Bertita alla ricerca di giustizia | Francesco Martone 


Honduras. La figlia dell’attivista honduregna Bertha Caceres continua a chiedere verità sull’omicidio della madre e soprattutto la difesa dei diritti dei popoli indigeni dell’America Latina. L’Italia deve fare la sua parte

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«Credo che di fronte alla richiesta di giustizia proveniente da ogni parte del mondo per l’assassinio di mia madre Bertha, sia importante per me essere in Italia per raccontare in prima persona quello che stiamo vivendo in Honduras, rafforzare i vincoli di solidarietà e collaborazione per far sì che alla richiesta di giustizia seguano azioni concrete», Bertita parla con voce sottile, lo sguardo penetrante e profondo incorniciato da capelli neri. Studia storia e cultura dell’America Latina in Messico, dopo aver passato cinque anni di studi a Cuba. Ormai però la stragrande maggioranza del suo tempo la passa in giro per il mondo, per rappresentare il proprio popolo, il popolo Lenca e l’organizzazione di cui fa parte, il Copinh (Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras), di cui la mamma Bertha era co-fondatrice e leader riconosciuta.

Sette mesi sono passati da quando Bertha ha trovato la morte sotto i proiettili di qualche sicario mandato da chi voleva mettere a tacere la sua voce e quella di chi si oppone al progetto della diga Agua Zarca, a Rio Blanco.

La storia di Bertha, dell’impunità e della mancata collaborazione del governo honduregno nell’accertare le responsabilità e punire i mandanti ed esecutori materiali del delitto, è la storia di tanti attivisti.

Bertita porta sulle sue forti spalle un’importante eredità. È in giro per l’Italia da una decina di giorni. Dopo il Festival di Internazionale a Ferrara, la incontriamo a Roma in occasione della tappa organizzata con il sostegno del Cica, Collettivo Italia-Centro America. Ha voluto visitare la tomba di Antonio Gramsci, come fece a suo tempo la mamma quando venne a Roma per incontrare Papa Francesco in occasione del primo incontro da lui convocato con i movimenti indigeni e sociali di mezzo mondo. E ha finalmente avuto occasione di parlare faccia a faccia con Vicky Tauli Corpuz, la tenace e combattiva relatrice speciale Onu sui Diritti dei Popoli Indigeni, donna indigena Igorot delle Filippine. Era tempo che si rincorrevano. Vicky aveva visitato il sito della diga assieme a Bertha madre, attivandosi fin da subito.

Immediatamente dopo il suo omicidio, si è mossa con tutti gli strumenti a sua disposizione, contrapponendo i suoi dossier a quelli menzogneri e inaffidabili prodotti dal governo dell’Honduras, dall’impresa e dagli organismi finanziari che sostengono il progetto: Fmo olandese, FinnFund finlandese e la Banca centramericana di integrazione economica (Bcie).

È dei giorni scorsi la pubblicazione di un suo rapporto sull’Honduras e il progetto di Agua Zarca al centro delle denunce del Copinh, stilato dopo una missione sul campo, che le ha permesso di constatarne in prima persona la veridicità.

Bertita ha incontrato nuovamente Inka Artjeff rappresentante del Parlamento Sami che vive a Roma e che si è attivata da tempo – dopo essersi conosciute ad Helsinki – per convincere il governo finlandese a recedere dal finanziamento della diga. All’inizio il progetto era sostenuto dalla Banca Mondiale e da Sinohydro, che decisero di ritirarsi in seguito all’indignazione internazionale conseguente l’assassinio di un attivista della comunità Lenca.

In Italia da tempo esiste una rete di solidarietà con il Copinh che si è immediatamente attivata per accogliere Bertita. In molti si sono spontaneamente mobilitati. Da Un Ponte Per alla Fondazione Lelio Basso e il Tribunale Permanente dei Popoli, che anni or sono convocò Berta tra i testimoni di una sua sessione sulle imprese europee e sui diritti umani in America Latina.

