L’arte della protesta | Tina Rosenberg


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Un manifestante per i diritti civili aggredito da un cane della polizia. Birmingham, 1963 (Bill Hudson/Associated Press)


In Polonia vige una legge sull’aborto tra le più severe in Europa. Pochi mesi fa un provvedimento appoggiato dal governo ha cercato di inasprirla ulteriormente, proponendo una pena fino a 5 anni di carcere per le donne che hanno avuto un aborto. Le donne polacche hanno risposto con uno sciopero generale: il 3 ottobre le strade delle città principali sono state invase da un’onda di manifestanti, decine di migliaia – soprattutto donne vestite di nero.

Al governo della Polonia c’è un partito di destra, nazionalista e cattolico, che ha la maggioranza in Parlamento, ha preso controllo dei media indipendenti, non rispetta le sentenze della Corte Costituzionale e ha di recente ventilato l’idea di un milizia non dipendente dal controllo delle forze armate.

Non il tipo di governo che darebbe ascolto a quel genere di proteste. Tre giorni dopo, tuttavia, i legislatori hanno respinto il disegno di legge. Perché? Hanno visto le dimensioni e la velocità della mobilitazione, la concentrazione di giovani presenti, e l’hanno avvertita come una minaccia in grado di crescere.

L’importanza di questo episodio per l’America, che nella sua Costituzione tutela il diritto a manifestare pacificamente per mettere alla prova il potere del governo, è sotto gli occhi di tutti. Presto il partito repubblicano controllerà la presidenza, il Congresso, la maggior parte dei governi e delle legislatura dei singoli stati; la Corte Suprema avrà con ogni probabilità una maggioranza conservatrice. In seguito alla scelta di Trump di circondarsi di consiglieri radicati nelle aree dell’estrema destra nazionalista bianca, anticipati dai suoi attacchi al vetriolo sull’amministrazione Obama, i democratici, gli indipendenti e anche alcuni repubblicani si stanno preparando ad essere attaccati su tutti i fronti.

C’è di buono che non sono del tutto inermi. Poche altre volte, infatti, un’opposizione esautorata ha potuto contare su così tante risorse – in termini di supporto, di peso politico e di autorità morale. Tutto sta in come queste risorse vengono usate.

Se l’obiettivo è offrire ai delusi e agli arrabbiati una valvola di sfogo o un modo per mostrare solidarietà, allora le tante manifestazioni anti-Trump sono sufficienti. Ma non serviranno a rovesciare il risultato delle elezioni, né impediranno al neo-eletto presidente di fare ciò che ha in mente.

Comunque sia, le proteste possono influenzare la politica – è accaduto molte volte. Nella storia, americana e non, è successo che comuni cittadini si riunissero e riuscissero ad avere la meglio sui governi, anche quando era un singolo partito a farla da padrone. Molte di quelle proteste avevano a disposizione le stesse risorse di cui dispone oggi l’opposizione a Trump. Quelle vittoria hanno certamente qualcosa da insegnare.

Pianifica, pianifica, pianifica. Cinquant’anni dopo le manifestazioni di piazza a Birmingham, nessun movimento americano è riuscito a eguagliare l’abilità strategica dei movimenti per i diritti civili.

I loro leader combattevano una guerra – nonviolenta, certo, ma comunque una guerra – e pianificavano di conseguenza. Tenevano sotto controllo la diffusione delle proteste per provocare un’escalation di emotività e di pressione. Avevano messo in piedi scuole formative per attivisti in cui si imparava, per esempio, come ignorare le provocazioni alla violenza.

Provoca il tuo avversario se necessario. Nella lotta per i diritti civili la svolta venne quando la Southern Christian Leadership Conference fece marciare dei bambini a Birmingham (una decisione criticata da molti, compreso Malcolm X). Bull Connor, il capo della polizia della città, ordinò di usare cani, manganelli e idranti sui bambini in marcia – alcuni di loro avevano 6 anni appena. L’evento finì sulle prime pagine in tutto il Paese.

Il movimento ha conseguito il suo obiettivo grazie a una forte pressione morale sull’opinione pubblica. I manifestanti dimostravano di essere pronti a sacrificarsi per la causa. Sono riusciti ad attirare i loro oppositori nella trappola della violenza, e l’opinione pubblica ne è stata influenzata – una strategia simile a quella di Gandhi: spingere gli oppressori a mostrare il proprio lato peggiore. Vedendolo, l’opinione pubblica si sposta, e a quel punto il governo tende a prestarle ascolto.

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Manifestanti coordinati da ACT UP di fronte alla sede della Borsa di New York, 1989 (Tim Clary/Associated Press)

Pensa in grande, agisci in piccolo. Le proteste più efficaci sono quelle che puntano a un obiettivo raggiungibile in un contesto locale, consapevoli che la grande battaglia è rivolta verso l’opinione pubblica nazionale. Come Mark e Paul Engler scrivono in un’analisi sulle strategie nonviolente (This Is an Uprising), i movimenti agiscono su due livelli. A livello locale i movimenti per i diritti civili vanno spesso incontro a fallimenti; a Birmingham, per esempio, le concessioni ottenute dagli attivisti furono vaghe e marginali. Ma furono proprio le azioni di Birmingham a dare l’impulso per la successiva approvazione della legislazione federale sui diritti civili.

