Come nacque “Strategy for a Living Revolution” | George Lakey
A Praga, al culmine della guerra fredda, incontrai un combattente africano per la libertà che cambiò la mia vita. Ci trovavamo lì nel 1967 in qualità di animatori a una conferenza giovanile internazionale sulla rivoluzione.
I partecipanti da entrambi i lati della cortina di ferro arrivarono alla conferenza già alleati delle lotte anti-imperialiste. Cercando un argomento caldo per stimolare l’assemblea, feci una domanda difficile: “Non dovremmo seguire l’esempio di Gandhi e scegliere mezzi nonviolenti?”. Il combattente africano per la libertà – Nathan Shamuyarira, militante in una lotta armata in corso a quel tempo – e io rappresentammo le opposte posizioni nel dibattito che seguì.
Prima di separarci, Nathan ed io trovammo il tempo per un’amichevole chiacchierata a quattr’occhi. “George” egli disse “tu sai che molti di noi inizialmente si ispirarono a Gandhi e cominciarono proprio con proteste nonviolente. Io sono stato allevato come un pacifista e ho sperato che potessimo vincere in questo modo, ma gli inglesi ci hanno represso spietatamente. Ora non abbiamo scelta. Nel mio paese, noi che siamo i leader non abbiamo la possibilità di cercare alternative nonviolente. La tua situazione è diversa. Stai frequentando un dottorato di ricerca, hai tempo e risorse intellettuali. Fai tu il lavoro che noi non possiamo fare: esplora le possibilità che non possiamo vedere, e descrivi un percorso strategico e pragmatico per una rivoluzione nonviolenta.”
Accettai la sfida con una certa trepidazione. Lessi molti libri di strategia, compresi Frantz Fanon e Murray Bookchin, Che Guevara, Gramsci e Rosa Luxemburg. All’università trasformai ogni possibile corso in un esercizio per favorire la mia missione, e divenni talmente super specializzato che fui bocciato all’esame orale di dottorato. Riuscii, però, a pubblicare il libro, che avevo chiamato “Strategy for a Living Revolution”, nel 1973.
La strada di Nathan Shamuyarira e la mia non si incrociarono più. Egli divenne poi ministro degli esteri dello Zimbabwe ed un apologeta del dittatore Robert Mugabe. Morì due anni fa, ma il libro che mi sfidò a scrivere vive ancora. Infatti, la terza edizione nordamericana, intitolata “Toward a Living Revolution” (Verso una Rivoluzione Viva) è stata appena pubblicata in marzo. Per celebrare l’occasione, ecco il resto della storia delle persone e degli eventi che diedero forma al libro.
Un viaggio radicalizzante
Quando iniziai le ricerche per il libro, ero innamorato dei cambiamenti di regime. Come alcuni ottimisti che alcuni anni fa si aspettavano un radioso futuro per le Primavere Arabe, credevo che togliere di mezzo i mascalzoni con la nonviolenza avrebbe portato ad una società giusta. Dopo l’incontro con Nathan, trascorsi l’estate sepolto nella biblioteca di Harvard e trovai un grave difetto nel mio ragionamento. Trovai tre casi in America Latina in cui il popolo aveva rovesciato i dittatori in modo nonviolento – due nel 1944 e uno nel 1931 – ma poi scoprii che quanto avevano ottenuto era stato cancellato dal ritorno al potere dell’oligarchia. Chiaramente, era necessario qualcosa di più per una rivoluzione viva: un passaggio di potere più profondo, un maggior grado di infrastruttura democratica ed i mezzi per difendere la nuova società. Tutto questo fu inserito nel libro.
Ad un raduno internazionale non pubblicizzato a Clarens, Svizzera, mi trovai a tarda notte in una stanza con Bernard Lafayette dello Student Nonviolent Coordinating Committee (Comitato Nonviolento di Coordinamento degli Studenti), o SNCC, e leader di un movimento armato in lotta per la giustizia. Spiegando la sua idea di potere, Bernard usò una metafora che udivo per la prima volta: la società è come una casa ed il regime è il tetto, che dipende dal sostegno dei pilastri che poggiano sulle fondamenta. Le fondamenta sono la disponibilità del popolo a collaborare. Non importa, disse Bernard, quanto smagliante sia il tetto – cioè quante bombe e pallottole abbia – se le fondamenta non reggono, il tetto crollerà.
