Il giornalismo di pace

Angela Dogliotti

Usando una espressione del noto ricercatore per la pace J. Galtung, si potrebbe definire il giornalismo di pace come  “un antidoto ai mali prodotti dal modo abituale di narrare i conflitti” (J.Galtung, 2002) , modo che legittima l’aumento della violenza fino alla sconfitta del “nemico”.

Un passo esemplare del giornalista del Times, Will Howard Russell, tratto da un servizio giornalistico realizzato durante la guerra di Crimea (1853-1856), aiuta a comprendere bene l’affermazione di Galtung:

Cinque minuti prima di mezzogiorno i Francesi, come uno sciame d’api, uscirono dalle loro trincee vicino a Malakoff, ormai votata alla distruzione, si arrampicarono sulle facciate e passarono attraverso le feritorie in un batter d’occhio. Attraversarono con pochi balzi i sette metri di terreno che li separavano dal nemico e, un minuto o due dopo che la testa della colonna era uscita dal fossato, il tricolore sventolava sul bastione Korniloff (Knightley, 1989, citato da Sreedharan, 2013; la traduzione è a cura di Franco Malpeli)

Il giornalista descrive una scena di guerra, ma si capisce benissimo da che parte sta e qual è il modello di conflitto sottostante quel modo di fare cronaca.

Basandosi su un diverso paradigma di conflitto, il giornalismo di pace (gdp) può dunque essere considerato come “un particolare tipo di giornalismo socialmente responsabile….uno schema di copertura delle notizie che contribuisce a realizzare e mantenere la pace” (Hanitzsch, 2004) che tenta di sfuggire alle logiche e alle cornici valoriali della cultura violenta.

Se, infatti, il paradigma di conflitto è quello “a somma zero” (mors tua, vita mea; io vinco-tu perdi; noi-loro; buoni-cattivi), il racconto non può che perpetuare la violenza perché riproduce tale paradigma nel modo in cui la realtà è interpretata e svolge un ruolo negativo rispetto alle possibilità di soluzione pacifica del conflitto stesso.

Nell’ultima opera che ha curato insieme alla giovane ricercatrice Silvia De Michelis, Nanni Salioii illustra perciò in un capitolo introduttivo, Giornalismo di pace e trasformazione nonviolenta dei conflitti , il modello nonviolento di conflitto.

In sintesi, tale modello agisce:

  • Esplorando la formazione conflittuale e dando voce a tutte le parti in causa;
  • mettendo in luce gli effetti invisibili della violenza (quelli culturali e strutturali)
  • depolarizzando il conflitto, facendo vedere il bianco e il nero di tutte le parti
  • mostrando tutte le prospettive di trasformazione costruttiva e non solo la violenza (de-escalation del conflitto)

Si potrebbe anche dire, con J.Galtung, che il giornalismo di guerra, tradizionale, è simile al giornalismo sportivo: il gioco è a somma zero e vincere è tutto, mentre il giornalismo di pace è simile al giornalismo che si occupa di sanità: si descrive lo stato del paziente , si ricercano le possibili cause, i fattori che hanno contribuito alla malattia, i possibili rimedi e le misure preventive.

Approfondendo un po’ il discorso, in tempo di guerra è molto difficile, nonostante le migliori intenzioni, un giornalismo “obiettivo”, perché

  • “I giornalisti devono scendere a compromessi con una quantità di ostacoli-fra cui patriottismo, interesse nazionale, rabbia, censura e propaganda- che “cospirano attivamente nell’impedire una cronaca obiettiva , fattuale e imparziale” (Maslog, Lee & Kim, 2006)
  • “I media sono facilmente mobilitati per la denigrazione del nemico. I racconti dei media descrivono la brutalità dell’altra parte e le sofferenze del nostro popolo…Le affermazioni sui nostri atti di aggressione e sulle sofferenze degli altri sono o ignorate o minimizzate o non viene dato loro credito. Noi siamo sempre le vittime, loro sono sempre gli aggressori”

(Wolfsfeld, 2004)

Ciò avviene non perché i giornalisti siano in malafede, ma perché essi sono parte di una cittadinanza, membri di una nazione. Come tali lavorano a partire da una base politica e culturale che ne definisce le credenze, gli atteggiamenti, i valori e i pregiudizi (Bar-Tal e Tiechman , 2005) e ciò influenza il modo in cui riportano il conflitto

I militari e i governi , inoltre, schierano in tempo di guerra, “una combinazione di meccanismi…per gestire il flusso delle informazioni ” (Cottle 2006) e tali meccanismi comprendono una censura “dura” (confinamento dei reporter in campi-base; supervisione e approvazione di tutti i resoconti) e una censura “morbida” (i media ricevono le informazioni governative e i giornalisti sono embedded nelle forze combattenti)

J.Galtung sintetizza in una tabella il confronto tra gdg e gdp, che si può così riassumere:

  • Il gdg è: orientato alla violenza (sono riportati gli effetti visibili ed eclatanti del conflitto), orientato alla propaganda (svela lo “loro” menzogne, nasconde le “nostre”); riporta le voci delle elites e presenta la vittoria sul nemico come lo scopo finale;
  • Il gdp è orientato al conflitto,esplorandone tutte le dimensioni; orientato alla verità (svela le menzogne di tutte le parti), orientato alle persone (pone attenzione alle sofferenze ovunque siano presenti e mette in luce l’opera dei costruttori di pace di tutte le parti), orientato alla soluzione (evidenzia le iniziative di pace, presenta le vie per possibili soluzioni piuttosto che vie per la vittoria) (J.Galtung, The missing journalism on conflict and peace and the middle east, Transcend 2005)

