La scuola può educare? Attualità e inattualità di “Lettera a una professoressa” | Claudio Ciancio

Premessa

Lettera a una professoressa è stata insieme una grande testimonianza e una provocazione: ricordo ancora l’emozione, la sorpresa e la passione con cui la leggemmo allora. Oggi appare come un’esperienza molto particolare, molto definita nei suoi caratteri storici, geografici, sociali, come un’esperienza esemplare, non un modello che si possa generalizzare. Occorre seguirne lo spirito e non la lettera. Va cioè assunta come una forte sollecitazione a riconoscere il carattere cruciale dell’impegno educativo e formativo, la sua enorme valenza sociale e politica; e prima ancora a riconoscere, a partire dalla scuola, i processi che creano ingiustizia e ineguaglianza, senza accettare tranquillamente lo status quo; è una sollecitazione all’impegno politico inteso nel senso più fondamentale e più ampio.

1. Aspetti inattuali o discutibili dell’esperienza di Barbiana.

La lettera della Lettera è datata:

a) Riflette una composizione della società molto diversa, quella del mondo rurale e veteroindustriale, con distinzioni di classe più nette o meglio identificate, anche sul piano della cultura, del costume, dello stile di vita. Oggi le differenze economiche non sono meno forti, ma quelle culturali meno accentuate. Una differenza rilevante è poi che allora il lavoro c’era, anche se duro e sfruttato; non si parla mai di disoccupazione. E allora diventava più facile parlare di solidarietà di classe e praticarla.

b) Un secondo aspetto problematico è il primato assegnato alla dimensione sociale e politica anche nell’ambito della scuola e della conoscenza. Questo primato portava con sé anche conseguenze discutibili riguardo al valore degli studi e del sapere. Si veda l’esortazione a Pierino: «Lascia l’università, le cariche, i partiti. Mettiti subito a insegnare. La lingua solo e null’altro. Fai strada ai poveri senza farti strada. Smetti di leggere, sparisci. È l’ultima missione della tua classe […] Neanche per la scienza non ti dar pensiero. Basteranno gli avari a coltivarla. Faranno anche le scoperte che servono per noi. Irrigheranno il deserto, caveranno bracioline dal mare, vinceranno malattie. A te che te ne importa? Non dannarti l’anima e l’amore per cose che andranno avanti anche da sé» (p. 97). Anche se è vero che l’esortazione vuole definire soltanto un compito storico e ultima della borghesia e anche se è vero che la prima forma di riscatto è il saper prendere la parola, non si può non notare un certo disprezzo per la tradizione culturale e per la scienza. E questo disprezzo può portare, e ha portato, con sé atteggiamenti di approssimazione e di non serietà, anche di pigrizia e indifferenza di fronte alla fatica dello studio. Non sono mancati in passato presuntuosi orientamenti ideologici, che dietro al presupposto che tutto è politica e la politica è il centro di tutto, nascondevano o almeno inconsciamente favorivano atteggiamenti lassisti e approssimativi, che diffondevano l’incompetenza. Era giusta la richiesta di un uso del sapere per farne parte ai poveri. È vero che c’è una costitutiva dimensione sociale del sapere ed è giusto pensare anzitutto al suo uso sociale, ma non è giusto dimenticare la portata formativa del sapere e la dimensione anche individuale della formazione. L’alternativa dominante in quegli anni fra primato dell’individuo e primato della società è fuorviante: l’errore fu di escludere il concetto di persona, che implica l’inseparabilità di relazione a sé e relazione agli altri.

c) Discutibile appare poi il carattere totalizzante della scuola, che era una conseguenza di quell’assoluto primato del sociale. La dimensione totalizzante doveva valere anzitutto per gli insegnanti. Ci sono frequenti critiche all’orario degli insegnanti; ma soprattutto si chiede loro un coinvolgimento anch’esso totalizzante: «La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia», ed anzi sono preferibili gli insegnanti celibi (e qui segui una sorprendente apologia del celibato) (pp. 86-87). Si potrebbe obiettare almeno che una buona esperienza famigliare può favorire anche l’attività educativa scolastica, forse ancor più che un’esperienza celibataria.

