Oriente/occidente

Francesco Ciafaloni

I motivi e il contesto storico che portarono, il 2 novembre di 100 anni fa, alla Dichiarazione Balfour da parte della Gran Bretagna, sono da sempre al centro di un intenso dibattito. Per alcuni quella dichiarazione fu un gesto umanitario, altri sostengono che fu soprattutto un modo di imporre la politica coloniale in Medio Oriente. 

Ci piacerebbe poter muovere la storia oltre quel documento – una lettera in realtà, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild – principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista – con cui il Governo britannico s’impegnava nel 1917 a stabilire uno stato nazionale per il popolo ebreo – un «focolare ebraico» – in Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano. Tale posizione era emersa pochi giorni prima (il 31 ottobre 1917) all’interno di una riunione governativa. 

Per questo riprendiamo un testo di Francesco Ciafaloni, che ci aiuta a riflettere sulla Dichiarazione Balfour con una prospettiva allargata all’intera contrapposizione che sembrerebbe opporre Oriente e Occidente ancora oggi come cento anni fa. 

Può essere – come suggerisce Sergio Bologna nei suoi lavori sulla deriva della finanza mondiale – che la capacità di convivenza sia andata persa con la globalizzazione e con la scomparsa della cultura materiale: quel saper fare che nobilitava le tecniche e permetteva, con gli scambi, un reciproco aumento di «ricchezze», dando luogo a trasformazioni lente dei quadri ambientali, fisici e mentali in cui si forgia l’umanità. 

Ma una contrapposizione così ostinata, che sembra togliere ogni speranza, non si basa in realtà su nessuna diversità storica, culturale o religiosa davvero inconciliabile dopo millenni di convivenza e scambi che, a partire dal Mediterraneo, sono stati oggettivamente fra i più fruttuosi nell’intera storia della civiltà.

Francesco Ciafaloni cita Ahad Ha’am, intellettuale ebreo di origini russe, che ebbe un ruolo importante per la promulgazione della Dichiarazione Balfour. Ahad Ha’am fu anche uno dei pochi appartenenti al movimento sionista, a sottolineare anche gli obblighi concomitanti espressi nella Dichiarazione a non «commettere nessun atto che potesse compromettere i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche residenti in Palestina». 

Ahad Ha’am – che si definiva «Sionista culturale» e desiderava che i fini politici del Sionismo considerassero (come è scritto nel capitolo sulla sua biografia della Encyclopaedia Judaica) anche «i diritti nazionali degli Arabi Palestinesi» – morì nel 1927. Un suo allievo americano, Judah Leon Magnes portò avanti il progetto di integrazione in Medio Oriente, e tenne il discorso inaugurale all’Università ebraica di Gerusalemme per l’anno accademico 1929-’30, dopo un’estate di rivolte e ritorsioni violentissime, ricordate dalle due parti come il massacro del 1929, o la ribellione di Buraq. «Uno dei principali doveri culturali del popolo ebreo – affermò allora Magnes – è cercare di vivere nella Terra Promessa non con i mezzi dell’occupazione, come Joshua, ma con i metodi della pace e della convivenza, attraverso il lavoro duro, il sacrificio, l’amore, e con la volontà di non fare nessun atto che non possa essere giustificato davanti alla coscienza del mondo». (Enzo Ferrara)


La contrapposizione tra un Occidente “razionale, sviluppato, umano e superiore” e un Oriente “aberrante, sottosviluppato, inferiore”, per usare le parole di Edward Said, anziché attenuarsi o sparire per i contatti reciproci, le migrazioni, la complementarità, il lavoro delle università asiatiche ed africane, la evidente e crescente autonomia culturale degli “orientali”, sta crescendo, si sta trasformando in antislamismo, in paura, in chiusura: muri, espulsioni, trasferimenti, accentuazione della contrapposizione culturale e religiosa.

