Elogio del perplesso post-referendario | Marco Labbate


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Il no ha vinto e questa è una buona notizia. Ci conferma infatti come, per quanto formidabili possano essere i mezzi di propaganda adoperati da una parte politica, questa non sia in grado da sola di giungere a sensibili modifiche della Costituzione. Perché ciò avvenga l’unica via perseguibile rimane quella dell’accordo tra avversari politici. Se questo non si verifica, la resistenza posta dagli oppositori è sufficiente per respingere qualsiasi tentativo di revisione unilaterale della Costituzione.

Il sì ha perso e questo porta con sé una notizia meno buona. Nessuna riforma costituzionale di cui le istituzioni italiane tuttavia necessitano potrà essere portata a termine dall’attuale classe politica. Seguiterà a prevalere, anche negli anni a venire, quella sorta di inerzia con cui l’Italia continua a scontrarsi rispetto alle necessità di aggiornamento che le istituzioni palesano. Sembra che troppo spesso incappi nella maledizione di essere chiamata a scegliere tra la conservazione dello status quo e riforme se non cattive, quantomeno mediocri. Vano è credere che nei prossimi anni si possa riprendere il discorso interrotto dall’esito referendario e dare forma se non ad un’assemblea semi-costituente quantomeno ad un tentativo di riforma congiunto che conduca ad esiti migliori della fallimentare bicamerale. Servirebbe una pluralità di volontà politiche che individuino l’accordo come momento fondamentale di una riforma costituzionale. Ma se sono ubiqui i propositi di cambiamento, adottati da tutti gli attori politici, ciascuno continua a proporre il proprio cambiamento come l’unico valido: altre proposte di riforma costituzionale potranno venire, ma si continuerà a procedere basandosi essenzialmente sulla forza di una maggioranza parlamentare (più o meno consistente). Nell’attuale confronto tra populismi di diversa estrazione è del tutto assente o confinata in settori marginali del dibattito politico una «cultura del cambiamento» che veda nel «compromesso» un elemento costitutivo.

Già, il compromesso. Difficile trovare altra parola tanto svilita dalla retorica politica che l’ha ormai degradata ad un eufemismo di «inciucio». Eppure il compromesso è un elemento tutt’altro che ignobile della sfera politica: oltre che reciproco dare e avere, esso è anche promessa congiunta tra diversi per un impegno per il futuro che riguarda tutti. Come ricorda la lezione di Scoppola, nella Costituzione, al di là di ogni mitizzazione, questi due corni affiorarono entrambi nel compromesso costituzionale che venne stipulato. Questo resse, nonostante l’Assemblea Costituente fosse attraversata da un’accesa conflittualità tra le parti politiche, al cui confronto quella di oggi impallidisce: attraversò l’escalation della guerra fredda, il crollo dei consensi della Democrazia Cristiana nelle elezioni amministrative del 1946, l’esclusione improvvisa del Partito Comunista dal governo nel maggio del 1947, le veementi battaglie sociali nelle campagne. Oggi, al contrario, ciascuna forza politica, pur con linguaggi e gradazioni diverse, manifesta una sorta di allergia al compromesso (che pure rimane la base insuperabile per ridefinire il contesto costituzionale, come l’esito referendario ha evidenziato). Si preferisce spogliare il diverso politico sempre più dai contorni dell’avversario e conferirgli quelli del nemico. Col nemico non si può scendere a patti.

Nel recente referendum si sono confrontate due diverse visioni di stato riassunte da coppie di opposti: centralismo versus regionalismo; premierato forte versus repubblica parlamentare (il secondo punto può essere discutibile, dato che la riforma non interveniva sostanzialmente sui poteri del governo. Tuttavia mi pare corretta l’interpretazione di Valerio Onida che inserisce la riforma all’interno di una cultura politica che chiede una corrispondenza immediata tra vittoria alle elezioni e governo del Paese). Non avere chiarito questa questione centrale, cioè l’essere espressione di una cultura costituzionale legittima a cui altrettanto legittimamente se ne contrapponeva una di segno opposto, non ha certo fatto bene al dibattito. In troppe occasioni si è cercato di attribuire alla riforma tutto e il contrario di tutto, anziché presentarla e contrastarla, onestamente, per quello che rappresentava. È forse inevitabile in una società mediatica che il momento elettorale comporti una continua semplificazione del discorso politico, fino trasformare la questione in una discussione pro o contro Renzi, pro o contro Salvini o Grillo, pro o contro l’Unione Europea, la JP Morgan, la Brexit e il trumpismo.

