I giovani delle comunità indigene stanno costruendo un Movimento per la Giustizia Climatica sottolineando le responsabilità del colonialismo | Jaskiran Dhillon


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Le giovani leader della campagna in difesa dell’Acqua e della Terra (da sinistra a destra): Tokata Iron Eyes, Anna Lee Yellow Hammer, Precious Winter Roze Bernie e Winona Gayton (Photo: Kettie Jean)


Il cambiamento climatico è la questione cruciale che caratterizza il nostro tempo”. Queste parole sono state pronunciate da un ragazzo di 16 anni, Xiuhtezcatl Roske-Martinez, un giovane indigeno allevato secondo la tradizione Atzeca, in occasione di un evento organizzato nel giugno 2015 dall’Assemblea delle Nazioni Unite sul tema dei cambiamenti climatici.

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Xiuhetzcatl Roske-Martinez

Roske-Martinez è il giovane direttore di una organizzazione no-profit, Earth Guardians, che ha per obiettivo quello di motivare i giovani a prendere iniziative per difendere il pianeta, per il bene di questa e delle prossime generazioni. Si cerca di mobilitare i giovani attraverso incontri nelle scuole, azioni legali, discorsi pubblici: sono le loro voci che debbono farsi sentire, e diventare forze di cambiamento per la loro stessa difesa.

Dopo aver appreso che la corte federale – con una sentenza che diventerà una pietra miliare – ha preso le difese dei diritti dei giovani in occasione di un caso giudiziario che vedeva contrapposti l’associazione “Our Children’s Trust” (in rappresentanza di 21 giovani ricorrenti) contro il governo federale USA e l’industria legata ai combustibili fossili, l’8 aprile 2016, Roske-Martinez è intervenuto in pubblico con queste parole: “Quando coloro che detengono il potere si schierano a fianco delle industrie che minacciano il futuro della mia generazione, invece di porsi dalla parte della gente, questo è un chiaro segnale che non sono i nostri leaders. I veri leaders sono quei venti giovani che insieme a me sono presentati davanti alla corte, e chiedono giustizia per la mia generazione e per tutti i giovani. Non resteremo in silenzio, non passeremo inosservati, e siamo pronti a resistere per proteggere tutto ciò che i nostri “leaders” hanno mancato di difendere. Essi hanno paura del potere che noi abbiamo per creare un cambiamento – un cambiamento che diventerà storia”.

Roske-Martinez non è da solo nella sua lotta per la giustizia ambientale, che vorrebbe ottenere grazie all’affermarsi dell’impegno dei giovani, grazie alla conoscenza esperienziale, e grazie a una visione del mondo futuro in cui sia stato ristabilito un equilibrio sulla Terra. Egli fa parte di una squadra sempre più numerosa di giovani ‘combattenti’ indigeni che protestano contro il fallimento dei governi, contro le compagnie petrolifere, e anche contro le organizzazioni per i diritti umani, perché secondo loro esse non ammettono in modo esplicito che il presente degrado ambientale deriva da modelli di sviluppo e di industrializzazione nati in Occidente. Questi giovani protestano contro l’inarrestabile crescita di un ordine sociale capitalistico che promuove una forma estrema di crescita economica, il cui risultato è una enorme produzione di ricchezza per pochi, a scapito di molti.

Nel pretendere che i movimenti di difesa dell’ambiente mettano in luce – come principali responsabili della situazione attuale – i legami tra colonialismo e cambiamento climatico, i giovani appartenenti alle comunità Indigene native del Nord America mettono in atto una crescente forma di resistenza per proteggere i loro luoghi nativi da ulteriori sfruttamenti. Si tratta di una impresa tempestiva, perché il prelievo di gas naturale e di petrolio sta continuando senza sosta nella Turtle Island, con conseguenze letali, come dimostra l’incendio che ha distrutto la città di Fort McMurray. Contemporaneamente i giovani delle popolazioni indigene stanno sperimentando iniziative locali per bloccare l’impatto tossico dei processi estrattivi.

Le Nazioni Indigene si sono spesso trovate in situazioni drammatiche, per dover far fronte alle conseguenze immediate del degrado ambientale: suolo contaminato, discariche a cielo aperto, sorgenti avvelenate.

Per i popoli indigeni i giovani sono sempre stati al centro della società, e la protezione delle generazioni future costituisce una motivazione profonda per mantenere un equilibrio nel mondo delle relazioni.