Usa l’ironia. In Serbia il movimento Otpor riuscì a mobilitare il Paese contro il dittatore Milosevic usando l’umorismo per fare breccia nella paura della gente. La loro strategia consisteva in azioni quotidiane intese a ridicolizzare Milosevic: quando lui inaugurava un nuovo ponte, Otpor ne costruiva uno di polistirene estruso e metteva in scena una cerimonia parallela. Srdja Popovic, uno dei leader di Otpor, ha chiamato questa strategia laughtivism (qui un articolo a proposito, in inglese). Non si tratta solo di sconfiggere la paura: l’umorismo fa abbassare le difese, suscita nelle persone uno stato di apertura che le spinge a prendere in considerazione quello che hai da dire. “Se la battuta è buona, la capisce anche la polizia”, dice Ivan Marovic, un altro dei leader di Otpor.

Sii aggressivo, al momento opportuno. È difficile immaginare quanto le persone malate di AIDS fossero escluse e marginalizzate ai tempi della presidenza di Reagan, quanto la loro causa fosse disperata su piano medico e sul piano politico.

Eppure nessuno si attribuì l’etichetta di outsider con più orgoglio del movimento ACT UP (AIDS Coalition To Unleash Power), fondato nel 1987 a New York. Molti dei suoi membri erano malati terminali. Erano disprezzati e denigrati. ACT UP è considerato un esempio della forza dirompente della strategia degli ultimi: hanno ottenuto un cambiamento grazie a un atteggiamento aggressivo, cercando il confronto diretto. I suoi attivisti erano arrabbiati e rumorosi. Sono stati i primi in assoluto a far chiudere la Borsa di New York. Spargevano le ceneri dei loro cari sul prato della Casa Bianca. Hanno portato un corteo chiamato “Stop the Church” di fronte alla St. Patrick’s Cathedral.

ACT UP, con la radicalità del linguaggio, delle azioni e delle immagini, ha messo in difficoltà anche alcune personalità gay di spicco, che l’hanno accusata di danneggiare la causa (le stesse critiche rivolte, a suo tempo, a Martin Luther King). Ma ciò che importa è che i contenuti del messaggio sono giunti anche alle tante orecchie che si scandalizzavano per la forma. Anche se la gente biasima la tua strategia, può comunque appoggiare la tua causa.

Spingendosi oltre il limite, ACT UP ha spostato una grossa fetta dell’opinione pubblica. Il gruppo ha dato vita a un movimento globale per la lotta all’AIDS. Ha giocato un ruolo fondamentale nel velocizzare le procedure per la ricerca di nuovi farmaci contro la malattia e poi ha contribuito a farne scendere i costi. Ha fatto pressione sulle compagnia assicurative affinché ne coprissero i costi. Ha tutelato gli interessi del paziente nella cura. È stata una dei soggetti che hanno maggiormente contribuito all’approvazione del Ryan White CARE Act, un programma federale rivolto a malati di AIDS che non possono permettersi un’assicurazione adeguata.

Togli le fondamenta. Gene Sharp, ricercatore americano e guru delle strategie nonviolente, sostiene che il potere di ogni capo, per quanto grande sia, poggia sull’obbedienza. Senza il consenso del popolo, il potere cade. L’obiettivo di un movimento civile dovrebbe essere sottrarre consenso al potere. Togli le fondamenta, e l’intera struttura collassa.

I due pilastri del potere di Milosevic erano la fetta più anziana della popolazione e la polizia. Gli attivisti di Otpor agivano su entrambi, ogni volta che uno di loro veniva arrestato (il che accadeva piuttosto di frequente). I nonni andavano su tutte le furie sapendo che i loro giovani studenti continuavano ad essere arrestati o accusati di terrorismo.

Ogni arresto, poi, dava la possibilità di parlare con la polizia. Alle barricate, Otpor andava a salutare gli agenti che li fronteggiavano. A forza di arrestarli, i poliziotti cominciarono a conoscere gli studenti personalmente, e alcuni di loro ammiravano il loro impegno nella lotta nonviolenta. “Gli agenti condividevano con noi la loro insoddisfazione per lo stipendio basso”, racconta Slobodan Homen, attivista di Otpor. Fu lui a dire a Milosevic: “Se a un certo punto ordinerai a questi uomini di spararci, beh non aspettarti che obbediscano.”

Questa strategia funziona anche per ottenere politiche diverse. I sostenitori del matrimonio omosessuale ottennero le loro prime vittorie con le chiese, con gli esperti di sviluppo e psicologia dell’infanzia e con l’ordine degli avvocati. Queste vittorie trasformarono quelli che erano influenti oppositori dei matrimoni gay in altrettanto influenti alleati.

