Un’ipotesi di correlazione fra siccità e industria militare

Enzo Ferrara

Sui giornali di oggi campeggiano i titoli sulla siccità assieme a quelli sull’intesa raggiunta dal consiglio dell’UE per la “difesa comune”. Le due notizie sono in stretta correlazione e riguardano il mondo della ricerca per diversi aspetti.

Intanto, le conseguenze e premesse dell’intesa sul settore militare hanno portato lo scorso 7 giugno 2017 l’UE a presentare ufficialmente il proprio piano d’azione insieme alla proposta di una dotazione annua stimata di 500 milioni di euro dal budget UE per la ricerca e lo sviluppo nel settore bellico e degli armamenti nel 2019-2020 [Proposal for Regulation establishing the European Defence Industrial Development Programme aiming at supporting the competitiveness and innovative capacity of the EU (COM(2017)294)]. Si prevede che nel 2021 questo stanziamento crescerà fino a raggiungere 1,5 miliardi di euro all’anno.

Già lo scorso 27 ottobre 2016 Il Parlamento Europeo aveva approvato per la prima volta nella sua storia lo stanziamento di ingenti finanziamenti per la “ricerca militare” e la notizia era stata diffusa da un sito direttamente interessato (Science/Business: scienziati, uomini d’affari ). Gli stati del Parlamento Europeo avevano approvato la proposta di finanziare la ricerca in tecnologie per la difesa a partire dal 2017, realizzando quanto previsto dal Programma “Preparatory Action for Defence Research” che spenderà circa 25 milioni di Euro all’anno fino al 2020. Le voci di spesa proposte includono ricerche sui droni, sulla cyber-difesa e sulla sorveglianza marittima.

Tra le altre possibilità ipotizzate vi era la riduzione delle restrizioni alla European Investment Bank, in modo che possa finanziare sia progetti di ricerca per la difesa sia le loro ricadute applicative: questo significa che i singoli paesi potranno acquistare con fondi di ricerca equipaggiamenti militari “sperimentali” come elicotteri e droni da combattimento. L’Azione Preparatoria potrà eventualmente crescere e consolidarsi in un programma permanente del valore di 3,5 miliardi di Euro, da gestire separatamente dal programma di ricerca tradizionale dell’UE, cioè Horizon 2020.

La gravità di queste scelte non può sfuggire a chiunque abbia a cuore la scienza come strumento non di oppressione ma di pace. Ora sappiamo che il Fondo comprende, infatti, 4 miliardi di contributi nazionali annuali per finanziare l’ultima fase del processo: l’acquisizione di equipaggiamenti militari e lo sviluppo congiunto dell’industria militare da parte degli Stati membri. La Commissione ha proposto che i contributi nazionali da destinare al Fondo siano esclusi dalla soglia di disavanzo del 3% del PIL che gli Stati membri sono tenuti a rispettare. Un privilegio che non è accordato a settori come l’educazione, la sanità pubblica, la ricerca non dedicata agli armamenti o gli investimenti per la tutela dell’ambiente. Questi provvedimenti significheranno tagli drastici a scapito di altre priorità di spesa sia a livello europeo sia a livello nazionale. L’UE insiste sul fatto che tale finanziamento dovrebbe essere aggiunto alle spese militari nazionali, e non essere un loro sostituto.

Occorre ricordare che l’industria militare e bellica (oltre a essere un ributtante strumento di morte) è la prima causa di inquinamento al mondo e la principale fonte di emissioni serra nell’atmosfera; riuscire a esaltarla come accade nel libro bianco del Ministero italiano della difesa lascia di sasso. Vi si legge infatti che: “L’industria della sicurezza e difesa costituisce un pilastro tecnologico, manifatturiero, occupazionale, economico e di crescita senza eguali per il “Sistema Paese”, cui contribuisce principalmente attraverso tre elementi:

  • fornisce sviluppo di piattaforme e sistemi alle Forze Armate, sia per la difesa e la sicurezza nazionale, sia per le missioni all’estero … Il binomio “strumento militare – industria nazionale” accresce il “livello di ambizione” del “Sistema Paese” a livello delle relazioni internazionali;
  • contribuisce allo sviluppo tecnologico attraverso programmi e investimenti in ricerca e sviluppo e, più in generale, alla crescita economica attraverso effetti diretti, indiretti e indotti sul PIL nazionale e sulla creazione di posti di lavoro qualificati;
  • contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione, favorendo i nostri rapporti di collaborazione con altri Paesi.

Alcune “collaborazioni” verso paesi terzi – magari come l’Arabia Saudita – saranno anche favorite, ma sarebbe interessante sapere come reagiranno i paesi che di quelle stesse “collaborazioni” saranno vittime.

Per altri versi, occorrerà programmare nuove ricerche sul piano delle conseguenze drammatiche e sempre più preoccupanti per l’ambiente e la biodiversità delle variazioni climatiche.

Occorre però anche chiedersi quale ruolo la ricerca voglia davvero giocare nella società contemporanea, se non reagisce anche moralmente alla deriva bellicista che la coinvolge.

Il rischio, accettando la situazione che si sta sviluppando, è che i ricercatori si riducano a svolgere il ruolo di agrimensori del disastro umano e ambientale causato con la loro stessa complicità.

Per chi avesse interesse a intervenire e discuterne, segnalo che presso il Centro Studi Sereno Regis di Torino è attivo un gruppo di lavoro, aperto a tutti, che sta provando a riflettere sulle drammatiche conseguenze del connubio fra ricerca e industria militare e a cercare soluzioni alternative per la soluzione dei conflitti e per un modello di sviluppo scientifico e tecnologico nonviolento.

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