Seveso 1976. Oltre la diossina | Recensione di Enzo Ferrara

Enzo Ferrara

Federico Robbe, Seveso 1976. Oltre la diossina, Itaca, Castel Bolognese 2016, Prefazione di Andrea Tornielli, pp. 160, €12,50

Ritorno a Seveso. Politica e conflitti ambientali 40 anni dopo

«Un intero quartiere di Seveso è stato dichiarato zona invasa da gas tossici, con un’ordinanza emessa ieri sera dal sindaco della città. Nell’ordinanza il sindaco Rocca vieta agli abitanti della zona di ingerire prodotti ortofrutticoli, o comunque a contatto con il terreno della zona. Sarà inoltre vietato alla popolazione di toccare animali ed ortaggi [ed è fatto obbligo] di osservare una scrupolosa igiene e pulizia personale avvalendosi di acqua resa sterilizzata mediante bollitura».

Con queste stringate parole, tratte da un minuscolo articolo pubblicato sabato 17 luglio 1976 sulle pagine milanesi del «Corriere della Sera» la cittadinanza e l’opinione pubblica italiana vennero informate per la prima volta dell’incidente avvenuto esattamente una settimana prima, il 10 luglio 1976 all’interno del reparto B dello stabilimento ICMESA di Meda, dove si produceva una sostanza chimica chiamata triclorofenolo. L’azienda era di proprietà del gruppo svizzero Givaudan, a sua volta filiazione della multinazionale farmaceutica Hoffmann-La Roche. Il dramma, in tutta la sua portata, era solo all’inizio: non si conoscevano ancora la natura e il tipo di sostanza inquinante (si sarebbe cominciato a parlare di diossine solo il 21 luglio), né l’estensione reale della zona colpita.

Una fuga di gas, avvenuta per il surriscaldamento di un reattore dell’ICMESA – chiamata dai locali la fabbrica dei profumi –, che si sarebbe probabilmente evitata con la sola presenza di una valvola di protezione termica, fece sprofondare il nostro Paese in un incubo chiamato diossina – o meglio diossine perché si trattò in realtà della dispersione sul territorio di una famiglia estesa e complessa di sostanze chimiche estremamente tossiche e persistenti.

Fu così che l’Italia uscita dal cosiddetto boom economico cominciò a conoscere le pesanti contraddizioni dello sviluppo industriale accelerato e a capire di dover convivere con i rischi dell’esposizione all’inquinamento pesante, con produzione di sostanze chimiche pericolose sfornate a tonnellate sul proprio territorio, in non pochi casi a pochi metri dalle abitazioni della popolazione – l’anno dopo, nel 1977, sarebbe iniziato il primo processo in Italia con i sindacati e le associazioni dei familiari ammesse come parti civili, all’IPCA di Cirié (Torino) dove si lavoravano coloranti all’anilina, cancerogeni noti che avevano causato in decenni di produzione la morte di più di trecento operai. I processi legati a disastri ambientali oggi sono moltissimi in Italia: dall’Ilva di Taranto alla Solvay di Spinetta Marengo (Al), a quelli per amianto di Casale Monferrato, Crescentino, Bagnoli, Rubiana (Eternit), Ivrea (Olivetti), Torino (Teksid) …

A Seveso, nei giorni immediatamente successivi all’incidente vennero trovati morti centinaia di animali e cominciarono a presentarsi sintomi di ustione (assieme alle diossine erano fuoriusciti vapori di soda caustica) e intossicamento in adulti e bambini, destinati – e vorremmo capire come sarebbe stato possibile il contrario – a suscitare un’ondata di panico generale. Accadeva 40 anni fa, in un’Italia che cominciava a subire ma anche finalmente a riconoscere i primi segni di contrappasso di uno sviluppo industriale non guidato – e anzi decisamente anarchico e pericolosamente sregolato – in preda a un’ubriacatura di progressismo ancora non smaltita e voglia di sviluppo a tutti i costi, da raggiungere subito o comunque in fretta senza badare a troppe questioni di ambiente, salute ed etica.

