Luci e ombre della tecnologia informatica

Elena Camino

Una informatica ‘slow’?

In un articolo pubblicato nel 20151 Norberto Patrignani (docente di “Computer Ethics” al Politecnico di Torino) introduce il termine di ‘slow tech” (una informatica buona, pulita e giusta) nell’ambito dell’evoluzione storica della Computer Ethics. Come spiega l’Autore, mentre la Computer Ethics classica si è focalizzata sulle conseguenze dell’uso e diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nella società, l’approccio Slow Tech propone di introdurre un nuovo paradigma di progettazione delle tecnologie stesse. Propone un’informatica buona (disegnata ponendo al centro i bisogni degli esseri umani), pulita (che minimizza l’impatto ambientale dell’ICT) e giusta (che tiene in considerazione le condizioni dei lavoratori nella filiera ICT).

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In effetti l’informatica ha trasformato profondamente la vita personale e l’organizzazione sociale a livello globale. Non solo le regole e abitudini della vita civile, ma sempre più anche i modi di fare la guerra. Ma – mentre sulle responsabilità degli scienziati impegnati nella produzione di ordigni bellici c’è ancora un dibattito in corso (per quanto affievolito rispetto ad alcuni decenni fa) – manca la riflessione sulle responsabilità degli scienziati che contribuiscono alla progettazione e realizzazione dei sistemi informatici che sono alla base dei più avanzati modi di fare la guerra. Basta leggere la presentazione che la Compagnia Leonardo fa nel suo sito per rendersi conto che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione è essenziale per tutti i settori militari: dai sistemi di controllo e di automazione in campo di battaglia, lungo i confini, o per il pilotaggio remoto dei droni, ai sistemi radar per il controllo del tiro e la guida di batterie di missili…

La Divisione Elettronica per la Difesa Terrestre e Navale […] vanta una più che cinquantennale esperienza nell’integrazione di sistemi, nelle architetture informatiche digitali, nei sistemi di gestione del combattimento, nei sensori e nelle comunicazioni, realizzando sistemi flessibili, modulari e scalabili per soddisfare ogni requisito operativo sia a bordo delle piattaforme (navi o veicoli) sia nell’ambito di sistemi a installazione fissa di sorveglianza terrestre e costiera. Una grande esperienza nei sistemi elettro-ottici di controllo del tiro e nei sistemi di ricerca e inseguimento all’infrarosso (IRST), consente inoltre di rispondere alle esigenze di alta precisione e “silenziosità” elettromagnetica nella sorveglianza, nell’inseguimento di bersagli e nella gestione dell’armamento.

Gli scienziati ‘dual use’

Dunque le tecnologie ICT, rispetto alle tecnologie ‘pesanti’ legate agli armamenti, hanno la caratteristica di avere invaso e trasformato la vita sociale in tempo ‘di pace’, senza tuttavia evidenti discontinuità tra le applicazioni civili e quelle militari. Diamo per scontato che i nostri moderni sistemi di comunicazione siano ‘leggeri’ e ‘innocenti’. Sulla leggerezza abbiamo già avuto modo di riflettere tempo fa, a proposito dell’impatto ambientale di cellulari e internet. Sull’innocenza il discorso è ancora più complesso, perché richiede di rivedere l’idea di scienza e dei suoi rapporti con la tecnologia. Possiamo ancora pensare che una nuova scoperta/invenzione della tecnoscienza sia ‘neutra’? Quali domande di ricerca sono alla base dei progressi registrati dalle tecnologie ICT? Chi sono i maggiori finanziatori delle ricerche in questo campo? Quali utilizzi ne vogliono fare? Che legame c’è tra ricadute civili e militari delle nuove conoscenze? Che ruolo giocano i ‘consumatori’ nel promuovere la diffusione delle ICT, nell’esercitarne un controllo, nel favorirne alcune rispetto ad altre?

Può essere interessante allora affrontare un tema che è stato presentato di recente nell’ambito di un Seminario tenuto presso il Politecnico di Torino (Maggio – Giugno 2016), dal titolo “Se la scienza non pensa”. (L’intervento di Gianni Vattimo e Massimo Zucchetti è stato poi messo a disposizione in rete: Heidegger e la bomba atomica: ovvero la scienza deve pensare.) I due Autori ricordano che, secondo una visione ancora assai radicata, la “libertà di ricerca” è sacra, una sorta di religione moderna dello scienziato, “neutrale” in quanto si muove in un terreno dove conta, unico principio, il progresso della conoscenza. Sta poi allo scienziato sociale, al filosofo, al politico, al giurista, stabilire – in un secondo momento, anche se non si sa bene quando – quali siano gli utilizzi morali ed appropriati della scienza: non allo scienziato. Perché la scienza, appunto, non pensa: ha ben altro di cui occuparsi.

