Giornalismo di pace: che cosa Johan Galtung chiederebbe ai Talebani

Johan Galtung

Liam Mcloughlin intervista Johan Galtung

Sebbene tra il 1970 e il 1990 il numero di morti per terrorismo in Europa occidentale sia stato maggiore di quello degli ultimi 25 anni, il numero complessivo di morti per atti di terrorismo è attualmente in crescita.

Dall’invasione di Afghanistan e Iraq, il numero dei morti per questa causa si aggirava intorno ai 5000, ma è salito a 32.600 nel 2014, di cui l’80% in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Siria e Nigeria.

Secondo un progetto di ricerca sui costi della guerra della Brown University, dal marzo 2005 ad oggi sono morti di morte violenta almeno 210.000 civili in seguito alle guerre post 11 settembre in Afghanistan, Iraq e Pakistan. Molti di più sono stati i civili uccisi nella distruzione di ospedali e infrastrutture o attraverso la contaminazione ambientale.

Mentre molto si potrebbe dire sul terrorismo Usa in Medio Oriente, i ricercatori hanno messo in luce una relazione tra la copertura mediatica e la violenza.

Uno studio del 2015 ha evidenziato come il sensazionalismo dei media nel descrivere le atrocità possa contribuire all’aumento della violenza stessa.

Tra i maggiori esperti a livello internazionale ad avere indagato le complesse relazioni tra media, violenza e politica estera degli Usa vi è certamente il fondatore della ricerca per la pace e i conflitti, il professore norvegese Johan Galtung.

Fin dal 1959, infatti, Galtung lavora con ricercatori del Peace Research Institute di Oslo; si è impegnato come mediatore in più di 150 conflitti e ha creato la rete internazionale Transcend sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Giornalismo di guerra, giornalismo di pace

Galtung spiega così nell’intervista la differenza tra giornalismo di guerra e giornalismo di pace:

“Nel giornalismo di guerra si vede solo tutto il negativo che c’è nelle relazioni tra le parti, soprattutto la violenza. Nel giornalismo di pace sono messi in luce gli aspetti positivi, si vede il processo di cooperazione per risolvere il conflitto”

Galtung contesta l’approccio “ realista” dei media e propone come più “ realistico” quello del giornalismo di pace:

“Il realismo dei media consiste nel riportare in modo ampio solo tutti gli aspetti della guerra e nel trascurare la pace. Ciò non è affatto realista perché non rispecchia tutta la realtà…

E’ particolarmente importante di fronte ad una imminente minaccia di guerra che siano rilevati i contatti positivi tra le parti”

Ad esempio, nelle guerre degli anni 1990 in Jugoslavia

“Si sarebbe dovuto dare notizia dell’iniziativa per risolvere il conflitto messa in atto dal segretario generale dell’Onu. Non se ne scrisse nulla”

Alla domanda se non è discutibile che i giornalisti si mettano a cercare soluzioni nei conflitti, perché in questo modo verrebbero meno alla loro deontologia professionale basata sul dovere dell’obiettività, Galtung risponde:

“C’è in effetti qualcosa di oggettivo nel raccontare i proiettili sparati da un fucile…. Come disse Mao il potere sta sulla canna del fucile (formula che, per inciso, ritengo molto stupida), ma il potere sta anche in ciò che viene fuori dalla bocca, nella parola… raccontare dei proiettili e non delle parole non mi sembra molto oggettivo. Significa che è stata fatta una scelta”

“C’è una sorta di pregiudizio per cui non si parla delle cose positive. Ciò che vorrei è un rapporto più equilibrato tra giornalismo di guerra e giornalismo di pace.”

Giornalismo di guerra e politica estera USA

Perché avviene tutto ciò?

“C’è una teoria generale del progresso in Occidente secondo cui ciò che è positivo non va evidenziato perché è nella natura delle cose, mentre ciò che fa notizia è il “regresso”, l’ andare indietro….”

Un’altra ragione sta nel retaggio della divisione aristotelica tra tragedia e commedia. Ciò che merita di essere raccontato è la tragedia, mentre la commedia è solo intrattenimento…”

Tuttavia, come mostrano i dati, la crescita della violenza non è una distorsione mediatica ma è nella realtà. Secondo Galtung gran parte della responsabilità è dovuta agli Usa:

“Usare il termine terrorismo secondo me equivale a dire che non stiamo cercando di capire nulla. Serve solo a dire che non si può parlare con i terroristi che hanno il male come unico scopo della vita. L’unica cosa da fare è cercare di eliminarli. Ciò è sciocco, e anche fascista, direi. Ma sappiamo dove ha casa questa ideologia: a Washington”

C’è qualcosa di automatico nella violenta reazione degli Usa e nella tipica mentalità “ noi” contro “loro”:

“Io la chiamo la sindrome DMA, D per “ dualismo”, ci sono due parti; M per “manicheismo”, una buona, l’altra cattiva; A per “Armageddon”, il biblico scontro finale tra i due…”

“In origine c’è il dualismo tra Dio e Satana, molto manicheo e alla fine l’Armageddon, nel libro conclusivo del Nuovo Testamento, l’Apocalisse.