Certamente sulla personalizzazione del referendum hanno contribuito scientemente tutti gli attori coinvolti, con una responsabilità chiaramente più grave del presidente del Consiglio che non solo ha assunto su di sé il dibattito, ponendosi come il comandante in capo della riforma costituzionale (cosa anomala in una Repubblica parlamentare che avrebbe dovuto comunque avere il Parlamento come propulsore), ma ha legato a doppio filo l’esito referendario con il proprio governo.

Nei gangli della riforma era tuttavia presente la possibilità di condurre un dibattito su questioni cruciali, dalle quali è difficile uscire con un semplice aut aut. Se l’affluenza ci ha confortato sull’irreversibile declino della partecipazione politica, segno che la popolazione quando si sente coinvolta continua a volersi avvalere del voto, il dibattito ha saputo elevarsi soltanto per tratti brevi e assai delimitati. Sarebbe bene provare ora riprenderlo e tentare, almeno in alcune porzioni della società civile, un discorso che provasse a comprendere le ragioni dell’altro. Non solo perché una riconciliazione urge, ma perché è fondamentale che dopo il tempo della semplificazione torni il tempo della complessità che provi a ragionare sulle tare ataviche dell’attuale organizzazione istituzionale.

La complessità non è stata assente dai due fronti e ha prodotto anche riflessioni egregie. Vi è chi si è battuto per il no per difendere fondamenti costituzionali che vedeva in pericolo, portando validissimi argomenti. E c’è chi ha militato nel fronte del sì, sostenendo con perizia gli stimoli all’attuale sistema istituzionale che la riforma poteva innescare. Ma questa è stata solo una parte del confronto. Una ricerca dell’istituto Cattaneo ha evidenziato come nella città di Bologna il no abbia avuto più successo nelle aree con una preponderanza di giovani, con un reddito più basso e con un maggior tasso di immigrazione. Cioè tra quelle categorie più deluse da Renzi. Dentro il fronte del no, sono confluite tante istanze, alcune espressione di un disagio reale che ha visto nel referendum l’occasione di palesarsi, altre che hanno agitato la difesa della Costituzione in chiave strumentalmente antigovernativa (non so quanti avrebbero difeso con altrettanta fermezza quell’esempio di elementare solidarietà umana espresso dall’articolo 10 che al comma terzo afferma che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge»). Lo stesso fronte del sì ha ceduto ripetutamente a una retorica che chiedeva di puntellare il governo contro derive populistiche e antieuropeistiche, paragonando, un po’ avventurosamente, l’attuale referendum ad una Brexit, trascurando le responsabilità dell’esecutivo renziano nel perseguire tale indebolimento con uno scriteriato azzardo politico. Non si sconfigge certo il populismo agitando spettri ad ogni piè sospinto, né uscendo dal merito di alcune delle ragioni portate dalla parte migliore del fronte opposto, che rappresentano proprio l’antitesi di una deriva demagogica: la non rappresentatività del Parlamento investito dal governo di una funzione costituente, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista di legittimità politica; la cattiva scrittura di una riforma, a tratti inutilmente confusa, a tratti frettolosa e sciatta, che dava risposte inadeguate alle giuste questioni che sollevava.

Ciò detto non si può negare ai riformatori il merito di aver restituito al dibattito pubblico due questioni fondamentali che rimangono non risolte: il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del titolo V. Il primo può non essere il principale problema del Paese, tuttavia appare una modalità di legiferare ormai pleonastica e obsoleta. Interrogarsi su una camera delle Regioni con funzioni ben definite non è un ragionamento ozioso. La riforma del titolo V del 2001 così com’è appare insostenibile, sia per la confusione che vige circa le materie a competenza concorrente, sia per la mancanza di una volontà governativa di metterla in pratica con l’emanazione delle leggi quadro previste, sia per l’orientamento recente della Corte Costituzionale. Vi sono poi aspetti della riforma che possono essere ritenuti unanimemente validi: la riduzione del quorum nei referendum abrogativi, la disciplina dei decreti legge, la facoltà del governo di chiedere alla Camera di fissare un termine entro cui deliberare sui progetti rilevanti per l’indirizzo politico dell’esecutivo.

Nello scenario politico post-referendario, dopo un crescendo insostenibile dei toni e della conflittualità, meriterebbe di trovare spazio la figura di poco appeal del «perplesso». Non intendo solo chi, dopo aver a lungo soppesato i pro e i contro, sia rimasto in bilico fino all’ultimo sulla scelta tra sì e no, ma anche chi, pur avendo preso una posizione netta o militante per l’uno o l’altro fronte, abbia suo malgrado riconosciuto che la posizione espressa non esauriva la complessità della situazione e che punti di forza e criticità albergavano da entrambe le parti. Una cultura del compromesso può oggi nascere solo da un reciproco riconoscimento, che spazzi via tanto i servilismi amorali quanto i dogmatismi contrapposti.

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