Questi giovani sono orgogliosi e coraggiosi, creativi e fantasiosi. Stanno organizzandosi con una serie di tattiche che riflettono un profondo attaccamento alla terra, all’acqua e all’aria che condividono con le generazioni più anziane, consapevoli che tutto è dipendente da quegli elementi – i sacri elementi costitutivi della vita. E’ un atteggiamento che è presente nella loro cultura da ben prima che arrivassero i coloni a fondare i loro insediamenti in Canada e in USA.

2016_0620dhillon2Il 6 giugno 2016 due Associazioni – il Native Youth Sexual Health Network (NYSHN), insieme alla Women’s Earth Alliance (WEA) – hanno pubblicato un documento e un manuale dal titolo: “Violenza contro la Terra, Violenza contro i nostri Corpi. Costruire una risposta indigena alla violenza ambientale”. Si tratta di una iniziativa pluriennale, che ha l’obiettivo di mettere in luce i collegamenti tra la violenza esercitata sulla terra e la violenza esercitata sui corpi, illustrando il convergere delle strategie di colonizzazione, di genocidio e di ecocidio sul territorio e sulle comunità delle popolazioni indigene.

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Questo documento sottolinea la sistematica violenza ambientale che subiscono le comunità indigene, che vivono tuttora in condizioni di occupazione. E illustra anche i numerosi sforzi di resistenza messi in atto, a testimonianza della differente percezione – tra popolazioni indigene e coloni – della relazione con la terra. I coloni, fortemente influenzati dal principio di ‘terra nullius’ , si sono appropriati e hanno fatto violenza alle terre in cui i Nativi abitavano da più di 500 anni. L’idea di ‘terra nullius’ – terra di nessuno – è stata un’invenzione coloniale degli Europei, che permetteva di legittimare l’acquisizione di proprietà di ogni territorio che venisse dichiarato ‘non occupato’, ‘non abitato’. Con questa operazione, oltre all’acquisizione di proprietà, si applicavano a ‘nuovo’ territorio le leggi dello Stato che se n’era impadronito.

Per poter scrivere questo documento i membri dell’Associazione NYSHN, che è formata da giovani di origine indigena residenti in USA e in Canada, si sono recati in alcuni dei luoghi più gravemente colpiti dal degrado ambientale, per documentare le realtà che le persone sono costrette a vivere. E hanno svelato come le industrie estrattive per decine di anni hanno forato, scavato e fratturato le terre proprio vicino ai territori indigeni ricchi di risorse.

I progetti estrattivi realizzati hanno portato grandi vantaggi economici alle multinazionali, ma a scapito soprattutto delle donne indigene e dei giovani. Una giovane che lavora per l’Associazione, Amanda Lickers, fa notare che “le donne vengono colpite perché sono portatrici del nostro clan, e conservano la nostra identità come nazioni”. La violenza ambientale si ripercuote a vari livelli ed è devastante: il report segnala violenza di genere, consumo di droghe e alcool, assassini e sparizioni di persone, problemi riproduttivi ed esposizione ad agenti tossici, minacce dirette alle abitudini di vita delle popolazioni native. Da parte di chi ha devastato quei luoghi viene anche messa in dubbio la capacità delle comunità ad auto-determinarsi e ad auto-governarsi.

Dalle testimonianze raccolte emerge chiaramente che le radici di queste violenze attuali sono da ricercare nell’orribile processo di conquista e dominazione che rese possibile la formazione del Canada e degli Stati Uniti – un processo contro il quale fin dal 1492 si oppose il movimento per la giustizia ambientale da parte dei Nativi. “Noi viviamo il cambiamento climatico e la distruzione ambientale come conseguenze dirette della colonizzazione – commenta Amanda Lickers – il problema di fondo è una visione del mondo opposta alla nostra, perché i colonizzatori vedono il mondo naturale come separato dall’esistenza umana.” Gruppi di giovani come quello citato stanno svolgendo un lavoro importante, che mette in discussione la narrativa dominante del movimento per la giustizia climatica: un movimento che deliberatamente ignora le complesse strutture di potere coloniali e le loro eredità, che hanno trascinato il mondo nell’attuale crisi ecologica in cui ci ritroviamo ormai tutti.

Lungo le pianure del Nord Dakota i giovani indigeni hanno ‘detto la verità al potere’, cercando di fermare la costruzione dell’oleodotto Dakota Access: se approvato, porterebbe il petrolio dalla regione di Bakken, nel Nord Dakota, attraverso quattro Stati, fino alla città di Pakota, nell’ Illinois, con un percorso che passa due volte al di sotto del fiume Missouri e corre lungo la Riserva di Standing Rock. I Sioux che abitano a Standing Rock attingono l’acqua per bere dal fiume Missouri. Il progetto dell’oleodotto minaccia direttamente le loro fonti d’acqua, e causerebbe un terribile disastro ambientale in caso di incidenti alle tubazioni. I responsabili del progetto – i Partners di Energy Transfer – hanno assicurato le comunità di Standing Rock che l’oleodotto sarà accuratamente controllato, ma dati i precedenti storici delle relazioni tra popoli indigeni e Stati Uniti, la tribù è molto scettica rispetto a queste rassicurazioni. La frequenza di incidenti con fuoriuscite di petrolio è impressionante: solo tra il 2012 e il 2013 si sono verificate 300 rotture dei condotti nel solo Nord Dakota.