Questo è quanto emerge anche dalla lettura del libro di Federico Robbe con Prefazione del giornalista Andrea Tornielli, Seveso 1976. Oltre la diossina, un testo che racconta lo sconcerto che principalmente dominava in quei giorni in cui ci si ritrovava – fra Italia, Svizzera (sede della Givaudan), e l’intero mondo scientifico – inermi, solo con domande e nessuna risposta a quesiti drammatici sulle cause dell’incidente, sulle possibili conseguenze rispetto alla salute della popolazione e all’ambiente, sulla loro durata e persistenza nel tempo. Una storia vista però da un’ottica particolare, quella dei movimenti cattolici che sorsero in quei drammatici giorni in Brianza e che pur ammettendo le responsabilità della multinazionale proprietaria dell’ICMESA, la svizzera Hoffmann-La Roche, colpevole di aver sistematicamente disatteso le più elementari precauzioni a tutela dell’integrità del territorio e della salute dei suoi abitanti, vorrebbe anche rappresentare le reazioni della popolazione colpita e dei movimenti ambientalisti e operai che sorsero come reazione all’incidente, principalmente come in preda a una vera e propria psicosi collettiva.

Si legge nel libro una proposta difficile da accettare, un ridimensionamento e un accomodamento storico della vicenda di Seveso. Il clima di incertezza che dominò per mesi e anni dopo l’incidente sarebbe imputabile – usando le parole (p. 84) di Giovanni Battista Guzzetti, apparse su «L’Osservatore Romano» 60 giorni dopo l’incidente – a «una vera e propria campagna di terrorizzazione e quindi di violenza morale», o più banalmente al fatto dato come ontologicamente necessario che nel 1976 non si conoscevano ancora i reali effetti sull’uomo di una sostanza – la diossina, appunto, sempre al singolare secondo Robbe – di cui all’epoca si sapeva solo che era stata utilizzata come defoliante dagli americani in Vietnam. Possiamo proporre qualche approfondimento: armi chimiche contenenti diossine venivano usate per stanare i guerriglieri Vietcong che si nascondevano nelle foreste tropicali. Gli aerei statunitensi andavano gettando il famigerato agente Orange a tonnellate, eseguendo insomma una vera e propria guerra con armi di distruzione di massa di cui si afferma non si conoscessero (o non si volevano far conoscere) gli effetti, ma le cui ripercussioni durano ancora oggi nelle aree contaminate e uniscono come vittime la popolazione vietnamita e molti americani veterani reduci dal Vietnam. E l’agente Orange e i suoi precursori venivano e vengono prodotti in tutto il mondo a tonnellate annue – i pesticidi sono per quantità il principale veleno presente nel suolo terrestre – mentre l’industria chimica sposta con rapidità la propria produzione da quella dei pesticidi a quella degli esplosivi per la guerra.

Ci furono inchieste parlamentari, i dirigenti della ICMESA furono processati, si cercò di accertare le responsabilità; una parte di Seveso fu abbandonata per sempre e gli abitanti furono trasferiti. La terra, il materiale contaminato e le parti di edifici e macchinari furono sepolti in una grande fossa su cui furono piantati alberi, Il bosco delle querce. Delle strutture dell’ICMESA non c’è più traccia. Una parte delle strutture e dei terreni contenenti diossine fu trasportata in qualche discarica o inceneritore ma – e anche questa non è una situazione accettabile in un Paese democratico – pare che nessuno sappia esattamente dove, anche se si sospetta che possa esser stata spostata in Campania.

Purtroppo pochi in Italia e Svizzera sapevano davvero che cosa si producesse in quello stabilimento, che cosa usciva da quel camino alla periferia della città. E altrettanto importante sarebbe stato capire cosa si era prodotto in passato, quali scorie erano rimaste depositate nei decenni e in quale terreno o discarica, ma anche di questo si è persa la memoria. L’Italia non ha saputo nemmeno mantenere memoria storica degli stoccaggi di sostanze chimiche nei terreni del nostro Paese, né può porre rimedio alle ingiustizie del passato perché si moltiplicano le sentenze come quelle che alla fine del 2014 hanno assolto per prescrizione i responsabili dell’Eternit per l’amianto, della Montedison per la discarica di Bussi sul Tirino in Abruzzo – il più grande sversamento abusivo di rifiuti tossici in Europa – e della Marzotto per lo stabilimento Marlane di Praia a Mare in Calabria dove gli operai respiravano vapori velenosi.

Tornando al libro, secondo Robbe il panico veniva soprattutto alimentato da quanti nel «caso Seveso», intravvedevano l’opportunità di fare leva sull’opinione pubblica per accelerare l’approvazione della legge sull’aborto, che di fatto sarebbe arrivata poco meno di due anni più tardi. In prima linea, in questa battaglia «sul filo dell’allarmismo e della disinformazione», si sarebbero trovati i deputati radicali entrati in Parlamento alle elezioni politiche del 1976. Robbe riprende il non meno aspro confronto sulla carta stampata dove ci fu chi non si fece scrupolo di proporre l’aborto obbligatorio per tutte le gestanti di Seveso, argomentando – come ricorda il libro, citando le parole di Enzo Biagi – che in questo modo si sarebbe cancellata «ogni resistenza affettiva, ogni scrupolo morale o di natura religiosa nelle persone interessate».

