L’arte della guerriglia
Gastone Breccia, L’arte della guerriglia, il Mulino, Bologna 2013, pp. 294, € 25,00, illustrato
Uccidere con arte?
Gastone Breccia insegna Storia bizantina presso la Facoltà di Musicologia, sede staccata dell’Università di Pavia. Ha pubblicato diversi scritti di taglio storico-filologico su testi della cultura bizantina. Sul tema della guerra e della guerriglia ha pubblicato – tra gli altri – L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausevitz (Einaudi, Torino 2009, pp. 794, € 85,00, illustrato), L’arte della guerriglia (Il Mulino, Bologna 2013, pp. 294, € 25,00, illustrato) e Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo (Il Mulino, Bologna 2016, pp. 210, € 16,00 ).
Ho letto in parte gli ultimi due: nel primo l’Autore racconta, con un approccio storico molto ben documentato, l’evolvere dell’«arte» della guerriglia; nel secondo, usando uno stile narrativo molto più personale e appassionato, narra la sua visita al fronte curdo e gli incontri con i protagonisti della lotta contro l’ISIS.
Come socia del Centro Sudi Sereno Regis di Torino – impegnato da tanti anni a promuovere una cultura e azioni volte a costruire pace, ambiente, sviluppo equo – ho cercato nei libri di Gastone Breccia qualche spunto, qualche chiave di lettura che mi aiutasse a capire la visione, l’immaginario collettivo entro il quale la pratica dello scontro violento può essere considerato lecito, plausibile, legittimo. Che mi aiutasse e considerare meno folli le attività di guerra e di guerriglia – da quelle dei secoli scorsi con gli eserciti schierati gli uni di fronte agli altri, in divise sgargianti, che si lanciano all’assalto e si sbudellano a vicenda, a quelle più attuali, che vedono opporsi gli uomini più tecnologici del mondo, con i loro robot e droni, e quelli più poveri e disperati, con vecchi fucili e pronti a farsi saltare in aria con qualche bomba.
Mi aspettavo anche che l’Autore collocasse gli scenari di guerra e guerriglia nei loro contesti sociali e ambientali, che facesse «parlare» non solo i soldati (o, più in generale, gli «armati»), ma anche le donne, i bambini, i commercianti, i contadini, gli insegnanti… Anche perché – con il passare dei secoli – sempre maggiore è stato il coinvolgimento, e quindi le vittime, purtroppo, sono sempre più i soggetti «deboli» della società, coloro che per primi, e più degli armati, patiscono le conseguenze indirette degli atti di violenza: la distruzione dei campi coltivati, l’avvelenamento delle fonti di acqua, la perdita della casa, le violenze dirette…
In realtà sono venuta a conoscenza di aspetti molto diversi da quelli che mi aspettavo, e il doppio registro narrativo – oggettivo e tecnico nel descrivere i passaggi cruciali della storia della guerriglia, partecipativo nel raccontare gli incontri e le conversazioni con le persone sul fronte curdo – mi ha aiutato a superare la fatica di cercare di capire ragionamenti e punti di vista a me del tutto estranei.
L’arte della guerriglia (2013)
Quello che mi ha colpito di più in questo libro è la descrizione della graduale trasformazione del modo di concepire e giudicare «eticamente» un modo di combattere via via che le forme tradizionali del fare la guerra, con gli eserciti schierati e i combattenti ben riconoscibili con le loro divise, si rivelavano inefficaci in situazioni di scontri «asimmetrici» (dalla spagnola guerrilla alla francese petite guerre, fino ai movimenti insurrezionali e alle lotte di liberazione). Da un lato i governi occidentali hanno cercato a lungo di sostenere la liceità esclusivamente delle guerre tra Stati, e hanno elaborato regole apposite rispettando le quali agli eserciti veniva riconosciuto un comportamento «etico» (il combattimento faccia a faccia, no a imboscate, ad attacchi notturni, a tradimenti) grazie al quale i soldati ottenevano paga e rispetto dai loro sovrani e comandanti. Dall’altra le tattiche e le esperienze di resistenza messe in atto dai «nemici» (dagli Indiani d’America fino alle formazioni partigiane) grazie alla loro efficacia, hanno finito per essere utilizzate anche dagli eserciti regolari, e hanno perso la connotazione di atti spregevoli, di banditismo o brigantaggio.
Il comportamento abituale dei vichinghi e dei normanni, le cui azioni erano basate sulla sorpresa, sulla rapidità, sul terrore che incutevano alle popolazioni, aveva fatto attribuire loro l’appellativo di «genus perfidissimum». Con il passare dei secoli l’uso crescente di tattiche militari irregolari anche da parte degli eserciti ha reso sempre meno sostenibile la possibilità di un’etica militare incentrata sul senso dell’onore, della difesa dei deboli, dello scontro a viso aperto.