Quando i giovani della regione interessata hanno saputo del progetto dell’oleodotto, hanno iniziato una campagna che hanno chiamato “Rispetto per la nostra acqua”, allo scopo di far sentire le loro voci, smuovere l’opinione pubblica, e alla fine bloccare il progetto. Una ragazza Lakota di 12 anni, Iron Eyes (che è una delle organizzatrici della campagna) riferendosi alle tradizioni orali che narrano le resistenze del suo popolo, ha spiegato i motivi per cui ha aderito alla lotta: “I nostri antenati sono morti combattendo per questa terra: per questo sento l’obbligo di proteggere il suolo, l’acqua, e tutto quanto è sacro. Ciò che sta accadendo – tra oleodotti e cambiamento climatico – colpirà la nostra generazione e quelle successive”.

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Il ruolo delle giovani donne indigene che stanno associandosi a questa campagna è estremamente importante, e mette in luce la forza della leadership femminile nell’organizzazione e nei processi decisionali della comunità. Sono le donne che hanno sempre tenuto insieme la tribù. Tokata così si esprime: “io sento che anche se gli uomini non lottano, noi abbiamo bisogno di agire per i nostri figli e nipoti, e per le nonne che non possono più farlo”.

Il lavoro svolto da questi giovani richiede di valutare criticamente il modo con cui è stato creato il movimento per la giustizia climatica. La violenza coloniale che ha dato avvio a quella che si è rivelata la rovina del pianeta è stata nascosta nel dibattito pubblico. Se si intende fare un esame accurato delle cause sociali e politiche del cambiamento climatico bisogna analizzare più da vicino la storia dei genocidi, del furto delle terre e della distruzione concordata e mirata delle società indigene e delle loro pratiche culturali: una storia che ha portato con sé come conseguenza il danno irreversibile provocato dalla distruzione ambientale.

Siku Allooloo, una scrittrice e organizzatrice della popolazione Inuit-Taino nativa di Denendeh (Territori del Nordovest, Canada), ha pronunciato di recente un discorso in occasione di un incontro di ragazze (il Girls Climate Summit) a Philadelphia, in Pennsylvania, e in una intervista ha affermato che “i popoli indigeni vivono subendo l’effetto sovrapposto del colonialismo, dello sfruttamento industriale e del cambiamento climatico. Nonostante questo peso, abbiamo conservato una forte propensione a proteggere tutto ciò che genera vita, sia all’interno delle nostre pratiche ancestrali sia nelle forze vitali prodotte dalla terra”.

[…]

Non si tratta quindi solo di combattere contro il cambiamento climatico, ma anche di riprendere una lotta anti-coloniale contro la rapina della terra e la sua trasformazione in una merce che può essere comprata e venduta; contro lo sfruttamento delle risorse della terra e dell’acqua; contro l’eliminazione di interi popoli, sacrificati per conseguire potere e profitto.

Non è sufficiente proteggere l’ambiente dai danni del sistema industriale; occorre smantellare i sistemi di pensiero da cui queste attività sono emerse – sistemi che perpetuano la violenza contro le persone e contro i luoghi in cui si vive.


Jaskiran Dhillon fa parte della prima generazione di giovani che hanno conseguito un titolo universitario e una professione giuridica tra i giovani nati nel Territorio Treaty Six Cree/Métis a Saskatchewan, in Canada. Si occupa di colonialismo, di femminismo antirazzista, di violenze coloniali. Sta per uscire il suo primo libro, che sarà pubblicato presso la Casa Editrice dell’Università di Toronto nel quale l’Autrice propone una interpretazione critica ed etnografica degli interventi statali sulle vite dei giovani indigeni urbanizzati. Attualmente svolge le sue ricerche presso la New School nella città di New York.


20 June 2016 , Indigenous Youth Are Building a Climate Justice Movement by Targeting Colonialism
http://www.truth-out.org/news/item/36482-indigenous-youth-are-building-a-climate-justice-movement-by-targeting-colonialism]
Traduzione e sintesi di Elena Camino per il Centro Studi Sereno Regis

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