“Noi” siamo i civili e prosperi cittadini di Stati democratici; “loro” sono i fanatici, omicidi, intolleranti, e perciò poveri, membri di tribù di predoni. Non vorrei spendere troppe parole per dimostrare che, almeno sui maggiori giornali, con poche eccezioni, le cose vengono presentate così, perché mi sembra evidente. Vorrei invece spenderne molte, con molti esempi, riguardo gli Stati e le singole persone, le lingue, le culture, la prosperità, la democrazia, gli autori importanti, che le cose non stanno così. All’origine di molti conflitti, attuali e remoti con l’Oriente, c’è stata e c’è una rivalità, o proprio una guerra, tra occidentali, spesso tra europei. Sono state potenze occidentali, europee, a creare dittature a loro favorevoli che hanno sconvolto o troncato la vita di molti. La prosperità, l’esistenza stessa, di molti Stati occidentali, tra cui l’Italia, è recente, successiva all’appropriazione di gran parte del mondo da parte di americani ed europei. I popoli, le persone, si sono trovate in bilico tra Oriente ed Occidente, tra parti in conflitto; hanno avuto identità divise o hanno cambiato identità. Per dimostrare, per suggerire almeno, la verità di questa tesi, che in effetti mi sembra ovvia ma ignorata, farò esempi presi dalla letteratura e dalle storie di alcuni miei amici immigrati e citerò alcuni studiosi del nazionalismo che si sono incontrati alla London School of Economics e qualche testo classico, o addirittura sacro.

L’Egitto di Napoleone e quello di Allenby. La Libia dei Senussi e di Gheddafi

Secondo Said, l’Orientalismo nasce con la conquista, militare e culturale, dell’Egitto da parte di Napoleone, che arriva armato non solo di cannoni ma anche di linguisti, tecnici, mercanti; e con al seguito anche un certo numero di ebrei francesi ed italiani. Sull’importanza dell’evento, che è un episodio della conquista militare e culturale del mondo da parte delle potenze europee maggiori, non c’è dubbio. Anche l’arrivo degli ebrei italiani e francesi, che vanno a pregare nella stessa sinagoga degli ebrei locali, a differenza dei francesi cristiani che non vanno nella chiesa copta, è importante per la percezione degli egiziani. Silvio Zamorani, di famiglia ebrea egiziana, di remota origine mantovana dal lato paterno, editore a Torino dopo una fuga dall’Egitto con la famiglia nel ’56, ha pubblicato L’ Egitto agli egiziani! Cristiani, musulmani e idea nazionale (1882-1936) di Paola Pizzo. Il libro sostiene che è stato l’arrivo degli ebrei francesi e italiani a generare la esclusione degli ebrei locali, presenti da sempre, dall’identità nazionale, di cui i copti hanno continuato a far parte fino agli ultimi decenni. L’Occidente è permeabile. Gli ebrei egiziani, certo non quelli di tutti i paesi arabi, cominciano ad essere considerati Occidente allora.

Ma mentre i francesi conquistano e studiano, Horatio Nelson sorprende la flotta francese nella baia di Abukir, e, manovrando nelle acque basse e utilizzando al meglio i propri cannoni, la distrugge. Napoleone, che ha sterminato il vetusto esercito mamelucco, deve abbandonare il corpo di spedizione, che finirà con l’arrendersi agli inglesi, e tornare in Europa. E’ solo uno dei conflitti intraeuropei che hanno segnato la storia del Medio oriente assai più della contrapposizione Oriente/Occidente. Saranno gli inglesi, e poi gli americani, a sostituire i francesi come presenza europea prevalente; ma ancora oggi in molti paesi dell’Africa centro-orientale gli europei si chiamano ferenzi.

Anche l’intervento anglo-francese in Libia, molto criticato dalla Foreign Affairs Commission del parlamento britannico, perché improvvisato, privo di chiari obiettivi strategici e persino di adeguate risorse militari (gli americani hanno dovuto fornire le munizioni agli anglo-francesi dopo una sola settimana di guerra) e finito in un disastro sociale, umanitario e politico, sembra essere stato determinato soprattutto dalla volontà di sottrarre il paese al monopolio petrolifero dell’ENI e al predominio commerciale italiano, frutto dell’accordo Berlusconi-Gheddafi, sordo ai diritti civili ed umani ma fruttuoso per gli affari, pubblici e privati, degli italiani.