A loro ha chiesto sostegno: «Vogliamo una commissione indipendente di inchiesta sull’omicidio di mia madre, che venga immediatamente cancellato il progetto, e che si ponga fine al clima di impunità che il mio popolo e tutti i popoli indigeni stanno soffrendo nel nostro paese». Ha anche incontrato gli attivisti di Amnesty International, che ha rilanciato una campagna nazionale per chiedere giustizia per Berta e pubblicato un importante dossier sui crimini contro i difensori della terra in America Centrale. Greenpeace si è attivata da tempo con i suoi uffici nella regione andina e in Italia, mettendo a disposizione anche la Rainbow Warrior. Tutto questo per offrire uno spazio di protezione e informazione sulla situazione di un popolo e di un paese che, dall’indomani del golpe che depose l’allora Presidente Zelaya, vive una ulteriore drammatica escalation della repressione e l’aumento esponenziale di omicidi contro i difensori della terra e dei diritti umani.

Non che la situazione fosse migliore prima, anzi. «Esiste da sempre un forte nesso tra la spirale di violazioni, la criminalizzazione dei movimenti sociali ed indigeni, l’avanzata della frontiera estrattiva e la costruzione di grandi infrastrutture destinate a produrre elettricità per la trasformazione delle risorse minerarie. A maggior ragione in un contesto di illegalità e illegittimità come quello dell’Honduras del dopo Golpe» accusa Bertita.

È evidente che quella dei diritti è questione essenzialmente politica, con migliaia di storie di resistenza. Se ne è parlato a Berlino, in occasione di un recente incontro promosso dal Transnational Institute, in concomitanza con il «summit» dei movimenti pacifisti e dell’International Peace Bureau, dedicato al disarmo. Lo sanno bene gli attivisti che, a breve, si riuniranno a Ginevra in occasione del secondo incontro del gruppo di lavoro open ended del Consiglio ONU sui Diritti Umani, incaricato di discutere gli elementi essenziali di un Trattato vincolante per le imprese transnazionali e altri attori economici. Una sfida importante, necessaria, che attualmente non viene sostenuta da importanti attori economico-commerciali, quali l’Ue.

Bertita ha parlato anche all’Onu a Roma, di fronte a delegati indigeni, della società civile e delle agenzie Onu in occasione di un evento organizzato da Fao, Ifad e International Land Coalition. Con il suo linguaggio semplice e diretto ha puntato il dito contro il governo honduregno, l’impresa Desa ed i finanziatori europei. Una catena di corresponsabilità che va messa a nudo e perseguita attraverso la solidarietà internazionale, la costruzione di reti e vertenze comuni.

Va rotto il recinto dell’impunità – è di qualche giorno la notizia del trafugamento in Honduras dei fascicoli dell’inchiesta sull’omicidio di Bertha – e dell’oblio, unendo le forze, entrando ovunque, fin dentro le aule della camera. Invitata in audizione dalla presidente del Comitato diritti umani della commissione Esteri della camera Pia Locatelli, Bertita ha chiesto «un impegno chiaro» nei confronti del governo dell’Honduras (con il quale l’Italia ha un accordo per la promozione degli investimenti, ndr), e «verità e giustizia e il rispetto dei diritti umani e dei popoli indigeni. Sarebbe anche importante sollecitare i Parlamenti finlandese e olandese affinché si interrompano i finanziamenti a Agua Zarca».

Bertita esorta il parlamento italiano a seguire l’esempio di altri paesi, come gli Stati Uniti, dove è al vaglio un progetto di legge, il Bertha Caceres and Human Rights Act, che prevede l’interruzione di ogni forma di aiuto militare all’Honduras fintantoché non si risolva il caso di Bertha, e si persegua questo e gli altri crimini contro difensori di diritti umani nel paese, e si indaghino casi di corruzione che vedono coinvolte le sfere militari. «Prima di tornare in Messico e poi in Chiapas, chiudo il mio viaggio italiano a Mondeggi, luogo di un’importante operazione di recupero e autogestione dove mi incontrerò con i movimenti italiani per condividere la mia esperienza e conoscere le loro lotte». Saluta con un sorriso, Bertita, e riparte con il suo zaino in spalla.Activist hold a photo of slain environmental rights activist Berta Caceres during a protest at the Honduran embassy in San Salvador


il manifesto, 07.10.2016


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