Per cogliere la complessità della riflessione di questo contributo di Vattimo e Zucchetti conviene leggere integralmente il loro testo. Qui riporto solo alcune frasi che mi sono sembrate particolarmente significative rispetto al tema più circoscritto dell’ICT.

Come sottolineano Vattimo e Zucchetti, la figura dell’ingegnere e del fisico nucleare quale paradigma del coinvolgimento dei tecnici nell’ambito militare è assai sbiadita. La fine della guerra fredda e la necessità/opportunità del ricorso in guerra ad armi “convenzionali” (per le quali vi è praticamente mano libera), mentre per le armi nucleari vige tuttora la “maledizione di Hiroshima”, ha messo in evidenza una nuova figura: lo scienziato “dual use”. Si intende con “dual use” una tecnologia che si suppone abbia utilizzi sia civili che militari. Molti esempi si trovano nel campo dell’elettronica e dell’informatica: dall’elettronica “di controllo” per aeromobili, missili e droni, al “remote sensing”, il controllo dall’alto – via satellite – che viene sviluppato come aiuto all’agricoltura e alla meteorologia, ma che ha molte ed evidenti applicazioni militari e di “intelligence”.

Un altro spunto di riflessione riguarda il ruolo della tecnica, e il suo cambiamento nel tempo. I due Autori ricordano che, secondo Heidegger, anche nel mondo greco la tecnica svolgeva una funzione di “disvelamento” (di conoscenza) della realtà; ma si trattava di conoscenza, non di dominio (o quantomeno di dominio debole, senza possesso). Nel mondo di oggi, al contrario, essa svolge una funzione di dominio forte, esclusivo (di dominio con possesso), al quale si subordina oggi altro tipo di conoscenza.

Per Heidegger il disvelamento che governa la tecnica moderna è una “provocazione” la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata: una determinata regione viene provocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela così come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali, per la fornitura di uranio, l’uranio per l’energia atomica…. La crisi ambientale sarebbe dunque figlia del “dominio forte” della tecnica moderna, che ha trasformato l’idea della natura da mondo misterioso da esplorare a “fondo da impiegare”.

Allora, quali consapevolezze sono utili per orientarsi verso una ‘slow tech’?

Per capire e affrontare la crisi globale in cui ci troviamo, non basta dunque cercare rimedi ai danni subìti dai sistemi naturali, né è sufficiente provare a ripristinare cicli bio-geochimici spezzati: occorre riflettere sulla scienza e sulla tecnologia, o – più correttamente – sulla tecnoscienza: le sue responsabilità, ma soprattutto la visione del mondo di cui è portatrice. In particolare, la riflessione sulle tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT) può essere una delle strade da percorrere, dal momento che tutti ne facciamo un uso sempre crescente, spesso identificando l’idea di ‘progresso’ con lo sviluppo di innovazioni tecnologiche la cui produzione e utilizzo ha delle componenti nascoste molto problematiche.

Per avviare una discussione che magari potrà avere un seguito sulle pagine della newsletter del CSSR, propongo la sintesi di un articolo pubblicato di recente da Bob Hugues, ex docente di ‘digital media’ presso una università inglese, e autore di un libro appena pubblicato: The Bleeding Edge: Why technology turns toxic in an unequal world2 (Margini a rischio: perché la tecnologia diventa tossica in un mondo diseguale). In questo libro (non ancora tradotto in italiano) Bob Hughes sostiene che società caratterizzate dalla disuguaglianza sono incapaci di usare bene le tecnologie. Ovunque esistano delle élites, per assicurarsi l’auto-conservazione devono assumere il controllo delle nuove tecnologie, quindi proteggere e consolidare il loro status piuttosto che soddisfare i bisogni della gente.

Accecati dalla tecnologia

Le pagine che seguono sono la traduzione e sintesi di un articolodi Bob Hughes, Blinded by ‘technology’, pubblicato su New Internationalist, novembre 2016.

All’inizio del 2011 stavo distribuendo volantini durante una dimostrazione contro la privatizzazione del Sistema Sanitario Nazionale Inglese, quando mi venne incontro una coppia di mezza età… prima che io potessi aprire bocca, l’uomo mi strappò di mano un volantino, lo fece a pezzi e mi disse: “Voi siete matti! Volete far tornare indietro il tempo, e riportarci a un mondo miserabile che era semplicemente incapace di produrre cose come questa! “ E tirò fuori da una tasca un nuovo iPhone Apple.