L’indignazione che traspare dalle righe di Robbe verso gli eccessi verbali di chi si preoccupava in modo eccessivo delle ripercussione dell’incidente sarebbe anche condivisibile, pur a posteriori, se non si accompagnasse a una sistematica visione riduzionista rispetto al danno provocato. Eppure basta riprendere le stesse parole dei testimoni per dare idea del livello di pericolosità dell’evento. Pier Alberto Albertazzi, della Clinica del lavoro dell’Università di Milano parla di incidenza di linfomi e leucemie dal 40 % al 60 % in più di quanto atteso (p. 134) fra la popolazione, ma minimizza riportando in termini numerici gli effetti a «18 casi in più nel corso di trent’anni» (p. 135), arrivando perfino ad aggiungere un’irresponsabile affermazione secondo cui «l’effetto è stato modesto. Tanto che se non ci fosse stata un’indagine ad hoc sulla popolazione forse non si sarebbero nemmeno notati» (p. 135). Se davvero Pier Alberto Albertazzi è il punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale – come sostiene Robbe (p. 133) – allora c’è molto lavoro da svolgere anche solo di tipo educativo e dovremmo ancor più richiedere che i sindaci, come sarebbe loro dovere, rendano pubblici referti epidemiologici dei loro comuni per conoscere annualmente lo stato di salute della popolazione in Italia, verificare eventuali eccessi di patologie (ricoveri, decessi ecc.) e individuarne le possibili cause per consigliare le specifiche azioni di prevenzione primaria.

Meriterebbero ulteriori considerazioni anche le osservazioni sulla convergenza di attenzione verso quel che accadeva in quel piccolo luogo della Brianza da parte di donne interessate alla possibilità di ricorrere alla pratica abortiva – sempre dolorosissima per tutti gli esseri coinvolti – a quel tempo non permessa nel nostro Paese. Va ricordato che furono proprio i bimbi e la popolazione di Seveso colpiti dalla nube a costituire la coorte per studi e sperimentazioni sugli effetti delle diossine, come era accaduto nel dicembre 1943 agli abitanti di Bari colpiti dagli effetti dell’iprite e dell’antrace – nel porto di Bari dopo l’armistizio un bombardamento tedesco fece esplodere una nave inglese che conteneva tonnellate di queste armi chimiche, causando migliaia di vittime e feriti – e come sarebbe accaduto nel 1986 agli abitanti di Chernobyl per le radiazioni ionizzanti dopo l’esplosione della centrale nucleare: non è semplice trovare situazioni di contaminazione acuta da parte di agenti tossici, come le diossine, l’antrace o le radiazioni nucleari, e solo in quei pochi casi in cui sfortunatamente ciò accade – a prescindere da considerazioni etiche – si possono svolgere studi scientifici.

A parte – e qui lodiamo il lavoro di recupero della memoria svolto da Robbe – vanno considerati e ricordati i casi di violenza che non fu solo verbale, purtroppo, perché ci furono anche azioni di aggressione fisica fino ad arrivare all’uccisione di Paolo Paletti, un dirigente tecnico dell’ICMESA, da parte di terroristi armati appartenenti a Prima Linea, che lo aspettarono sotto casa il 5 febbraio 1980.

Va però ammesso che l’ignoranza più che la conoscenza guidava il progresso tecnologico, allora come oggi, sugli effetti possibili e sui rischi correlati alla produzione industriale. Non crediamo che sia sufficiente per prevenire i possibili incidenti organizzare raduni oceanici come quando Teresa di Calcutta – che la sera prima ricorda Robbe era andata «in giro per Milano a dare conforto ai senzatetto offrendo loro caramelle e parole di speranza» (p. 98) – raccolse 70.000 persone allo stadio di San Siro nel settembre 1977 per la celebrazione la vita, mentre infervorava in Italia la campagna a favore dell’aborto. E pur condividendo l’apprezzamento per le tante pratiche di solidarietà e convivialità non solo di matrice cattolica, giustamente ricordate e rivendicate in questo libro, neppure pensiamo che sia possibile fermarsi all’assunto per cui la diossina si sconfigge con l’amicizia (p. 83), purtroppo.

