Sarura: il villaggio della resilienza

Venerdì’ 27 Ottobre. E’ Il nostro primo free day dopo cinque giorni di raccolta delle olive nella zona di Hebron e abbiamo deciso di passarlo visitando At-Twani, un piccolo paese nelle colline a sud di Hebron.

Dopo alcuni inconvenienti sul raggiungimento del paese, dovuti all’inesperienza sul tragitto dei nostri drivers cittadini, che la dicono lunga circa l’enclavizzazione dei palestinesi che vivono questa sempre più pesante separazione, rimanendo confinati nelle aree di provenienza, raggiungiamo questo paesino di circa 400 abitanti.

Un paesino che unico nella zona possiede un piano regolatore riconosciuto da Israele dopo anni di cause e avvocati. Questo master plan ha permesso al villaggio di rinnovare le strade, di costruire una scuola ed un asilo e di allacciarsi alla rete elettrica e all’acquedotto, cosa molto importante per i piccoli paesi vicini, che non avendo accesso all’acqua pubblica possono rifornirsi pagando assai meno (anzichè 25 ILS).

Questo status unico nell’area è stato facilitato dalla presenza permanente di un gruppo di volontari italiani dell’associazione Operazione Colomba, che da più di dieci anni vivono con gli abitanti del villaggio.

Appena arrivati, veniamo accolti dalle tre volontarie presenti e da Hafetz, il capo del villaggio, nonchè membro del PSCC (Popular Struggle Coordination Committee), il board palestinese che rappresenta la resistenza popolare.

Dopo saluti e caffè, ci propongono di visitare un piccolissimo villaggio, Sarura, dove i giovani, insieme ad altri volontari di YAS (Youth Against Settlements), venuti da Hebron, hanno restaurato due abitazioni nelle grotte evacuate nell’esercito nel 1998.

Mentre camminiamo, E. viene chiamata da N. (il capo villaggio di Susyia, altro luogo diventato noto per le campagne di numerose organizzazioni, tra le quali B’Tselem – The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories,  per impedirne la demolizione e l’evacuazione) che l’avverte dei movimenti di coloni nell’avamposto di Avat Mahon contro una famiglia di contadini locali impegnata nella raccolta delle olive proprio sotto l’avamposto.

La volontaria ci chiede di allungare il nostro percorso per accertarsi di ciò che sta avvenendo. Noi acconsentiamo e raggiungiamo la famiglia nell’uliveto. Mentre ci avviciniamo vediamo, in alto, un gruppo di circa otto giovani coloni a volto coperto che si avvicinano accompagnati da un grosso cane nero. Improvvisamente i coloni iniziano a correre verso il campo, armati di pietre e bastoni, urlando presumibilmente insulti e sguinzagliando il cane, che corre veloce abbiando furiosamente.

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Noi e la famiglia rimaniamo fermi, interdetti sul da farsi, ma dopo indicazioni concitate ci dirgiamo verso la collina opposta che fronteggia l’avamposto. I settlers lanciano pietre che colpiscono un ragazzo della famiglia alla gamba.  Vediamo con sgomento che un bimbo è rimasto isolato più in basso.  Alcune ragazze e le volontarie iniziano a riprendere l’accaduto (come da indicazioni ricevute) e partono dal gruppo telefonate concitate.
Le due donne palestinesi si fermano e accortesi della difficoltà del bimbo iniziano una sassaiola conto i coloni, che permette di mettere in sicurezza il bambino.
Tutti gridano, mentre noi ci guardiamo, interrogandoci sul da farsi.  Dal paese e dalla collina iniziano a raggiungerci in gran numero gli abitanti dei villaggi e i coloni arretrano verso l’avamposto. Arrivano, in sequenza, la border police, i soldati e la security dell’avamposto, mentre noi siamo raggiunti da H. e da suo figlio S. che ci invitano a proseguire verso Sarura; durante il percorso apprendiamo che i giovani coloni hanno chiamato soldati e polizia, millantando  di essere stati aggrediti dai palestinesi, e ripreso l’ultima parte dell’aggressione. Fortunatamente ci sono i nostri filmati che hanno ripreso integralmente l’accaduto e che possono provare la verità. Ancor più fortunatamente nessuno viene perquisito o arrestato e proseguiamo un po’ più tranquillamente verso Sarura.

All’entrata ci accoglie un cartello di benvenuto: “Welcome in Sarura “Sumud” (Resilienza) Camp”. Ci sediamo tutti insieme e H. inizia a raccontarci la storia dei villaggi e della resistenza nonviolenta delle South Hebron Hills. Mentre parla, comprendo non solo l’importanza della loro scelta ma anche la bellezza del loro progetto su Sarura, che queste comunità vogliono fare rivivere come luogo aperto, condiviso, disponibile a tutti per eventi, spazi di discussione e buona musica.

Sarà costruita, all’interno di una grotta, una biblioteca che ospiterà libri  scritti in differenti lingue,  a seconda della provenienza di chi li ha donati (ci proponiamo di portarne anche noi alcuni).
Mentre guardo questo paesaggio pietroso e immobile, scorgo piccoli ulivi appena piantati e penso al caro Professore Alberto L’Abate, che ci ha lasciati pochi giorni fa, e al suo insegnamento circa la necessità di formulare sempre, anche all’interno del più aspro conflitto, un progetto costruttivo.

Ecco! Sarura mi sembra proprio quel luogo.

Chiedo ad H. di poter dedicare un piccolo ulivo al nostro caro professore. Mentre prepariamo la dedica,  una nostra volontaria propone di dedicarne un altro al prof. Antonio Papisca, che ci ha lasciato proprio quest’anno. Lo conoscevamo e lo seguivamo da anni nel suo formidabile e fondamentale lavoro a difesa dei diritti umani.

Lasciamo Sarura lasciandoci alle spalle due piccoli ulivi irrigati e curati che portano sull’esile tronco le nostre dediche, fragili e forti come le nostre volontà di aiutare questo popolo nella sua aspirazione alla pace e alla giustizia.

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