Questo’ disse, agitando il cellulare sotto il mio naso ‘è il risultato del mercato libero. Tecnologia brillante, che funziona! Non la spazzatura che viene fuori dal tipo di società che voi volete! Lei lo sa!’ E indicò sua moglie. Si, confermò la donna, che era cresciuta in Romania. ‘Questo è il futuro,’ continuò ‘non quello!’ […]

In continuazione sentiamo dire – anche da persone ‘della Sinistra’ – che pur con tutti i suoi fallimenti il capitalismo regna sovrano quando fornisce tecnologie avanzate. Se vogliamo avere cose meravigliose, dobbiamo accettare i tagli e le inevitabili conseguenze negative del libero mercato. […]

Per ‘tecnologia’ léggere ‘imballaggio’

Ma l’idea che ‘progresso’ e ‘tecnologia’ siano rappresentati dall’ultimo modello di gadget elettronico è completamente sbagliata.

Secondo un pioniere dell’ipertesto, Ted Nelson, un iPhone non è tecnologia, è solo un imballaggio. Certo, usa tecnologie (architettura di von Neumann, unità aritmetiche binarie, memoria ad accesso random, Unix o sistemi operativi simili, TCP/IP, DHCP, HTTP, USB, Ethernet… e potrei andare avanti). Ma molte di queste tecnologie sono sorprendentemente vecchie, create ben prima che le imprese capitalistiche sviluppassero entusiasmo per i computer. E spesso fanno meno di quello che facevano, o che erano state progettate per fare quando erano nuove.

Siete consapevoli, per esempio, che il vostro smartphone o il vostro PC portatile è in grado di condividere le sue risorse con una intera rete di terminali a basso costo, o addirittura con macchine vecchie o ormai obsolete? Il suo sistema operativo (Unix, o uno dei suoi analoghi Open Source) ha iniziato a funzionare alle fine degli anni 1960 per lavorare simultaneamente con molti utilizzatori a partire da una singola macchina. Attualmente in tutta l’America Latina, nella Corea del Sud e in Nepal, in Grecia e in altri stati oppressi dall’austerity, tecnici ingegnosi stanno utilizzando questa funzione ormai dimenticata per fornire a scuole e università tutti i computer di cui hanno bisogno, nonostante il taglio ai finanziamenti.

[…]

Tecnologie obsolete fin dal 1840

Dagli anni 1950 in avanti numerosi studi hanno messo in evidenza che le imprese capitalistiche sono molto più propense a frenare le nuove idee che a promuoverle. Sarebbe stato possibile produrre computer molto prima della seconda guerra mondiale, di quando cioè sono stati progettati quelli da cui derivano i modelli attuali.

Le innovazioni significative sono finite quando i computer sono diventati oggetto di interesse del mercato capitalistico, negli anni 1970. Da allora i difetti si sono moltiplicati. E quasi tutti sono ancora basati su un sistema studiato per fare una cosa per volta: per questo i computer attuali hanno bisogno di un processore rapido, che consuma tantissima energia e – secondo alcuni – sono la macchina meno efficiente mai costruita dall’uomo.

Dove eccellono le strategie delle imprese capitalistiche è nella tendenza a ‘correre avanti’ con qualunque tecnologia decidano di adottare, con la mentalità del ‘chi prima arriva prende tutto’ e di mettere in difficoltà altre tecnologie che potrebbero interferire con i loro profitti a breve termine.

Le tecnologie avviate con tante promesse si rivelano spesso ‘pesanti’: nessuna lo dimostra meglio di quella legata a computer e internet. L’economia immateriale che era stata promessa è ora una delle maggiori produttrici di gas a effetto serra. Nel 2010 Greenpeace ha messo in luce che la popolazione globale di server stava consumando più elettricità della Germania, se non addirittura dell’India.

Buona tecnologia, cattivo impatto

Ed ecco il paradosso. Ogni nuova tecnologia tende a ottenere di più con meno. Ma nel momento in cui entrano in gioco i meccanismi della competizione economica, l’equazione si ribalta. Tanto più efficiente è la tecnologia, tanto maggiore è il suo impatto ecologico, fino a condurci alla catastrofe ecologica che abbiamo davanti.

Il problema è stato individuato dall’economista William Stanley Jevons nel 1865. Il Governo inglese gli aveva chiesto di indagare come mai le riserve di carbone si stessero esaurendo sempre più rapidamente, anche se i motori erano diventati molto più efficienti. Il verdetto di Jevons fu che si trattava di un problema reale, probabilmente non risolvibile, e non limitato alle tecnologie delle macchine a vapore: dove ci sia competizione sui prezzi, una maggiore efficienza può indurre a un aumento della domanda. Quindi il consumo energetico non si riduce.

Da allora molti economisti hanno cercato di dimostrare che Jevons aveva torto, e che alla fine una migliore tecnologia avrebbe permesso di ‘disaccoppiare’ i processi, e avrebbe portato alla riduzione dei consumi. Questo concetto viene spesso presentato nelle prospettive di ‘crescita verde’, ma per ora casi di disaccoppiamento sono difficili da trovare. Per esempio, le luci a LED sembrano miracolosamente efficienti. Consumano pochissima energia, ma ne usano tantissima nel processo di produzione: a questo bisogna aggiungere i costi ambientali e umani dell’estrazione e purificazione dei componenti grezzi, il confezionamento e la spedizione, visto che l’utilizzo finale è spesso lontanissimo dal luogo di produzione.