Forse rendendosi conto della difficoltà di realizzare il loro progetto di scuola, così radicale, gli autori della Lettera ripiegano poi sulla proposta di due tipi di scuola dai 14 ai 18 anni, l’una di Servizio sociale, quella che qui viene perseguita, scuola come luogo primario di formazione morale e sociale, e l’altra, la scuola esistente, che è di servizio dell’io: «La Scuola di Servizio Sociale potrebbe levarsi il gusto di mirare alto. Senza voti, senza registri, senza gioco, senza vacanze, senza debolezze verso il matrimonio o la carriera. Tutti i ragazzi indirizzati alla dedizione totale. Poi per strada qualcuno può colpire un po’ meno alto. Trovare una figliola, adattarsi a amare una famiglia più ristretta» (p. 113). Dove si vede chiaramente che il riconoscimento della vita famigliare è fatto un po’ a malincuore, perché si parte da una dicotomia io-società. Una dicotomia che può essere superata non in virtù di un compromesso (un po’ di questo e un po’ di quello), ma riconoscendo che la relazione agli altri è costitutiva di quel che si è e che una relazione agli altri feconda si dà solo se si è una personalità ricca e ben formata.

2. Aspetti attuali e importanti dell’esperienza di Barbiana.

a) Anzitutto la critica a un insegnamento che non parte dalle condizioni dei ragazzi, dalle loro esperienze e dai loro saperi, un insegnamento astratto che finisce per essere classista perché presuppone uno standard alto di conoscenze e di esperienze. Questo problema oggi si ripropone soprattutto nei confronti degli immigrati.

b) Di conseguenza è valida la critica alle bocciature nelle scuole dell’obbligo, bocciature che presuppongono standard uguali per tutti, mentre si tratta di svolgere percorsi formativi continui che tengano conto delle differenze.

c) La Scuola va pensata come uno dei luoghi più importanti in cui si dà attuazione al dettato costituzionale che impone di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

Va detto che questi aspetti sono abbastanza acquisiti e ciò grazie anche a Barbiana.

3. Resta invece sostanzialmente evaso ancora oggi il problema dell’educazione morale e sociale dei bambini e dei ragazzi, un’educazione che Barbiana ha svolto forse in modo discutibile, ma di cui ha evidenziato la primaria importanza.

Della scuola che propone don Milani scrive in una lettera: “non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come la vorrei io non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini” (lettera a Nadia Neri). Tesi paradossale, che d’altra parte limita espressamente la portata dell’esperienza di Barbiana, evidenziandone il carattere eccezionale, più testimoniale che programmatico. Dire questo non significa svalutarla, ma appunto coglierne il valore di provocazione e di testimonianza per cercare di reinterpretarne l’ispirazione in contesti anche molto diversi.

Dunque oggi come si può svolgere un efficace ruolo educativo sul piano morale e sociale e chi può svolgerlo? Don Milani imputava agli insegnanti di avere disatteso questo compito. L’incipit del libro è: «Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi». L’invito è in vista di un cambiamento della scuola ed esprime una dura critica non solo nei confronti dell’istituzione ma anche degli insegnanti. Ma se proviamo a portare questa opposizione genitori-insegnanti nel nostro contesto, vediamo facilmente come oggi possa diventare pericolosa, perché è già abbastanza diffusa, ma ha tutt’altro segno rispetto a quello pensato da don Milani. In molti casi è un’opposizione che nasce insieme da una sfiducia nella classe degli insegnanti e da un atteggiamento possessivo e protettivo pronto a reagire a qualsiasi contestazione che gli insegnanti muovano agli studenti. Per il primo aspetto si tratta di un atteggiamento svalutativo verso la cultura in generale e i suoi operatori e di una scarsa considerazione nei confronti di una funzione per la quale anche le istituzioni hanno poca considerazione, a cominciare dallo stipendio. Per il secondo aspetto va detto che ai genitori molto spesso interessa soltanto che i loro cuccioli stiano bene e che non debbano patire alcun disagio nemmeno quello dei rimproveri e dei brutti voti. Alla scuola non si riconoscono compiti educativi se questi comportano critiche o sanzioni.

