Ali, Gardner e le intelligenze multiple

Massimiliano Fortuna

Rileggendo nei giorni scorsi, dopo la scomparsa di Muhammad Ali, un bel libro a lui dedicato, uscito alla fine degli anni Novanta, Il re del mondo di David Remnick (Feltrinelli 1999), mi sono imbattuto in un dettaglio che non ricordavo. Non molti forse sono al corrente del fatto che Ali, in un primo momento, venne riformato dall’esercito statunitense; non per carenze fisiche naturalmente, ma perché non riuscì a superare il test attitudinale. Il suo quoziente d’intelligenza risultò molto basso e Ali non fu ritenuto idoneo al servizio militare.

Di Sconosciuto | Dutch National Archives, The Hague, Fotocollectie Algemeen Nederlands Persbureau (ANEFO), 1945-1989, CC BY-SA 3.0 nl, Collegamento

Qualche anno più tardi, in seguito all’incremento di truppe in Vietnam, l’esercito cambiò politica e lo chiamò alle armi. Da qui prende avvio la storia nota della sua obiezione, della perdita del titolo di campione del mondo e di quell’insieme di vicende che hanno portato Ali a diventare una figura di riferimento nelle battaglie dei neri americani per i diritti civili.

Non è però il caso di soffermarsi ora su questa storia conosciuta, quanto piuttosto di tornare a quel primo responso: Ali venne valutato persona di scarsa intelligenza. Un’esperienza che lo umiliò, ci racconta David Remnick, anche se, come in genere gli accadeva, seppe cavarsela brillantemente con una battuta: «Ho detto di essere il più grande, non il più intelligente».

Ali certamente non era un uomo colto, ma come si può pensare che sia stato una persona poco intelligente? E, domanda correlata, è realistico credere che l’intelligenza possa venir misurata? La prima risposta pare scontata, chiunque abbia visto combattere Ali ha potuto rendersi conto che il suo talento pugilistico era una manifestazione d’intelligenza. Il caso più clamoroso e palese fu probabilmente il celebre incontro di Kinshasa contro Foreman nel 1974, che da sempre è stato salutato come una vittoria dell’astuzia, e dell’intelligenza, sulla forza bruta. Una specie di Davide contro Golia, anche se qui, in effetti, Davide era solo un paio di centimetri più basso di Golia; ma quel che conta è che Ali riuscì a battere il suo avversario nonostante questo fosse più giovane e dotato di un pugno più pesante del suo.

L’altra domanda era: si può misurare l’intelligenza con l’ausilio di un questionario? Credo proprio di no. Forse si può misurare «un» tipo di intelligenza, quella logico-formale sulla quale si basa il classico test d’intelligenza. Ma questo non corrisponde all’intelligenza complessiva di un uomo, ma a uno soltanto dei suoi molteplici aspetti. A questo riguardo ci possono allora venire in aiuto le idee e i libri di Howard Gardner, uno psicologo e pedagogista statunitense che ritiene che esista non l’intelligenza come un dato unitario, bensì le intelligenze.

Gardner ne individua una decina, che chiamano in causa attitudini diverse del nostro essere e che non sono necessariamente confinate in una sfera meramente intellettuale. Esiste ad esempio un’intelligenza «corporeo-cinestesica», che inerisce alla padronanza dei movimenti, dei gesti, della capacità di spostare e coordinare il nostro corpo: è l’intelligenza incarnata da un ginnasta o da un ballerino o, per l’appunto, da un pugile geniale come Muhammad Ali. «Geniale», certo, perché si può esser definiti tali non soltanto se si è dei fisici o degli scrittori, ma anche se si è degli atleti.

E così di seguito con le altre molteplici intelligenze postulate da Gardner: quella «interpersonale» che presiede all’empatia e alla capacità di comprensione degli altri; quella «musicale»; quella «linguistica»; quella «filosofico-esistenziale», e via dicendo. Intelligenza e stupidità, come l’essere in Aristotele, non sono dunque univoche, si possono dire in molti modi e avere significati differenti. Intelligenza e mancanza d’intelligenza non costituiscono uno stato assoluto dell’esistenza; non dimentichiamoci mai che anche la persona meno brillante può essere portatrice di una forma d’intelligenza che le va riconosciuta, e che va stimolata a coltivare. Il risvolto pedagogico nella pratica dell’insegnamento e il compito sociale correlati a questo modo di intendere il potenziale umano sono facilmente intuibili, anche se forse ancora in gran parte da costruire.


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