Sorprende il semplicismo che traspare dalle righe di Robbe, proprio adesso, 40 anni dopo Seveso, quando il danno ambientale è al centro di riflessioni mondiali e di un lavoro culturale improbo per poter istituire una categoria del diritto che contempli la protezione dell’ambiente non soltanto in base a enunciati di principio ma in forza di azioni e mezzi capaci di mettere in pratica davvero quelle opere di prevenzione e riparazione così difficili da attuare.

A Seveso la popolazione rimase sola, spaventata e stordita tra irresponsabili minimizzazioni e incertezze. Non si sapeva davvero come porre rimedio né si saprebbe porre rimedio oggi, perché le diossine sono inquinanti persistenti non alterabili e, in buona sostanza, una volta che entrano nel nostro corpo ci restano molto a lungo. Cos’altro avrebbe potuto rispondere Barry Commoner agli astanti che nel febbraio 1977 al Politecnico di Milano gli chiedevano un antidoto alle diossine oltre al silenzio? (p. 102). La richiesta di un antidoto andava posta non a Commoner ma ai responsabili della produzione e alle autorità che ne avevano concesso l’autorizzazione.

A tutte quelle domande: cosa sarebbe successo delle case, dei campi, delle diossine nel suolo, delle falde idriche, non diede risposte, ma testimonianza almeno, forse solo Laura Conti, medico, donna, consigliere regionale della Lombardia, che raccolse le voci della gente di Seveso in una bellissima storia di due preadolescenti Una lepre con la faccia di bambina (Editori Riuniti 1978). Laura Conti fu fra le pochissime persone che rimasero sempre lucidissime di fronte a quanto andava accadendo e, diversamente da Robbe, non crediamo che il suo lavoro contenesse asperità ideologiche (p. 77).

Federico Robbe insiste lecitamente su un punto di vista cattolico – e all’interno del variegato universo cattolico abbraccia la prospettiva di Comunione e Liberazione – di questa storia, il suo libro ne propone una lettura specifica, partendo dalle testimonianze di alcuni dei suoi protagonisti. Ma Seveso rappresentò ben di più per la società italiana, soprattutto fu una ennesima presa di coscienza della ignoranza sui rischi a cui vengono esposti la popolazione e l’ambiente da parte dell’apparato industriale-politico-militare – per usare le parole del presidente Franklin Delano Roosevelt.

Una lezione evidentemente non pervenuta, se ancora, anche in questo libro, non si comprende il vero nodo dell’evento di Seveso: la profonda ignoranza di industria, accademia e media sulle conseguenze della fuoriuscita di una sostanza che veniva prodotta a tonnellate; la prova di tossicità delle sostanze lasciata a carico della popolazione esposta al rischio; la sistematica reticenza e la censura sulle reali produzioni della fabbrica e sulle loro caratteristiche tossico-nocive. Situazioni tutte inaccettabili. Nel libro ci si concentra solo su alcuni aspetti della vicenda mettendo in luce le contraddizioni dei movimenti e degli attivisti, fortissime, certamente come sempre accade, soprattutto quando vige la democrazia e la partecipazione dal basso coinvolge la cittadinanza nel suo più ampio insieme, ma va detto e ripetuto che era l’ignoranza a dominare in quel momento non la conoscenza reale degli effetti.

Diventa perciò difficile leggere il libro di Robbe se non utilizzando anche un’ottica critica demolitoria dell’imperversante positivismo, recuperando dalle sue stesse affermazioni le conclusioni da leggere fra le righe di Oltre la diossina. Perché Seveso fu anche il luogo di una rinascita scientifica molto più persistente e radicata di quanto non traspaia. Robbe non considera quanto già fu messo in luce dal gruppo di scienziati che nel 1976 ruotavano attorno alla rivista «Sapere» diretta da Giulio Macaccaro, i quali per primi con il fondamentale contributo del professor Vladimiro Scatturin ricostruirono in un memorabile numero diffuso in tutto il mondo la reale catena di produzione dell’ICMESA e che ricordavano già allora che la scienza era il potere: decideva, inquinava, avvelenava, distruggeva.

Verrebbe da chiedersi se quella forma di resistenza con connotazione strettamente cattolica proposta in questo libro, quell’andare avanti nonostante tutto (anche un poco chiudendo gli occhi sulle possibili conseguenze) si siano poi risolti in soluzioni persistenti, se abbiano aiutato a maturare una coscienza storica e, soprattutto, a prevenire ulteriori disastri.

