Chi tira più forte | Alessandro Ciquera

Oggi abbiamo visto un uomo che ha visto la morte, ed è tornato per raccontare. Mohamad è stato arrestato a Baba Amr, il quartiere di Homs ribelle al regime dove abitava, sei anni fa, all’inizio di quella che in tanti hanno sperato fosse una rivoluzione, e che si è rapidamente trasformata in guerra civile e massacro. Come tanti siriani è stato catturato a casa sua, durante una retata in cui i militari governativi andavano casa per casa ad arrestare i maschi di famiglia.

Essere sospettato di sedizione era molto facile, bastava abitare in un quartiere “idealmente” vicino alla ribellione e non avere santi in paradiso a cui aggrapparsi per ottenere protezione.

Mohamad è stato portato via con le mani legate su di una camionetta insieme a tanti altri, prima a Damasco, nella sede dei servizi segreti dell’areonautica poi a Homs nella prigione statale. Sguardi fugaci ai propri cari, un pensiero alle bambine piccole, un saluto alla moglie. In queste situazioni rimane poco spazio per i sentimenti umani: le dittature non amano i contrattempi, e la guerra sta bussando alle porte di tanti.

Nella prigione dei servizi segreti di Damasco Mohamad vedrà l’inferno, come migliaia di anime prima di lui, corpi deceduti, torture sulla sua pelle, sangue, feci, denutrizione.
La dignità umana, e tutto ciò che esiste di bello al mondo, schiacciata in un seminterrato buio e umido. Un luogo dove la luce non entra, il regno delle tenebre sulla terra.
Personalmente ho scritto e testimoniato tante volte di storie di tortura, ingiustizie e persecuzioni. La Siria e la Palestina sono un ottimo laboratorio per i crimini di guerra.
Oggi la mia mano tuttavia ha bisogno di soffermarsi su qualcos’altro, i miei occhi hanno bisogno di vedere in Mohamad qualcosa di diverso da una mera vittima di abusi.
Desidero capire come abbia fatto a sopravvivere. Cosa l’abbia spinto, dal 2011 ad oggi a cercare di rimanere cosciente.

La scorsa estate, con un amico, ragionavamo su come lavorare in contesti estremamente gravi come i campi profughi siriani in Libano ti ponga di fronte a una perenne sensazione di sfida. Tra te e il buio. Spesso è come se di fronte a noi ci fosse un velo: un confine intangibile ma reale tra la vita e la morte, tra la solidarietà e la prevaricazione.
Cercare di aiutare chi soffre è come afferrare per un braccio qualcuno che sta per venire trascinato dall’altra parte del velo. Opponiamo una forza, alziamo una mano contro l’irreparabile.

Ho ancora questa sensazione addosso, ripensandoci, di qualcuno che aspetta pazientemente dall’altro lato del velo, qualcuno con cui dobbiamo ogni volta iniziare una sfida, su chi tira di più.
In alcuni casi non siamo riusciti a tirare abbastanza, e coloro a cui abbiamo voluto del bene sono scomparsi dietro questo velo. Tanti amici perduti, che sono stati risucchiati da questa forza tenace, aumentata dalla disuguaglianza sociale e dalla povertà. Vivendo a Tel abbas ciclicamente si ripresenta questa lotta, la senti quasi arrivare, in tutta la sua potenza. Ancora una volta chi attende oltre il velo reclama il suo tributo, solitamente una vita che ha già sofferto a sufficienza e che viene richiamata a lasciare il mondo.
In alcuni casi le persone muoiono così, scivolandoti inaspettatamente tra le mani, senza che tu non faccia neanche in tempo ad augurargli buon viaggio.

