Perché Aleppo è il sintomo di ciò che è sbagliato nel nostro modo di trattare le atrocità | Patrick T. Hiller


aleppo8 ottobre 2016 – Ancora una volta l’espressione “Mai più!” è portata alla ribalta dalle uccisioni di civili e dalle sofferenze su larga scala cui stiamo assistendo. La città siriana di Aleppo è assediata e le Nazioni Unite avvertono che la città potrebbe essere totalmente distrutta nel giro di due mesi. Il Senior Advisor dell’ONU Jan Egeland ha osservato che “dobbiamo essere [spietatamente] onesti con noi stessi, e non c’è dubbio che, a questo punto, in Siria non stiamo facendo abbastanza per un numero crescente di civili”.

Quasi contemporaneamente, alcuni editoriali del Washington Post e del New York Times suggeriscono rispettivamente che l’inazione dà via libera ai crimini di guerra e che il rimanere passivi è già stato messo in relazione con la perdita di mezzo milione di vite in Siria. Gli editorialisti Samer Attar e Nicholas Kristof non sono guerrafondai. Al contrario, Attar è un chirurgo, volontario per la Syrian American Medical Society, mentre i commenti periodici di Kristof ne dimostrano costantemente la comprensione e l’empatia per i diritti umani e la giustizia sociale. Sfortunatamente, tuttavia, entrambi gli articoli sono sintomi di un problema più ampio, di come cioè la nostra società si trovi nella trappola concettuale che le uniche scelte che abbiamo per affrontare le atrocità su larga scala siano o l’azione militare o l’inazione totale.

Il conflitto in Siria ha dimostrato più e più volte che gli sforzi diplomatici hanno fallito a diversi livelli. Bloccati nella nostra trappola concettuale, la prima cosa che viene in mente è che è stato provato di tutto e ormai è ora di tirare fuori le armi – letteralmente. E quando vediamo le immagini, i video ed i tweet di tutti questi sofferenti, chi argomenterebbe contro il loro salvataggio? Voglio essere chiaro. In un dato momento, in un dato posto, un dato gruppo di persone può essere salvato con un intervento militare. Tuttavia, gli interventi militari peggioreranno sempre la situazione generale e le prospettive di una trasformazione costruttiva del conflitto si restringeranno. Inoltre, mentre alcune vite potrebbero essere salvate, altre saranno tolte. Dobbiamo affrontare la realtà. Un intervento militare causerà sempre vittime innocenti.

Un intervento militare è l’inserimento di forze militari esterne in un conflitto esistente. Ciò avviene con diversi mezzi, quali il rifornimento di armi e munizioni, incursioni aeree e truppe di combattimento per intervenire direttamente nel conflitto. È l’uso su grande scala di una forza mortale. Un intervento sotto qualsiasi nome – militare, umanitario, di coalizione, alleato, peacekeeping – è guerra, e le guerre sono distruttive per natura. In altre parole, quando parliamo di interventi militari umanitari, stiamo parlando di un ossimoro totale: dichiariamo di difendere la vita, mentre provochiamo attivamente delle morti.

È ora di prendere una nuova strada. Una strada che sia caratterizzata non da un certo pacifismo, percepito come ingenuo, ma da un’analisi rigorosa delle alternative nonviolente, senza considerare la cosiddetta opzione militare. Quest’ultima deve essere tolta di mezzo, altrimenti tutti gli altri approcci dovranno fronteggiare una forza contraria e saranno direttamente indeboliti.

Considerate soltanto questa lista non esaustiva di alternative nonviolente e praticabili, offerte da un campo di peacebuilding sempre più professionalizzato e sostenute da una disciplina accademica di scienza della pace in via di maturazione: embargo sulle armi, fine di tutti gli aiuti militari, appoggio della società civile, attori nonviolenti, sanzioni, lavoro con gli organismi sovranazionali (es. ONU, Corte Internazionale di Giustizia), cessate il fuoco, aiuto ai rifugiati, impegno a non usare la violenza, ritiro delle truppe, operatori nonviolenti nei conflitti, iniziative transitorie di giustizia, diplomazia creativa, modi di governo inclusivi, partecipazione crescente delle donne alla vita politica e sociale, informazioni accurate sui fatti, separazione degli autori dei crimini dalla loro base di sostegno, eliminazione dei profitti di guerra, resistenza civile nonviolenta, patrocinio pubblico, conciliazione, arbitrato e accordi in sede giudiziaria, meccanismi per i diritti umani, protezione e assistenza umanitaria, incentivi economici, politici e strategici, sorveglianza, osservazione e verifica. La lista continua.

A differenza del dott. Attar e di Nicholas Kristof, non ho visto la sofferenza opprimente sul campo. Inoltre, non posso parlare per gli assediati di Aleppo e non giudicherò certamente coloro che chiedono disperatamente aiuto tramite un intervento militare. Voglio anche fare in modo che “Mai più!” diventi una realtà. Non sto facendo un appello moralistico. Faccio parte di una comunità di professionisti e di accademici altamente qualificati che hanno accumulato una vastissima esperienza nel fornire le prove che le molte alternative nonviolente, ma forti, sono sempre preferibili a interventi militari.

Il grande pubblico non è ancora ben informato su tutte queste possibili misure. Le ricerche dimostrano che negli USA la gente pensa che l’uso della forza militare sia l’ultima risorsa e provano che c’è un minore consenso alla guerra quando sono presentate delle alternative. Molte di queste sono già usate in Siria a vari livelli. Lo International Center on Nonviolent e Waging Nonviolence pubblicano numerose notizie ed analisi di forme nonviolente di conflitto nel mondo, Siria compresa. Quando non sono contestate, tutte le richieste di intervento militare continuano a far tacere le voci che richiedono le numerose alternative nonviolente praticabili. Se non le usiamo, non è perché non siano disponibili, ma è a causa di costrizioni imposte artificialmente, mancanza di interesse, o egoismo. Anche se non sono soluzioni magiche, sappiamo che funzionano meglio.


Patrick T. Hiller, Ph.
Patrick T. Hiller, Ph.D., è uno studioso di Trasformazione dei Conflitti, professore, membro del Consiglio Direttivo della International Peace Research Association, membro del Peace and Security Funders Group, e Direttore della War Prevention Initiative della Jubitz Family Foundation.


10 October 2016
Patrick T. Hiller | PeaceVoice – TRANSCEND Media Service
TMS: Why Aleppo Is the Symptom of What Is Wrong with How We Deal with Atrocities
Traduzione di Franco Malpeli per il Centro Studi Sereno Regis

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