Siamo sulla strada sbagliata, occorre urgentemente una nuova politica di pace per il Mediterraneo



Siamo sulla strada sbagliata. La competizione tra Italia e Francia, con Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Iran, a tessere le proprie trame per prenotare nuovi contratti e forniture o per re-installare una presenza militare nelle frontiere interne africane, è una strada sbagliata e molto pericolosa.

Manca una strategia di ricomposizione del complesso tessuto comunitario e sociale libico, per ridare alla popolazione ed alle tribù locali la possibilità e la responsabilità di decidere del proprio futuro, in modo pacifico, nonviolento e dentro un quadro di legalità internazionale. Un percorso che ha bisogno di investimenti e di dialogo con le comunità locali, costruendo relazioni, rapporti di reciproca fiducia e rispetto. Strategia che di certo non passa per le stanze delle diplomazie e degli stati che vedono la Libia come un nuovo campo di battaglia, per fermare e per respingere migranti e richiedenti asilo, per accedere a nuovi contratti con supposti governi o capi-milizie sempre pronti ad accreditarsi o ad offrirsi al miglior offerente. La partita è regionale, i paesi del nord Africa sono i luoghi del transito, il Sahel e l’Africa Centrale sono il cuore della crisi, vittime di dittature, carestie, povertà endemica, guerre, sfruttamento, espropriazione e saccheggio di risorse naturali. Una situazione che non è di oggi ma ha origini antiche, dalla schiavitù alle colonie, dal processo di indipendenza e di emancipazione mai concluso ed osteggiato dalle potenze occidentali, per ovvi interessi.

Lo stesso attacco che da mesi coinvolge le Ong che operano nell’azione umanitaria per salvare vite nel mare Mediterraneo, è figlio della stessa logica, del primato della sicurezza (di casa propria) a giustificazione dell’azione repressiva, che calpesta i principi dell’autonomia, dell’indipendenza e della neutralità riconosciuti internazionalmente ed imprescindibili per l’azione umanitaria internazionale. In pochi mesi si è passati sopra una storia di decenni di esperienze di azioni umanitarie compiute dalle organizzazioni non governative nei contesti più pericolosi e difficili: Bosnia, Kosovo, Sri Lanka, Colombia, Palestina, Sudan, Libano, Kurdistan, Afghanistan, solo per citare alcune pagine della storia recente del “nostro intervento umanitario”, per arrivare ad essere valutati e controllati dal Ministero degli Interni, situazione che se avvenisse in un paese extraeuropeo, verrebbe denunciata come una ingerenza inaccettabile.

Che sia chiaro: chi opera nel campo del soccorso umanitario deve essere preparato professionalmente ed avere un comportamento trasparente e coerente con i principi sopra citati, deve sempre essere pronto a render conto a donatori e alle autorità, ma sempre in un rapporto di autonomia ed indipendenza.

Proprio per difendere questo speciale status internazionale è interesse delle stesse organizzazioni umanitarie controllare e isolare immediatamente chi infrange questo codice etico.

La richiesta del Ministero degli Interni di sottoscrivere un protocollo o codice di condotta che prevede una presenza istituzionale ed armata nell’esercizio dell’azione umanitaria, quale condizione sine qua non per poter operare nell’azione di salvataggio in mare, crea un precedente che ci interroga e ci preoccupa. Non era meglio organizzare – come si fa nelle zone di guerra, per la gestione dei campi profughi o nelle fasi di emergenza e ricostruzione – dei coordinamenti e delle cabine di regia tra tutti gli operatori ed i soggetti coinvolti, per armonizzare l’intervento nel rispetto dei compiti, del mandato e delle prerogative di ciascun attore, governativo e non governativo ? Decenni di esperienza ci indicano che, in queste situazioni di crisi umanitaria, chi non è disponibile o chi non è in grado di operare in un quadro di concertazione e di coordinamento applicando criteri e standard internazionali riconosciuti si esclude da solo, e chi sbaglia è immediatamente individuato ed isolato, senza alcuna necessità di montare una caccia alle streghe verso un’intera categoria.

Non possiamo che esprimere preoccupazione e disappunto per questo orientamento, perchè questi episodi si aggiungono ad una politica italiana che continua a promuovere investimenti ed alleanze con paesi in guerra – vedi il caso eclatante dell’Arabia Saudita per le sue responsabilità dei bombardamenti di ospedali e scuole in Yemen, o mantenere un rigoroso silenzio sul black out di Gaza e sull’escalation di violenza a Gerusalemme – che, oltre alla sofferenza di milioni di persone, rappresentano gravissime minacce per ulteriori violenze nell’intera regione medio-orientale.

La strada è sbagliata perché a crisi non si risponde generando nuove crisi, a violenza non si risponde con maggiore violenza, a sofferenza non si risponde con altra sofferenza.

Siamo coscienti della complessità e della difficoltà che si debbono affrontare per promuovere una soluzione giusta e durevole delle varie situazioni di crisi nel bacino del Mediterraneo.

A maggior ragione, e proprio per questo,

  • chiediamo alle nostre istituzioni, italiane ed europee, di attivare urgentemente un tavolo di confronto con la società civile per costruire con le comunità dei paesi della sponda sud del mediterraneo soluzioni condivise, orientate alla convivenza pacifica, al rafforzamento della democrazia e delle libertà, allo sviluppo sostenibile;
  • chiediamo che le nostre idee, come la proposta di legge per la costituzione di un Dipartimento di Difesa Civile e Nonviolenta, siano oggetto di una seria discussione in Parlamento;
  • chiediamo che la sperimentazione dei corpi civili di pace possa essere considerata come una concreta alternativa ed uno strumento di costruzione di dialogo, di ricomposizione sociale e di convivenza in quelle aree di conflitto – che oggi intrecciano la questione migratoria – non siano affrontate in una ottica militare, né tantomeno con l’azione repressiva;
  • chiediamo investimenti ed una politica per attivare corridoi umanitari e libertà di circolazione per uomini e donne, in modo sicuro e legale;
  • chiediamo che la cooperazione con i paesi di origine o di transito dei migranti e richiedenti asilo, che insistono sulle stesse direttrici, diventi vera cooperazione per lo sviluppo di quei paesi, per sostenere democrazia, giustizia, lavoro dignitoso e sviluppo sostenibile, non funzionale ad interessi altri o soggetta al ricatto della chiusura delle frontiere;
  • chiediamo che il piano di ricollocazione dei migranti e richiedenti asilo, gestito con rigorosa umanità e nel rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali, diventi un obbligo, morale e materiale, per tutti gli stati membri dell’Unione Europea;
  • chiediamo l’immediata riforma dell’accordo di Dublino per rendere più accessibile il diritto di asilo.

La pace va costruita insieme, con il contributo di tutti, con coerenza e determinazione, sapendo che per costruire le condizioni del vivere in pace, occorre essere generosi, ascoltare, accogliere, aiutare l’altro per una emancipazione reciproca, con pari dignità e rispetto.

Sicurezza e rispetto dei diritti umani non possono essere obiettivi limitati ai propri confini. Respingere uomini, donne e minori per rinchiuderli in lager dall’altra parte del Mediterraneo o nel deserto – senza alcuna protezione e trattamento umano – non può essere il risultato dell’azione e della politica di un paese civile, di un’Europa democratica.

La Rete della Pace, 17 agosto 2017


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