Lynch e Mc Goldrick (2005), proseguendo su questa via, hanno individuato una serie di “ buone pratiche” del gdp

  • Concentrarsi sul presentare soluzioni
  • Riportare gli effetti a lungo termine
  • Orientare le notizie sulle persone
  • Ricercare un terreno comune
  • Ricercare e riportare i crimini di tutte le parti
  • Depolarizzare il “noi” e “loro”individuando terze parti interne
  • Evitare termini emotivi, demonizzanti o vittimistci
  • Evitare che un’opinione sia considerata come un fatto assodato

Questioni controverse e critiche al gdp:

1- il ruolo dei media

Secondo alcuni autori il gdp attribuisce ai media troppa importanza: sembra più accettabile la teoria degli effetti selettivi dei media: “alcuni media hanno, in certi momenti e in certe circostanze, un effetto importante su alcuni destinatari “(Brosius, 2003) ed esiste anche una relazione reciproca tra media e pubblico. (si veda, ad esempio, l’aumento di xenofobia e razzismo in contesti di aumento dei flussi migratori)

Se è vero che i media non sono onnipotenti e non solo essi influenzano l’opinione pubblica, si può tuttavia affermare che essi sono una forza significativa in ogni conflitto e tale “potere” dovrebbe perciò portare con sé maggiori responsabilità da parte dei giornalisti.

2- la questione della “neutralità”

Secondo alcuni il gdp mina il principio giornalistico di “obiettività” (Weaver, 1998)

“Le notizie sono ciò che sta accadendo e dovremmo riportarle con immaginazione e scetticismo (quando è il caso). Punto. Non abbiamo bisogno di caricarci di altre esigenze. E certamente non abbiamo bisogno di andare in cerca di costruttori di pace…”(Lyon, 2003)

E’, questa, una questione cruciale e delicata, perché tocca un aspetto importante di deontologia professionale: cos’è l’obiettività? Come si può essere “obiettivi”?

A questa critica si prestano, in modo particolare, posizioni come quelle del “giornalismo di affezione”, che si esprimono in affermazioni come la seguente:

“ Al posto delle pratiche appassionate del passato, io ora credo in ciò che chiamo giornalismo di affezione. Con questo intendo un giornalismo che, oltre a conoscere, si interessa: che è consapevole delle sue responsabilità: che non è neutrale fra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, la vittima e l’oppressore” (Bell, 1997)

Ma in un conflitto può essere controverso ciò che è “giusto” o chi “opprime”: ci vogliono criteri concreti e condivisi di riferimento (es. la legislazione internazionale; i bisogni umani fondamentali…) Questo ci porta alla terza critica.

3- la critica epistemologica

Alcuni sostengono che il gdp si basa su un realismo ingenuo : la realtà si può percepire e descrivere così com’è (Hanitzsch , 2004) e i gdp presumono che “verità” e “menzogna” siano evidenti di per sé (Cottle, 2006)

Tuttavia, il problema epistemologico del gdp esiste anche nella cronaca di guerra tradizionale. La verità e la menzogna non sono auto-evidenti nelle situazioni di conflitto e i media possono presentare solo delle interpretazioni della realtà.

Il problema è, quindi, quale forma deve assumere questa interpretazione: se debbano scegliere di dare voce a tutte le parti in causa ed esplorare soluzioni del conflitto in modo da fornire al pubblico un quadro più completo , oppure se debbano limitare la loro attenzione alla violenza incombente, riportando le opinioni di coloro che sono tradizionalmente considerati degni di nota…. (Chindu Sreedharan, 2013)

In conclusione

“Nella nebbia della guerra è eccezionalmente difficile applicare i principi di un buon giornalismo tradizionale. Una ragione potrebbe essere che i canoni del giornalismo sono stati sviluppati per notizie “normali”, quindi non sono adatti ad una situazione “anormale”. Le numerose forze pratiche, politiche, economiche ed etnocentriche che premono sui giornalisti li incoraggiano a mettere in luce la guerra e la violenza a spese delle notizie di pace. La continua immersione del pubblico in tali notizie di violenza commesse si di “noi” da “loro” modellerà la sua versione della realtà e le sue credenze sociali, contribuendo ad uno schema mentale che incoraggia la continuazione- e perfino l’inasprimento della guerra.

Dall’altra parte, il gdp, potrebbe favorire un clima diverso, che contribuisca alla cessazione delle ostilità e alla promozione della pace” (Chindu Sreedharan, 2013)

Riferimenti bibliografici

  • Nanni Salio, Silvia De Michelis (a cura), Giornalismo di pace, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2016
  • Galtung J., The missing journalism on conflict and peace and the middle east, Transcend, 2005 www.transcend.org
  • Lynch J. e Mc Goldrick A. Peace Journalism, Hawthorn Press, Glouchestershire, 2005
  • Lynch J. e Galtung J., Reporting Conflict: New Directions in Peace Journalism, University of Queensland Press, St. Lucia, 2010
  • Chindu Sreedharan, War and peace journalism, in Karen Fowler-Watt, Stuart Allan, Journalism: New Challenges, Centre for Journalism & Communication Research, 2013 (da cui sono stati tratti diversi riferimenti , nella traduzione di Franco Malpeli)

iDall’intervento al convegno: L’informazione da fabbrica della paura a strumento di pace, Roma 8 settembre 2017

ii Nanni Salio, Silvia De Michelis (a cura), Giornalismo di pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2016

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  1. […] il giornalismo di pace non è semplicemente una “forma della scrittura”, quanto piuttosto una modalità di lettura e […]

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