Inoltre quell’atteggiamento dei genitori non è ispirato dalla volontà di rivendicare a sé il compito dell’educazione morale e sociale, ma invece rivela un abbandono di tale compito. I genitori per lo più non lo svolgono e lo sostituiscono con quell’atteggiamento protettivo e possessivo, di cui ho detto. In molti casi sembra che l’ordine morale sia semplicemente rimosso: le regole dell’agire che vengono proposte non sono più anzitutto di ordine morale, ma s’ispirano esclusivamente al principio dell’utile e al principio del piacere.

Indubbiamente nella scuola di un tempo era più facile ritrovare una funzione educativa in senso morale e sociale, quella funzione che don Milani esasperava. Quando la Lettera dice che «Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama e spera» (p. 112), non solo allude a un coinvolgimento totale dell’insegnante nel compito educativo, ma anche assegna al compito educativo il primato assoluto. Non a caso in quel passo tra le cose che il maestro deve dare non si cita il sapere. La scuola di don Milani è orientata a un fine più grande di quello della formazione culturale e questo fine è dedicarsi al prossimo con l’impegno sociale (vedi p. 94). È un impegno che non ha soltanto un carattere ideologico o politico, ma ha una fortissima connotazione etica: è l’uscita dall’egoismo e dall’avarizia, uscita nella quale la dimensione etica e quella politica si saldano perfettamente: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia»; e il carattere morale di questa scelta è sottolineato dall’osservazione che la generosità, cioè il volerne sortire insieme e non individualmente, è faticosa e non spontanea (vedi p. 14).

Mi pare che questo sia un grande spunto da attualizzare, anche al di là dello specifico problema della scuola. Due sono gli aspetti da evidenziare: la dimensione etica in generale e il rapporto etica-democrazia. È un tratto del nostro tempo l’eclissi della dimensione etica, come dicevo a proposito dell’educazione dei figli. E qui convergono due movimenti: da un lato l’eredità dello spirito libertario, che tende a rimuovere ogni remora etica, dall’altro la spinta capitalistica a sfruttare questo orientamento libertario dandogli la forma di una legittimazione dell’illimitatezza del desiderio, che si traduce nella prospettiva di un consumo illimitato. Non ci si è accorti che lo spirito capitalistico poteva sfruttare a proprio vantaggio la spinta libertaria che pur proveniva dalla sinistra.

In secondo luogo l’eclissi dell’etica rischia di travolgere la democrazia (la Lettera parla di politica ma con essa intende la democrazia). È uscito recentemente un articolo importante di M. Dogliani (“Critica Marxista”, 2017, 3), nel quale si mostra come la democrazia essendo ridotta a pura forma renda possibile qualsiasi esito e come la democrazia sostanziale richieda invece il rispetto di presupposti morali, senza i quali non vi è rispetto dei diritti altrui, non vi è giustizia e dunque non vi è più democrazia. Dogliani richiama la celebre tesi di Böckerförde: “Lo Stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. […] esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall’omogeneità della società”. E commenta questa tesi scrivendo: “Lo Stato liberale, lo Stato della democrazia solo formale, non è in grado di garantire i propri presupposti. Presupposti che consistono nella necessità, di fatto, che la libertà, che esso protegge e riconosce a tutti, sia disciplinata, dall’interno degli individui e della società, da una cultura etico-politica profonda, diffusa e liberamente scelta. Senza questa disciplina, liberamente scelta da ciascuno e diffusa nella società, tutto crolla, e si apre la strada alle avventure più pericolose. La presenza di una tale cultura (di una tale sostanza morale) è esattamente quanto caratterizzò gli anni della Resistenza e i primi tre decenni della Repubblica. Ma come renderla continua? Come garantirla? Come mantenerla viva?” (p. 20).