La risposta non può essere positiva. Il nucleare, i defolianti, l’inquinamento, Porto Marghera, Seveso, Bhopal (tanto per citare solo i casi più noti) sono stati nei quarant’anni dopo Seveso il risultato del potere di una scienza non sottoposta ad alcun controllo, meno che mai di tipo spirituale. A questo potere ci fu chi provò a contrapporre la conoscenza diffusa e anche la conoscenza operaia e popolare, ma altre vicende sopravvennero negli anni Ottanta e quasi tutto finì in gran parte dimenticato, comprese le preoccupazioni e le lotte per la sicurezza sul posto di lavoro e la salute dei lavoratori. Da allora politicamente tutto è cambiato, ma le applicazioni tecnologiche di una certa scienza continuano a causare disastri.

Si parla nel libro di un dibattito politico e culturale intossicato da toni apocalittici privi di un reale fondamento scientifico, entro il quale – per fortuna – c’è anche la storia di una comunità cristiana che, lontano dal clamore dei media, ha saputo farsi prossima alle molte situazioni di bisogno generate dal disastro ambientale, offrendo la fede come punto concreto da cui ripartire. Non si considera che se è vero che le persone hanno timore di ciò che non conoscono la comunicazione scientifica, che è uno dei punti chiave della rottura di paradigma in corso, dovrebbe farsi carico della responsabilità di informare diffusamente, semplicemente, con tempismo e affidabilità.

Ma anche questa deve sottostare agli imperativi dell’economia e della produzione. Non è ammissibile che ancora oggi un commentatore de «La Stampa» riesca ancora a usare – e non si sa più come reagire a queste leggerezze – il termine terrorismo per commentare le reazioni e le opinioni degli ambientalisti a Seveso. «Si deve anche a questa campagna di terrorismo mediatico […] se più di quaranta donne di Seveso tra il 1976 e il 1977 decidono di abortire» (P. Valvo, «La Stampa», edizione di Milano, 10 luglio 2016).

Il fronte che allora poteva unire cattolici e ambientalisti si è spezzato, e la maggior parte di coloro che si occupano di scienza – scienziati, manager o comunicatori – si interessa più facilmente di brevetti e delle ricadute tecnologiche (ma soprattutto economiche) in moltissimi settori, da Internet alla clonazione, agli OGM. Del gruppo di «Sapere» restano oggi in trincea a condividere le battaglie per la giustizia delle popolazioni colpite dai disastri ambientali – come accadrà a Torino con il processo Eternit-bis, – in pochi: alcuni medici, gli epidemiologi della rivista «Epidemiologia e Prevenzione» e il gruppo di «Medicina Democratica» con l’omonima rivista che compirà nell’ottobre 2016 i suoi primi quaranta anni di lotta e r-esistenza iniziati proprio a ridosso della vicenda di Seveso, definita fin dai primi giorni come un «crimine di pace».


Bibliografia

  • AA.VV. ICMESA una rapina di lavoro e di territorio, Milano 1976
  • AA.VV., «Sapere», 796 (novembre-dicembre) 1976, Seveso un crimine di pace
  • AA.VV.., «Sapere», 848 (giugno-agosto) 1982, Seveso sei anni dopo
  • Biacchessi. Daniele, La fabbrica dei profumi, Milano 1995
  • Carson, Rachel, Primavera silenziosa, Milano 1963
  • Centemeri, Laura, Ritorno a Seveso il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione, Milano 2006
  • Conti, Laura, Visto da Seveso. L´evento straordinario e l´ordinaria amministrazione, Milano 1976
  • Id., Una lepre con la faccia di bambina, Milano 1978
  • Fratter, Massimiliano, Seveso Memorie da sotto il Bosco, libro più DVD, 2006
  • Galimberti, Mario, Citterio, Giacomo, Losa, Luigi, Seveso la tragedia della diossina, Besana Brianza 1977

Filmografia

  • Seveso il Corriere della Sera racconta la storia, 17 luglio 1976-31 dicembre 2003 (DVD), © 2004 Legambiente Lombardia Onlus, Fondazione Corriere della Sera
  • Gianni Serra, Una lepre con la faccia di bambina, Italia 1988, tratto dal romanzo di Laura Conti
  • Claudio Moschin, Specchio delle mie brame, Italia 2005
  • Sabine Gisiger, Gambit (Gambetto), Germania 2005

 

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