano le donne per “stregoneria”, ma sono almeno i nostri truffatori.

Il punto è semplice quanto allarmante: pur essendoci molti “procacciatori di violenza oggi nel mondo, gli  Stati Uniti sono lungi dall’esserne innocenti. Il militarismo è vivo e vegeto e in crescita nella nostra cultura sempre più marziale. Al tempo di King, le ragazzine vietnamite arse neggli attacchi al napalm manifestavano questa mentalità. Oggi, forse l’immagine più adeguata ne è il bambino yemenita che muore di fame.

Appropriazione dei defunti: commemorazione deliberatamente sballata di King

In America, negli anni 1950 e ‘60, una delle crisi importanti cui ci siamo trovati di fronte è stata la discriminazione razziale. L’uomo le cui parole e azioni in tale crisi agitarono la nostra nazione fin nel profondo dell’anima è stato il dr. Martin Luther King, Jr. —il presidente Ronald Reagan, 1983

Quando un attore di Hollywood [Reagan], carente perfino come tale, può diventare un candidato falco di guerra per la presidenza, solo le irrazionalità indotte da una psicosi bellica sanno spiegare una svolta così penosa negli avvenimenti. —MLK, 1968

Che voci neoliberiste e neoconservatrici — con tanto di personaggi di primo piano in ambo i partiti — ogni anno rendano il dovuto omaggio a King, senza una parola sul materialismo o il militarismo, è una disgrazia nazionale. Che l’ex-presidente Reagan, eroe della destra contemporanea, lo lodasse pubblicamente, rasenta l’assurdo. Tanto per non dimenticare, Reagan, dopo tutto, fece la prima tappa della sua campagna elettorale presidenziale nella contea di Neshoba, Mississipi —lodando i “diritti degli stati” nella città famosa perché vi furono assassinati tre attivisti dei diritti civili nel 1964. Nonché essersi inizialmente opposto al disegno di legge per la designazione della Giornata celebrativa per Martin Luther King Day. Ed essersi rifiutato di negare che King fose un “comunista”; Reagan diceva nulla più che “Lo sapremo solo fra 35 anni o giù di lì, no?”   E, a proposito, ci sono ancora quattro sentori (Repubblicani) in carica che votarono contro la Giornata M.L.King: Richard Shelby dell’Alabama (nessuna sorpresa lì), Chuck Grassley dell’Iowa, Orrin (non ci sono neri in Utah) Hatch and (preoccupante) John McCain dell’Arizona.

Ogni anno ci dobbiamo sorbire la stessa ipocrisia. Figure ortodosse di ambo i patiti—alcuni che votano per massicce esenzioni fiscali per i ricchi e quasi tutti a sostegno delle interminabili guerre USA—lodano pubblicamente e poi invocano lo spettro di King. Nessuno redige un piano per il 21° secolo che attui la visione ancora incompleta di MLK. Non ce l’hanno un piano del genere. Sono stati comprati e venduti da tempo da élite megaziendali e dal complesso militar-industriale. A destra, qualcuno indulge addirittura alla fantasticheria che King fosse in realtà un Repubblicano. Non lo era. A dirla tutta, King non avrebbe calzato nessuno dei due attuali partiti. La sua piattaforma e le sue tematiche preferite non ottengono quasi la pubblica ribalta salvo che presso la sinistra marginale. Cionondimeno, sia i Democratici sia i Repubblicani evocano lo spirito di King ad ogni gennaio per qualche piccolo guadagno elettorale: nefando!

Specialmente i Repubblicani, ma anche i liberal centristi, vogliono che crediamo che King fosse solamente una cosa: un ristretto attivista nonviolento dei diritti civili. Che abbia proferito un solo discorso: riguardo al sogno che le sue figlie, nere, frequentassero la scuola con le ragazzine bianche. Lo hanno sterilizzato, castrato il suo messaggio, omesso (con una impressionante neolingua orwelliana) le sue citazioni scomode. L’hanno fatto con intenzioni e un programma politico efferati: convincere le masse che la rivoluzione di King è finita, completata, terminale. Smettete di lamentarvi, statevene via dalle strade, non c’è motivo di protestare. Siate grati per quel che avete.

Non cascateci. Leggete, studiate, scovate il vero King, il King radicale, e raccogliete il testimone della sua lotta—un sogno differito—contro i tre mali ancora vivi e vegeti negli Stati Uniti: razzismo, materialismo e militarismo. I padroni di questo paese contano sulla vostra apatia. Dategli torto.

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Il maggiore Danny Sjursen è un officiale dell’ U.S.Army ed ex-istruttore di storia a West Point. Ha svolto varie missioni di squadre di ricognizione in Iraq e Afghanistan.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono proprie dell’autore, espresse in veste non ufficiale senza riflettere la politica o posizione ufficiale del Ministero dell’Esercito, del Ministero della Difesa,  o del governo U.S.A.


13.01.2018 – Truthdig
Titolo originale: Martin Luther King’s Revolutionary Dream Deferred
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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