La difficoltà di rispondere a queste domande dipende da una congiuntura culturale (che ovviamente non è solo un fatto culturale ma si intreccia con i processi economici in atto). La crisi della politica come la crisi dell’etica, cioè la crisi di ogni tentativo di introdurre principi di valore e conseguenti istanze di trasformazione delle condizioni di vita ingiuste hanno che fare con il fallimento della secolarizzazione. Se la secolarizzazione aveva trasferito principi forti e valori incondizionati dall’ordine religioso a quello secolare dando loro un’altra fondazione (razionale) e un’altra veste (laica), ora invece l’indebolimento della ragione e il conseguente relativismo hanno compromesso la forza di quei principi e di quei valori. Dove non valga nessun principio incondizionato l’ordine morale tende a dissolversi: il gusto prevale sul giusto. Se si relativizza la morale, si fa di essa una questione di gusto.

Alla questione morale aggiungerei però un’altra tendenza del nostro tempo, anch’essa direttamente dipendente dal trionfo del capitalismo e anch’essa contraria allo spirito della scuola di Barbiana, e cioè il cosiddetto realismo che impedisce di progettare ogni trasformazione qualitativa delle condizioni sociali facendola apparire utopica o nostalgica, senza riconoscere che ci sono due forme di realismo, quello che consiste nel fotografare la realtà per attenersi ad essa considerarla immutabile e quello che invece consiste nella capacità di leggere la realtà riconoscendovi le possibilità, pur non garantite, di evoluzione e di trasformazione. Il secondo realismo è in fondo più realistico del primo.

Si può chiedere alla scuola di contrastare questi processi fornendo ai giovani una formazione morale e la capacità di progettare il cambiamento? E quel che richiedeva don Milani. Ma oggi la funzione pedagogica sembra doversi indirizzare solo verso la tecnica dell’apprendimento. Un tempo era possibile che si estendesse all’etica, sia perché c’era una grande omogeneità culturale, c’erano valori condivisi, sia perché la dimensione etica dell’esistenza era considerata fondamentale. Oggi la crisi dell’etica si accompagna e anche si alimenta di un accentuato pluralismo culturale e religioso, che induce a evitare proposte educative potenzialmente conflittuali. Il pluralismo diventa allora facilmente giustificazione dell’abbandono della formazione etica. Credo invece che potrebbe diventare una sfida per reinventare l’educazione morale invece che abbandonarla. Decisivo a questo proposito è il modo in cui si intende il pluralismo, o come semplice minaccia o come indifferentismo o come occasione di confronto aperto a possibilità di sintesi nella ricerca di valori condivisi.

Al di là delle diverse prospettive culturali ciò che è decisivo per alimentare l’educazione morale, è se i valori e le questioni di senso siano considerati semplici questioni di preferenze individuali, e allora viene meno l’impegno morale e ci si può limitare a trovare accordi (ma perché poi considerare inderogabili questi accordi?), perché ciascuno possa soddisfare il più possibile le sue preferenze, o se invece siano considerati questioni di verità. Il problema di nuovo è se cedere alla ragione debole o continuare a credere nella verità e nel bene, senza pretendere di possederli, ma riconoscendo che in noi c’è un dovere incondizionato di cercarli e di seguirli. Se si crede alla ricerca libera ma appassionata e rigorosa della verità e del bene, allora la scuola diventa il luogo in cui ci si educa e ci si esercita al confronto, senza sopraffazioni ma anche senza rinunciare al valore irriducibile della verità e del bene. Si può determinare allora un processo educativo caratterizzato dal profondo rispetto reciproco e insieme da una volontà di confronto tanto più appassionata quanto più si crede nei valori e nella verità. All’educazione morale possono certamente contribuire la famiglia e le associazioni definite da qualche scopo specifico, ma mentre queste forniscono tendenzialmente una formazione omogenea, è la scuola che può avere il valore aggiunto di luogo di un’educazione al pluralismo, al confronto e al rispetto reciproco. In questo modo il progetto di Barbiana non sarebbe tradito, ma arricchito dall’esperienza e dalla sfida del pluralismo.

 

 

 

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