Non mancano certo anche episodi di puro imperialismo, con colpi di Stato (in Iran addirittura due, nel ’23 per insediare i Pahlavi e nel ’53 per rovesciare Mossadegh) nella spartizione del vuoto lasciato dal crollo dell’Impero ottomano, con l’accordo Sykes-Picot, che crea la Siria (in quota francese), la Giordania, l’Iraq, il Kuwait, i vari emirati. Al novero delle potenze in conflitto per le risorse si aggiungono gli americani, a partire dall’incontro tra Franklin D. Roosevelt, di ritorno da Yalta, con Abd al-Aziz al-Saud, che fonda l’alleanza di ferro tuttora solida, malgrado tutto, e dal mancato appoggio americano agli anglo-francesi-israeliani contro Nasser per la nazionalizzazione del Canale di Suez, nel ’56. Ma non è il caso di ripercorrere la storia dei misfatti degli imperi occidentali. Vorrei solo far notare che il motore delle controversie è soprattutto la rivalità tra europei, non la contrapposizione ai cattivi orientali. I conflitti sono visti da una parte sola dalla maggior parte dei testi in inglese. “Fare la storia del colpo di Stato contro Mossadegh solo su fonti in inglese è come fare la storia di Pearl Harbour solo su fonti in giapponese” osserva un autore, inglese ma bilingue. La lingua conta molto. Non possiamo far finta che basti sapere l’inglese perché tanto le cose importanti le leggono e traducono gli americani di varia origine, bilingui per biografia.

Identità divise

A quali ebrei pensava e che cosa intendeva Balfour nel 1917 quando si impegnò a creare un focolare ebraico in Palestina? Certo non pensava che i vari rami della famiglia Rothschild (la dichiarazione era indirizzata a Lord Rothschild) si raccogliessero intorno a quel focolare; né pensava a Marc Bloch, che sarebbe diventato uno dei massimi storici del secolo, combatteva allora nell’esercito francese e sarebbe stato fucilato nel giugno del ’44 perché partigiano, non perché ebreo; né agli ebrei che studiavano e insegnavano nelle università britanniche; né agli ebrei italiani, che rappresentavano due terzi delle accademie, come si capì quando il governo fascista li espulse nel ’38. Pensava forse agli ebrei dell’Europa orientale, ai sionisti, ad Asher Ginzberg/Ahad Ha’am, che si proponeva di costruire un centro di irradiazione culturale, non uno Stato, e scrisse La verità su Etretz Israel, cioè che quella terra era già popolata. Allenby stava risalendo la Palestina verso Megiddo, dove avrebbe sconfitto l’esercito ottomano, e promise molto anche al principe Hussein e alle famiglie arabe importanti. Nel 1929, mentre lasciava la Palestina, Hans Kohn scriveva: “I mezzi determinano il fine. Se i mezzi sono le menzogne e la violenza i risultati non possono essere buoni … Siamo stati in Palestina per 12 anni senza aver fatto un solo tentativo serio di cercare il consenso della popolazione indigena … Penso che riusciremo a tenere la Palestina e a crescere a lungo. Lo faremo prima con l’aiuto britannico e più tardi con l’aiuto delle baionette nostre – vergognosamente le abbiamo chiamate Haganah (difesa) … I mezzi avranno determinato il fine. La Palestina ebraica non avrà più nulla a che fare con la Zion con cui mi sono schierato.”

Le identità non sono documenti dell’anagrafe. Un saggio autobiografico di Isaac Deutscher, il biografo di Trockij, si intitola L’ebreo non ebreo. La storia di Xenia Panphilova Silberberg, nonna materna di Clara Sereni, autrice de Il gioco dei regni, è intitolata Storia di un’ebrea non ebrea. Non era ebrea per discendenza, infatti. Aveva solo sposato Lev Silberberg, rivoluzionario ebreo russo, impiccato per terrorismo a San Pietroburgo (“l’odore acre e penetrante della dinamite” è citato nel Gioco dei regni) e aveva preferito alla scelta comunista di Emilio Sereni, marito di sua figlia Xenia, quella sionista del fratello Enzo Sereni. È seppellita in un kibbuz con sulla lapide il solo nome: Xenia. Potrei aggiungere all’elenco il nome di un mio amico curdo non curdo, nato a Suleyamanyah da un armeno in fuga dal genocidio e da una caldea, ambedue cristiani, che scelse di considerarsi curdo all’adolescenza, combatté nel nord dell’Iran con Mustafa Barzani, padre dell’attuale capo dei peshmerga Mas’ud Barzani, fuggì da Saddam in Italia, a Torino, dove l’ho conosciuto, si laureò con una tesi sul concetto di Stato in Ibn Khaldoun, si trasferì a Strasburgo, dove ottenne un passaporto francese e scrisse una tesi di dottorato sulle letture e simpatie fasciste di Michel Aflaq, fondatore del partito Ba’ath, tornò ad insegnare nella sua città natale dopo la prima guerra del Golfo.

