Il generale Lee e la lezione di Cesare

Massimiliano Fortuna

Ricordo bene che sin da bambino mi aveva colpito leggere che Cesare, pugnalato, cadde morto ai piedi della statua di Pompeo. Così almeno riportano Plutarco e Appiano.

Ciò che quell’immagine, ancora vagamente data l’età, mi suggeriva era l’instabilità del nostro esistere e della storia umana. Tutto può mutare e ribaltarsi rapidamente, le nostre condizioni di vita, anche se si è in possesso di un grande potere, sono fragili, precarie. I vincitori di ieri possono diventare i grandi sconfitti di domani.

Oggi però quell’immagine simbolo del mondo romano antico mi porta a riflettere su un’altra cosa. Cesare dunque, al termine di una guerra civile aspra e lacerante (cosa che in genere accade alle guerre civili) non aveva ordinato di rimuovere la statua del suo nemico sconfitto dal luogo in cui, in quel momento, si riuniva il senato.

È vero che poi a Cesare toccò questa brutta fine, dovuta secondo alcuni proprio all’indulgenza mostrata nei confronti dei suoi avversari politici – quelli vivi più che quelli morti. Augusto, infatti, non vole ripetere l’«errore» del padre adottivo e non fece sconti a chi poteva costituire un pericolo per il suo potere, in più, a quanto pare, rimosse la statua di Pompeo e murò la sala in cui avvenne il cesaricidio.

Però credo proprio che sia la scelta di Cesare a dover essere un punto di riferimento per un regime democratico odierno. Si può capire che appena conclusa una guerra sanguinosa i vincitori si rifacciano sui simboli del potere da poco crollato. Quando poi si è trattato di un potere dittatoriale, autore di repressioni spietate nei confronti degli oppositori politici, la furia iconoclasta è a maggior ragione comprensibile. Ma questa può essere accettata solo come una breve condizione di passaggio, non divenire la gestione ordinaria di un potere che si vuole democratico e liberale.

Il generale Lee sarà anche uno dei simboli di un Sud razzista e schiavista ma voler abbattere le sue statue 150 anni dopo quei fatti è il portato di una visione miope e vagamente integralista della convivenza civile. Una memoria storica rimossa e bandita pubblicamente è segno di pericolosa fragilità, non di autorevolezza di principi.

Che i suprematisti bianchi, che magari quelle statue venerano con intenti razzistici, siano orrendi e magari potenzialmente pericolosi è indubbio, però una democrazia liberale forte, e autentica, non rimuove alcuna delle radici, pur limacciose, dalle quali è sorta.


 

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