Oggigiorno guerra e guerriglia convergono sempre più in una forma di lotta armata, che comprende una crescente varietà di tattiche e strategie, e le convenzioni internazionali fanno sempre più fatica a distinguere tra azioni legittime e illegittime durante le guerre, tra combattenti regolari e «banditi».
L’ultima pagina dell’utile Appendice con cui Gustavo Breccia conclude la sua analisi storica prende in esame guerriglia e terrorismo: «[…] una volta che sia stato riconosciuto agli insorti, nella sostanza, il diritto a prendere le armi senza il rispetto di forme condivise di ius ad bellum (dichiarazione di guerra, esplicitazione dei motivi del conflitto) e soprattutto una volta che sia stata accettata la loro condizione di iusti hostes pur non facendo parte di un esercito statale, essi vanno rispettati come combattenti protetti dalle leggi internazionali al pari degli uomini in divisa, con una sola eccezione: se ricorrono, nel corso della lotta, ad atti delittuosi previsti dal diritto internazionale, allora possono essere trattati come criminali. Solo qui, ormai si situa il possibile discrimine tra guerrigliero e terrorista […]».
La tesi di fondo di Breccia è che la guerra «regolare» è una invenzione recente nella storia dell’umanità: per incontrarla, infatti, è necessario che un gruppo sociale riesca a imporre come norma una particolare forma di combattimento e di organizzazione militare, confinando da allora in poi al margine del vivere civile tutti gli altri tipi di condotta bellica, di cui teme la potenziale valenza sovversiva. Il guerrigliero è anche il povero che si arma alla meglio e attacca chi ha maggiori risorse di lui; il suo eventuale successo, per quanto improbabile, va screditato in partenza come aberrante e sleale. Ma nel corso dei secoli il combattente irregolare ha intrapreso un lungo, faticoso cammino verso una possibile legittimazione.
Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo (2016)
Di tutt’altro genere è questo diario, in cui l’Autore abbandona la ricerca teorica e accademica per entrare in contatto direttamente con alcuni degli attori della guerra/ guerriglia in corso tra le forze curde, i peshmerga del Krg, i guerriglieri del Pkk in Iraq e in Siria e i miliziani neri di Da’ish, lo Stato Islamico. Qui Gastone Breccia, oltre a usare una scrittura più fluida e colloquiale, alza talvolta lo sguardo allo scenario intorno: ai villaggi impoveriti, alle greggi sotto il sole cocente, alle abitazioni in rovina, agli sguardi e alle espressioni delle persone che incontra: «Puntiamo dritto a sud, verso il confine. Il paesaggio non cambia: pianura disseccata, villaggi accompagnati dalle loro colline fatte di tombe» l’Autore sta viaggiando, in compagnia di due giovani miliziani che lo accompagnano su un SUV, nel tratto tra Aleppo e Nusaybin. «I nostri allegri compagni mi danno da pensare. Non sembrano particolarmente turbati dalla prospettiva di dover affrontare ancora per anni una guerra difficile. […] Cerco di parlare con i ragazzi in inglese elementare. Non servono molte parole né concetti complicati: sono fieri di combattere per la libertà del loro popolo, per avere finalmente “un posto al sole! […] Il Kurdistan autonomo, anche se a pezzi, può essere un traguardo difficile da raggiungere, ma ha almeno il merito di essere un obiettivo politico e militare chiaro. Mi chiedo invece se sappiano contro che cosa stanno combattendo. Di risposte ne ho ricevute molte, anche dalle stesse persone. Da’ish è una creatura degli imperialisti cattivi, uno strumento delle mire egemoniche di Erdogan, l’effetto perverso dell’integralismo sunnita fomentato dai signori del petrolio arabi, un mostro generato dal fallimento della strategia USA in Iraq, un’espressione del maschilismo reazionario, un incidente della storia […]».
Termino la lettura dei due libri con un senso di angoscia: la macchina della guerra si è «evoluta» nel tempo, avvicinando sempre più soldati in divisa e «banditi», guerriglieri e terroristi. Le convenzioni internazionali hanno perso quel poco di credibilità che ancora avevano nel tentare di definire un’etica della guerra. Giovani uomini e donne combattono «per la libertà», ma non sanno chi è il loro nemico. Se riusciranno a sopravvivere, come faranno a sapere se e quando hanno vinto? E quale sarà lo scenario sociale e ambientale in cui festeggeranno la vittoria?
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