Questo non vuol dire che l’identità nazionale, o etnica sia una libera scelta. Basti pensare ad Hans Chaim Mayer-Jean Amery, intellettuale e resistente ebreo viennese, cui i nazisti spiegarono che non era un austriaco ma solo un ebreo e meritava la tortura e il campo di sterminio, e che liberato da Bergen-Belsen, dopo essere stato ad Auschwitz, rifiutò il nome e la lingua, che era stata sua, ma era anche la lingua di coloro che lo avevano torturato e lo volevano morto.

All’inizio di The road to Stalingrad di John Erickson, il primo volume della storia militare dell’aggressione nazista all’Unione sovietica (il secondo volume, The road to Berlin, racconta la disfatta nazista) si racconta che la notte tra il 21 e il 22 giugno 1941 un soldato tedesco guadò le paludi del Bug che segnavano il confine tra la parte nazista e quella russa della Polonia divisa dal patto Ribbentrop-Molotov, si arrese ai sovietici e dichiarò: “Sono un operaio comunista di Berlino. Domattina alle quattro i nazisti attaccano.” La notizia era credibile perché rumori e voci avevano convinto da tempo gli ufficiali russi che un attacco fosse davvero imminente. Perciò fu informato il comando supremo a Mosca e qualcuno si assunse la responsabilità di svegliare Stalin. Stalin aveva scommesso tutto sulla tenuta dell’accordo con Hitler, perché aveva bisogno di tempo per preparare l’esercito. Rispose: “è un provocatore. Fucilatelo.” Il disertore credeva di essere un operaio comunista; era invece solo un soldato tedesco. Il testo non dice se il tedesco fu veramente fucilato: uno dei milioni di morti delle prime settimane. I nazisti aprirono il fuoco anche prima delle quattro, alle prime luci del solstizio d’estate. Forse non ci fu tempo.

Nazioni e nazionalismi

La percezione degli altri è passata, per la mia generazione, anche attraverso le discussioni tra teorici del nazionalismo, non per caso tutti ebrei, che erano stati coinvolti direttamente nei conflitti che si erano intrecciati alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale: Eric Hobsbawm, egiziano, Elie Kedourie, iracheno, Hans Kohn ed Ernest Gellner, ambedue praghesi.

The invention of tradition, di Hobsbawm e Ranger, cioè la costruzione di storie culturali molto accentuate che costituiscono la base delle identità nazionali, è stato fondamentale per la mia generazione, mi sembrava una acquisizione definitiva, una ovvietà. Ma quando Shlomo Sand ha ripetuto la stessa dimostrazione, ben fondata, per il popolo ebraico, è stato sommerso di polemiche e interruzioni (anche all’università di Torino). Hans Kohn, oltre che per l’intreccio con Israele, che ho già nominato, è importante per il suo passaggio in Asia Centrale, come ufficiale dell’esercito austro-ungarico prigioniero dei russi con molti dei suoi soldati. Non è un caso che molti studiosi del nazionalismo vengano da imperi multinazionali. Kohn cominciò a studiare le identità nazionali nel suo luogo di prigionia, cosa sufficientemente inopportuna per i russi da far trasferire tutti i prigionieri ebrei in fondo alla Siberia. Con la Rivoluzione, Kohn passò in nave da Vladivostok in Giappone, di lì in Israele e poi in America. Alcuni suoi soldati tornarono nell’Europa orientale a piedi, seguendo l’Armata Rossa.

Anche da Kedourie, francamente reazionario, critico di ogni rivendicazione di indipendenza, e di De Gaulle perché dando l’indipendenza agli algerini aveva tradito la Francia e gli harkis, c’è da imparare per quel che riguarda il Medio Oriente. Ma è Gellner che ha dato forse il contributo maggiore alla comprensione dei processi di nazionalizzazione, legati alle migrazioni per lavorare nelle industrie.

Ma noi, figli di contadini meridionali, siamo mai stati “Occidente”?