La disuguaglianza globale

E’ solo la forza bruta della disuguaglianza globale che mantiene bassi i costi economici. Le pressioni esercitate sui produttori e sui consumatori perché utilizzino queste tecnologie – apparentemente a basso costo – traendone comunque un guadagno, richiede un enorme aumento nell’uso e nell’impatto, con un aumento scarso o nullo del benessere di ciascuno.

La ragione che sta alla base dell’effetto Jevons sta diventando evidente: è la disuguaglianza sociale. Quando emergono nuove, potenti tecnologie in una società disuguale, esse vengono utilizzate per proteggere e consolidare la disuguaglianza.

L’ Archeologia ha messo in luce che situazioni gravi di degrado ambientale non si sono manifestate fino al momento in cui si sono strutturate le disuguaglianze sociali, nell’Età del Bronzo, poco più di 5000 anni fa. Oggi le società con maggiore disparità sociale (come gli USA o Dubai) sono anche le più distruttive per l’ambiente.

Le implicazioni sono radicali. La disuguaglianza può anche essere l’innominabile conseguenza dell’economia capitalistica, ma deve essere messa in discussione. L’uguaglianza tra tutti gli esseri umani deve essere il nostro traguardo, semplicemente. Non basta parlare solo di uguaglianza di genere, di uguali opportunità, uguale rispetto, bisogna parlare di uguaglianza e basta: nessuno deve avere più risorse di un altro senza una buona ragione (per esempio per malattia, vecchiaia, infanzia, situazione di handicap).

Ridurre la disuguaglianza offre una soluzione genuina in cui tutti vincono: le persone vincono, e lo stesso l’ambiente. E diventa una tripla vittoria se si esamina come davvero può esprimersi l’innovazione tecnologica. Qui l’uguaglianza è un punto centrale.

Necessaria la creatività

La partnership improbabile e ufficialmente disapprovata che ha portato alla produzione del primo computer elettronico in Inghilterra, il Colossus nel 1943, è significativa: da un lato una squadra di ingegneri addetti ai telefoni, appartenenti alla classe lavoratrice, e guidati dal figlio di un muratore, Tommy Flowers; dall’altra il matematico Alan Turing, elegante ed eccentrico (e gay). I loro superiori fecero di tutto per distruggere la collaborazione e nascondere i risultati, ma soprattutto la minaccia di un fallimento nazionale privò questa intesa della sua forza. La collaborazione continuò, sia pure per breve durata e con pochi soldi – ma con straordinarie conseguenze. Su una scala storica più estesa risulta evidente che la ‘crescita dell’Occidente’, che trasformò la più grande disuguaglianza in un fatto accettato a livello globale, era molto meno debitrice alle energie creative dei nuovi stati capitalisti che alla loro violenza, e una vera miniera di tecnologie è stata sviluppata nel corso dei cosiddetti “secoli bui” da artigiani-operai anonimi in gilde egualitarie e confraternite.

Quanto in là avrebbero potuto avanzare le nostre tecnologie se l’impegno per l’uguaglianza – tanto celebrato nelle istituzioni pubbliche e persino nelle nostre monete – fosse stato accompagnato da una forza reale, applicata praticamente? Oggigiorno le società più creative sono anche le più ugualitarie. Nel loro modo debole, anche i ‘colossi’ delle economie capitaliste riconoscono l’importanza dell’ uguaglianza, e dispongono di strutture ben sigillate, quasi-egualitarie, di ‘villaggi’ e ‘campus’ in cui i programmatori, designer e così via possono operare liberi dalle gerarchie brutali che dominano la vita degli altri dipendenti.

Siamo incoraggiati ad ammirare le realizzazioni tecnologiche della nostra epoca, e riporre la nostra fede cieca in loro, oppure a disperarci. Dobbiamo riconoscere quanto miserevoli siano questi risultati in realtà, e quanto osceno sia il loro impatto, rispetto a ciò che è possibile.

Bob Hughes ha insegnato un corso di “digital media” presso l’Università di Brookes (Oxford) fino al 2013, con un particolare interesse alla riflessione sui cambiamenti sociali. E’ autore del libro “The Bleeding Edge: Why technology turns toxic in an unequal world”, che è stato recensito sulla rivista New Internationalist (che ne è l’editore) nel 2016 (http://newint.org/books/reference/bleeding-edge/).


Note

1 Slow Tech: per un’informatica buona, pulita e giusta. http://mondodigitale.aicanet.net/2015-4/relazioni/02_slow_tech.pdf

2 New Internationalist (November 15, 2016)


 

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