In altri momenti invece la resistenza è feroce, diventa quasi una questione di principio: se davvero la nostra vita vale quanto quella di un profugo allora dobbiamo batterci come faremmo per proteggere la nostra stessa esistenza. Arrivi quasi a guardarti negli occhi, con questa forza che vuole trascinare oltre il velo, ma non molli la presa e mentre altri si aggiungono inizi a tirare. La sfidi, la fronteggi a testa bassa, ricordando un detto popolare dei Balcani, citato spesso da un amico: per cui di fronte a qualcosa di provante la reazione non è l’abbandono, ma il rinvigorimento, un dire “Se è così ci metto il doppio della carica per farcela”. La traduzione letterale di questo adagio, a quanto ricordo, è “Mi impunto”.
Di fronte a una sofferenza grande come quella dei profughi, serve rispolverare questa piccola perla di saggezza che ci arriva dai popoli della Jugoslavia, più la via si fa stretta e più dobbiamo lottare per allargarla.
Serve creare ponti e connessioni, cercare cosa alimenta questa resistenza, e dargli spazio.
Mohamad, nei suoi anni di prigionia, aveva la sua resistenza: desiderava potere riabbracciare le sue tre figlie. Nella visita odierna all’interno del garage freddo e spoglio dove vive a Tel Abbas, arrivato da una settimana dalla Siria dopo la scarcerazione, i suoi occhi diventati miopi, indeboliti dal buio, si illuminano quando parla di quanto il suo cuore anelasse a incontrarle di nuovo le piccole, insieme a sua moglie.

Avrebbe voluto rivedere anche sua mamma Mohamad, se non fosse che nei primi mesi della sua detenzione, dopo avere accompagnato le bimbe a salutare il papà carcerato e successivamente averle riportate al sicuro a casa, lei sia rimasta colpita da un cecchino, andandosene da questo mondo in mezzo a una strada.
La mamma di Mohamad avrebbe voluto portargliele tutte le settimane in visita, dopo avere visto il bene che gli faceva salutarle.
Questo mi rimane di tante immagini: un dono della propria vita fino all’ultimo, un darsi che sfida le forze della morte.
Una energia che tira dalla nostra parte del velo invisibile. Questo è il meccanismo che rompe l’ingranaggio collaudato, l’ingranaggio che si divora le vite dei siriani.
Ciò che non è comprensibile solo con l’intelligenza, che ha bisogno di un altro organo per essere osservato.
Mohamad questa sera accende una piccola stufa a gas che gli abbiamo portato, sulle pareti serpeggiano piccole ombre di fuoco, il calore si diffonde. Le bambine, cresciute rispetto a quando il loro papà è stato arrestato, ci guardano con un misto di curiosità e divertimento.
“Chissà se fosse sempre così”, mi chiedo osservando Mohamad nel garage semivuoto, “se ci fosse la possibilità di evocare questa forza calorosa quando ne sentiamo più il bisogno, e la pressione dall’altra parte del velo invisibile si fa sentire”.
Penso alle tante persone che stiamo tenendo per mano in questi giorni, su cui ci siamo “impuntati”, come direbbero nei Balcani, e che proprio non vogliamo lasciare andare.
Ricordo la storia di Musaeb, 13 anni, che diversi medici in Libano avevano dato per finito a causa del suo cancro e della sua mancanza di risorse economiche, e che invece attraverso un ponte di amicizia, che abbiamo costruito insieme a tanti, è riuscito ad arrivare in Italia per sottoporsi a trapianto di midollo osseo. Oggi sorride in quel di Saronno, profonda Lombardia, insieme alla sua famiglia. Abbiamo corso il rischio che Musaeb ci morisse tra le mani: questo ha fatto la differenza alla fine, e non ci siamo voluti girare dall’altra parte, abbiamo tirato più forte che potevamo.
Questa vita che viene trasmessa attraverso il carico di responsabilità, attraverso il non lasciare indietro nessuno, è la stessa che ha tenuto vivo Mohamad in tutti questi anni di crudeltà.

C’è un filo bianco che lega questi percorsi. Tesserlo e seguirlo è la nostra unica protezione.

“Chiarito che contro la morte nulla possiamo,
non abbiamo altro da fare che stare attenti e donarci,
un attimo di bene, uno alla volta,
uno per noi e uno per gli altri.
Possono essere persone care o sconosciute, poco importa.
Quello che conta è rubare il seme del bene“.

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