Non ci sono soltanto le identità divise, ci sono anche i costumi, i nomi, le abitudini, le lingue, che non rispettano i confini degli Stati nazionali. Non ho mai avuto la sensazione di una alterità di fondo, di reazione istintiva, tra me e i miei amici nordafricani. Per restare ai libri, la serie di antropologia del Mediterraneo curata da John Davis, include due testi spagnoli e uno italiano, Anton Blok, Imprenditori, contadini, violenti, sulla mafia a Contessa Entellina (che nel libro si chiama Baronessa), non mostra discontinuità tra la sponda sud e quella nord; meno ancora tra la Spagna e i costumi ancora praticati nel pezzo di Appennino dove sono nato. Da noi si usava chiedere, e dichiarare, la discendenza, non il nome e cognome. Se mentre andavo a scuola, attraversando uno dei paesetti che erano sulla strada, una vecchia che non mi aveva mai visto voleva sapere chi fossi, non mi chiedeva il nome e cognome. Mi chiedeva: “D’ ci sì lu fije lu fija mì?”; “Di chi sei figlio, figlio mio?”, esattamente come nei racconti di Silone, che pensava in dialetto e scriveva in italiano. E io rispondevo: “Lu fije d’ Rubert d’ P’lon’.” Roberto era il nome di mio padre; ma Pilone (Caraddio Pilone) non era mio nonno ma il nonno materno di mio nonno paterno, che era stato padrone del pezzo di terra che i miei possedevano (in parte; il resto era in enfiteusi) e zappavano e che perciò dava il nome a noi tutti. Nei nomi non si metteva la discendenza diretta ma la serie delle persone notevoli, e l’appellativo, se c’era: “Lu muntanar’”, “Sardellin’”, “La spacciarol’”, “La cerret’” (non era ricca). John Davis in Libyan Politics (1978) racconta che la metà degli Zuwaya, sparsi tra Ajidabya, sulla costa, e Kufra, in mezzo al Sahara, da lui intervistati, non erano tali per discendenza biologica ma per affiliazione. Anche da noi il termine “kill’ d’”, beni direbbero sull’altra sponda, includeva tutti quelli che stavano sotto lo stesso tetto, non solo i discendenti diretti del capostipite.

Noi cafoni non parlavamo la lingua; non capivamo i motivi della Prima Guerra Mondiale. Al di là delle Alpi o dell’Oceano eravamo considerati Oriente. Forse eravamo considerati Oriente anche dai nostri ufficiali.

Due orientalisti italiani

Tra gli orientalisti che Said cita con approvazione ci sono due italiani, assai diversi tra loro: Leone Caetani (duca di Sermoneta e principe di Teano, della famiglia di Bonifacio VIII, morto a Vancouver per antifascismo; e perché in Canada c’era il divorzio) e Giorgio Levi della Vida (uno dei 12 docenti universitari che non giurarono) che collaborarono ai monumentali Annali dell’Islam.

Se si digita “Leone Caetani Annali dell’Islam” si può scaricare il IV volume e tra p.80 e p.110 si può leggere la cronaca, tradotta da fonti coeve, della conquista dell’Egitto nel 640 d.C., 18 dell’Egira, da parte di poche migliaia di cavalieri comandati da ‘Amr bin Al-‘As, in sostanza contro la volontà del Califfo Omar, immediato successore di Maometto, che gli aveva mandato un messaggero con l’ordine di tornare indietro se lo avesse raggiunto prima del confine. I luoghi sono quelli di oggi. Omar negli anni immediatamente precedenti aveva preso Gerusalemme e Raqqa, non era alieno dalle conquiste ma c’era in corso una pestilenza (la peste di Emmaus, il luogo dove i discepoli dissero a Gesù risorto, che non avevano riconosciuto: “Resta con noi, Signore, ché si fa sera”) con carestia. Come fu possibile che quei cavalieri prendessero in un anno la provincia più importante dell’Impero Bizantino? Le cronache spiegano che l’Egitto era stato governato per vari anni dai persiani. I bizantini lo avevano riconquistato dopo aver sconfitto e ucciso Dario. Ma avevano mandato ad Alessandria un Metropolita intollerante, che voleva far accettare ai copti, monofisiti, il monotelitismo che prevaleva a Bisanzio (la tesi delle due nature e di un’unica volontà di Cristo) e torturava e uccideva molto. Gli egiziani preferirono i nuovi governanti, che non gli chiedevano nulla (solo più tardi imposero una tassa ai non mussulmani) ai vecchi che volevano imporgli la loro versione di Dio, e li torturavano. Quando Omar conquistò Gerusalemme, i prelati gli chiesero di andare a pregare nella Cattedrale. Omar rispose: “Non verrò. Non perché disprezzi la vostra Cattedrale, ma perché, se venissi, i credenti la reclamerebbero per sé perché Omar ci ha pregato.” Il contrario di quello che fa oggi Al Baghdadi. Forse non prevarrà.