Per le questioni politiche, il pilastro più importante in America è il Congresso: le proposte del presidente devono sempre essere approvate dal Congresso. Sia Bill Clinton che George W. Bush sono stati fermati dal Congresso su importanti temi legislativi, nonostante avessero la maggioranza. Questo non si deve all’attivismo dal basso, ma ad investimenti e ad azioni strutturate di lobbying verso gruppi influenti.

Durante la presidenza di Clinton, la riforma del sistema sanitario fu rovinata, tra le altre cose, da una pubblicità chiamata “Harry and Louise”, finanziata dal business delle assicurazioni private. La priorità assoluta di Bush, quando nel 2005 era appena stato rieletto e aveva conquistato la maggioranza al Congresso, era di fare in modo che le persone potessero investire le loro polizze assicurative in conti privati. Era l’argomento principale del suo discorso di insediamento e di tutti i suoi comizi. Nonostante questo, non riuscì a farla approvare dal Congresso. “L’ovvia ragione di questo è che Bush ha sopravvalutato la propria influenza politica”, spiegava William A. Galston del Brooklin Institution. “Dopo tutto, aveva vinto le elezioni con il margine di vantaggio più ridotto di qualunque altro presidente rieletto in tutto il ventesimo secolo. Era chiaro che i toni aspri e aggressivi della campagna elettorale avrebbero avuto delle conseguenze. Quando cominciò il suo secondo mandato, Bush aveva il più basso indice di gradimento di tutti i presidenti rieletti da quando esistono i moderni sondaggi elettorali – appena il 50%.

Sfrutta gli eventi rilevanti. Negli anni settanta gli Stati Uniti cominciarono a costruire impianti nucleari. Tanti. Le prima proteste significative arrivarono dalla Clamshell Alliance, costituita nel 1976 per opporsi alla costruzione dell’impianto di Seabrook Station nel New Hampshire.

La Clamshell Alliance non riuscì a impedire la costruzione dell’impianto, ma diede il via a un diffuso movimento anti-nucleare. Diversi gruppi in tutto il Paese misero in atto proteste e manifestazioni che riuscirono a rallentare la costruzione del nuovo reattore.

Il 28 marzo 1979 si verificò una perdita di liquido di raffreddamento al reattore 2 della stazione di Three Mile Island, che provocò un parziale collasso. Fu un colpo irreparabile per l’industria del nucleare. L’incidente di Three Mile Island avvenne 13 anni dopo un altro incidente simile, al reattore Fermi 1, vicino a Detroit. Se non ne avete mai sentito parlare, si deve anche al fatto che all’epoca non c’era un movimento pronto a mettersi in azione. Gli eventi rilevanti accadono con una certa frequenza. Molti passano senza rumore; alcuni invece diventano una scintilla che innesca grandi cambiamenti. Ciò che fa la differenza è l’esistenza di un movimento pronto a rispondere.

Per fortuna, un evento rilevante non deve necessariamente essere un collasso nucleare. Deve però essere un evento tragico che attiri l’attenzione e in cui una delle parti coinvolte sia in posizione di netto vantaggio morale. Talvolta, quando gli attivisti non sono in questa posizione, fanno in modo di esserlo: si pensi ai cani di Bull Connor o alla marcia del sale di Gandhi.

Il neo-presidente Trump ha carenza di appoggio popolare (Clinton ha ottenuto la maggioranza popolare con un margine più ampio di quello ottenuto da Kennedy nel 1960, da Nixon nel 1968 o da Gore nel 2000). Anche molti di coloro che l’hanno votato non appoggiano alcune delle sue politiche o affermazioni.

Molti dei pilastri tradizionali dell’amministrazione repubblicana sono tutt’altro che stabili nel loro appoggio, a partire dai diffidenti repubblicani del Congresso – alcuni cominciano già all’opposizione, come buona parte dell’establishment per gli affari internazionali. Come ha giustamente detto Clinton, il presidente Trump si fa “provocare da un tweet”. È impulsivo. La sua campagna ha alzato gli standard di quelli che Galston chiama “toni aspri e aggressivi.” Lui e suoi consiglieri assumono posizioni bigotte, che un’incredibile maggioranza degli americani giudica immorali e si rifiuta di condividere. In altre parole, la presidenza di Trump è, per la resistenza civile, un’occasione quanto mai promettente.


Tina Rosenberg è vincitrice del Premio Pulitzer per il suo libro “The Haunted Land: Facing Europe’s Ghosts After Communism”. È stata editrice per il Times e, più recentemente, autrice di “Join the Club: How Peer Pressure Can Transform the World” e dell’e-book di spionaggio ambientato nella Seconda Guerra Mondiale “D for Deception”. È co-fondatrice di Solutions Journalism Network, che supporta reportage di qualità come risposta a problemi sociali.


 

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