Ricordiamo che la lettura fondamentale negli Usa fin da quando giunsero sul Mayflower nel 1620 è stata la Bibbia. Si può pensare che abbia lasciato qualche traccia… si potrebbe chiamare la loro religione “evangelismo nazionale”.

Questa sindrome DMA li porta quasi ad una scelta obbligata, la cosa naturale da farsi, perché il mondo è fatto in quel modo.. Non è pensabile sedersi a negoziare con i terroristi: sono lì solo per compiere il male e la sola cosa che si può fare è imprigionarli o, se ciò non è possibile, ucciderli, schiacciarli.”

Così nasce la guerra infinita contro gli stati del male…

Giornalismo di pace e soluzione del conflitto sottostante

Parte del problema è come i media riproducono la narrativa Usa invece che metterla in discussione. Si veda l’attuale corsa per la Presidenza… cosa dovrebbero chiedere giornalisti?

Mr. Trump, Mrs. Clinton, qual è il conflitto sottostante i problemi esistenti tra l’Occidente e l’Islam e come pensate di affrontarlo? Nessuno ha mai posto loro queste domande. Sono domande difficili e richiedono un certo lavoro…”

I politici devono individuare le cause dei conflitti

“Di qui il bisogno di andare a vedere i perché… non ho mai visto situazioni in cui la violenza si manifesti per caso o perché la gente è violenta. La gente ha dei motivi per il malcontento. Uno è a causa dell’avidità. Si possono volere le stesse cose, lo stesso territorio, le stesse risorse… il conflitto nasce da scopi incompatibili”

“C’è nella lingua anglo-americana un modo di usare il termine conflitto che lo rende sinonimo di violenza. Ma così facendo non ci si mette sulla strada giusta per risolverlo. Se invece lo definisci come una situazione in cui ci sono scopi incompatibili, puoi cercare di capire come si potrebbero rendere più compatibili…”

Questo approccio non potrebbe essere più distante dalla filosofia DMA della guerra al terrorismo.

“Se avessi di fronte tre talebani chiederei loro : Qual è l’Afghanistan in cui vorresti vivere?

In altre parole vorrei impostare il dialogo in modo positivo. Non voglio iniziare chiedendo perché fai questo o quello o quando sarai disposto a deporre le tue armi… voglio che mi offrano la loro prospettiva.”

Ciò che viene subito in mente è la Linea Durand… il confine internazionale di 2400 km .

tra Afghanistan e Pakistan, stabilito da un diplomatico britannico nel 1893, sir Mortimer Durand, per segnare il confine dell’allora impero britannico con l’Afghanistan. Se quel confine poteva essere conveniente per gli inglesi, divideva invece la comunità Pashtun in due parti.

“La maggior parte dei Pashtun sono talebani o simpatizzanti talebani e la maggior parte dei talebani sono Pashtun. Naturalmente l’Afghanistan non è riducibile a questa linea di confine, ci sono molti altri problemi. Ma se tu apri quella frontiera vedi immediatamente una soluzione e Afganistan e Pakistan diventano aperti l’un l’altro come i paesi dell’Unione Europea. Si potrebbe usare l’Unione Europea come modello e parlare di una Comunità Centro-asiatica..Dividere una nazione di 50 milioni di abitanti in due parti costruendo muri tra di loro è molto difficile. La guerra continuerà finchè non ci sarà una frontiera aperta.”

Un altro esempio è quello dell’impiegato statale Jean Monnet e del Ministro degli Esteri francese Robert Schuman .

“Schuman e Monnet pensavano che essendo stato il nazismo così atroce, ora che non c’era più la Germania doveva diventare un membro della famiglia… così dovevano costruire la famiglia e la costruzione fu la Comunità del carbone e dell’acciaio, creata il 9 maggio 1950 .”

I due francesi sono talvolta chiamati “ i padri dell’Europa” per aver creato il primo organismo sovranazionale europeo, la CECA, appunto, che fu la base della Comunità Europea creata con il Trattato di Roma del 1957, seguita poi dall’Unione Europea del 1993 (Trattato di Maastricht).

“Questa brillante idea fu ampiamente riportato dai media”

Ma spesso di fronte a simili proposte c’è resistenza nei media e tra i politici. A questo proposito Galtung pensa sia azzeccata la teoria dei quattro stadi di Schopenhauer:

“La prima reazione è di silenzio. La seconda, la derisione (come si fa ad accettare dei nazisti nella nostra comunità…); la terza il sospetto (forse che questi francesi sono nazisti mascherati?). La quarta reazione, dice Schopenhauer, è il politico che si alza e dice che è sempre stata la sua idea”

“Esprimete le vostre visioni, lasciatele fluttuare nell’aria. Passeranno per i quattro stadi di Schopenhauer , ma alla fine si realizzeranno”.


10/8/2016, Liam McLoughlin giornalista di New Matilda

Traduzione e sintesi di Angela Dogliotti

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