Saggezza straniera

Alien wisdom, Saggezza straniera, è il titolo di un piccolo ma importante libro di un grande storico dell’antichità, Arnaldo Momigliano, italiano, ebreo, di Caraglio, di cui si diceva che parlasse piemontese in dodici lingue. La tesi del libro, scritto in polemica diretta con Moses Finley/Moshe Finkelstein, è che i romani avevano trionfato sui greci non solo perché avevano incluso la guerra nella propria costituzione, nel proprio sistema istituzionale, ma perché imparavano le lingue, e assorbivano la saggezza di quelli che avevano sconfitto in battaglia, come fecero di tutti gli eserciti del sistema ellenistico. Il libro ha un incipit travolgente, tipico di Momigliano da vecchio: “Gli storici dotati di tendenze filosofiche non smetteranno mai di meditare intorno al naso di Cleopatra. Se tale naso fosse piaciuto agli dei come a Cesare e ad Antonio, forse avremmo avuto un disinvolto gnosticismo alessandrino invece della disciplina cristiana imposta dalle due Rome: quella vecchia sul Tevere e quella nuova sul Bosforo. I Celti avrebbero continuato a raccogliere vischio nelle loro foreste. Avremmo meno libri su Cleopatra e re Artù e più di quanti non ce ne siano su Alessandro e Tutankhamon. Ma è stato un etruscologo di lingua romana a portare in Bretagna i frutti della vittoria dell’imperialismo romano sul sistema ellenistico, non un egittologo di lingua greca. Bisogna affrontare la realtà.”

Della realtà che dobbiamo affrontare fa parte, secondo Momigliano, la maggior forza della inclusione rispetto alla esclusione. I diabetici, con cui si identificava Carlo Levi, sarebbero più forti degli allergici. Della realtà di oggi fa parte la diseguaglianza, lo squilibrio, prodotto dall’Impero americano, occidentale, che costringe milioni di persone a fuggire dalla fame e dalla guerra. Bisogna affrontare questa realtà, includere chi fugge dalla violenza dei governi nostri alleati, per la loro e nostra salvezza.

L’incipit del secondo capitolo recita:

Quante lacrime indica la semplice parola greca edakruen, ‘egli pianse?’”

Il pianto è quello, raccontato da Polibio, di Scipione Emiliano, dopo la prima distruzione di Cartagine, perché qualcuno, in futuro, avrebbe potuto applicare lo stesso decreto alla sua patria. A queste cose bisogna starci attenti.

Il libro è dedicato A mia madre, sempre presente nel suo vigile amore (Torino 1884 – campo di stermino nazista 1943). Salmo 79, 2-3.

Il salmo è stato scritto da Afar per Gerusalemme, ma oggi funziona sin troppo bene per Aleppo, Mosul, Falluja; per il Congo, per la Libia, per il Mediterraneo. I due versetti, nella traduzione del Diodati, dicono:

Hanno dato i corpi dei tuoi servitori agli uccelli del cielo per cibo, la carne dei tuoi santi alle fiere della terra.

Hanno sparso il loro sangue come acqua intorno a Gerusalem e non c’è stato alcuno che li seppellisse.”

Dovremmo smettere di uccidere, seppellire i morti, accogliere i vivi. Dare a loro e a noi stessi, ai nostri giovani, un lavoro e i mezzi per vivere. Forse così ci faremmo capire meglio dagli stranieri. forse avremmo un futuro.

1 commento
  1. Rosa Dalmiglio
    Rosa Dalmiglio dice:

    ieri, dopo l'apertura del Seminario " Turning Culture into Sustainable Development: Italian-Palestinian Cooperation in the Protection of Cultural Heritage" il ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano e il Ministro degli Affari Esteri della Palestina Riad Malki hanno sottoscritto accordi di cooperazione sulla Diplomazia, sul sistema sanitario, finanziario e di formazione per la sicurezza ed il recupero di beni sottratti alla Palestina.
    il quarto Pilastro riguarda la promozione del Turismo Culturale e Religioso fra Italia e Palestina. (questo il futuro)
    basta morti nel mediterraneo- per i giovani un grande progetto Erasmus in Palestina

    Rispondi

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