La metafora dei pilastri di Bernard mi spinse a vedere più chiaramente la necessità di istituzioni che prefigurassero il cambiamento, con abbastanza forza da tenere unita la società durante il crollo. Bernard mi aiutò anche a prestar bene attenzione ai commenti che ricevetti il giorno seguente, quando condivisi con 40 partecipanti l’avanzamento del mio libro. Il commento più critico fu di uno studioso, che chiese: “Che valore ha una strategia senza una visione? Se un movimento sa solo quello che non vuole e non ha nemmeno un abbozzo di ciò che dovrà sostituire le istituzioni ingiuste di oggi, come potrà valutare strategie alternative o chiedere, e meritare, il vasto sostegno di cui ha bisogno?”
Mi resi conto che aveva ragione, anche se sviluppare l’argomento avrebbe ritardato il completamento del libro. Nathan aveva chiesto una teoria generale della rivoluzione nonviolenta, che potesse essere adattata alle varie situazioni. Ciò mi andava bene, perché mi esentava dal proporre una visione per ogni paese. Dovevo, però, ancora definire il ruolo della visione e come incorporarne i valori sottostanti, mentre avrei lasciato raffinare la visione alla discussione democratica durante la lotta.
A quel tempo, non conoscevo alcun movimento che avesse ottenuto una rivoluzione sociale nonviolenta sfociata in una democrazia sostenibile. Avremmo dovuto imparare ciò che si poteva da successi parziali. I movimenti che avevano avuto più successo sembravano essere cresciuti attraverso una serie di fasi, analogamente allo sviluppo di fase in fase di un essere umano. La visione, allora, avrebbe potuto essere qualcosa di simile al DNA, che è incorporato, influenza ma non controlla, offre delle capacità e delle risorse interne, ma anche limiti che, in certa misura, possono essere superati. I rivoluzionari avrebbero potuto porre la visione nella prima fase e far sì che fungesse da DNA.
Dopo aver scritto il libro scoprii una rivoluzione nonviolenta in cui la visione aveva funzionato proprio in questo modo. Il movimento rivoluzionario dei lavoratori e dei contadini in Norvegia fu fortemente influenzato, ma non limitato, dalla sua visione marxista. Durante la lotta, i norvegesi impararono e prestarono attenzione al mondo che cambiava loro intorno. Come fu poi evidente, i norvegesi avevano completato con successo le prime quattro fasi del modello di Rivoluzione Viva, con risultati che 80 anni dopo ancora fanno trasalire gli americani per il loro grado di uguaglianza e libertà individuale.
Le femministe contestano le fasi
Il modello in cinque fasi di Living Revolution era abbastanza avanzato da essere adottato, nei primi anni ’70, dal Movement for a New Society (Movimento per una Nuova Società), o MNS. Il modello fu incluso nel “Manifesto for a Nonviolent Revolution” (“Manifesto per una rivoluzione nonviolenta”) di War Resisters International (Resistenti alla guerra internazionali) e pubblicato in molte lingue.
Il momento coincise con la seconda ondata del femminismo, una lotta portata avanti con forza dal neonato MNS. Insieme ad altri uomini nel MNS, opposi resistenza al cambiamento; era qualche anno prima che io fossi pronto ad aiutare la fondazione di Men Against Patriarchy (Uomini contro il patriarcato). Nel corso della nostra lotta nel MNS, alcune femministe ritennero che il modello della Rivoluzione Viva si adattasse fin troppo bene ad uno schema di pensiero patriarcale. Esse sottolinearono quanto le fasi fossero lineari: primo, eseguire la preparazione culturale (comprese l’analisi e la visione); secondo, costruire l’organizzazione; terzo, mettere l’oppressore a confronto con la propaganda dei fatti; quarto, arrivare alla non collaborazione di massa; quinto, colmare il vuoto di potere risultante con le istituzioni parallele fondate nella fase due, organizzando alternative cooperative adatte alle necessità del popolo.
Riconobbi che il modello era lineare, ma dissi che era la natura degli schemi di sviluppo: infanzia/pubertà/adolescenza/età adulta. “Esattamente” esse ribatterono. “La realtà è più complessa di fasi lineari. Un adulto sviluppa la sua crescita abbracciando il suo bambino interiore, non marginalizzando l’infanzia e diventando un adulto dal controllo mostruoso”.
Continuai a obiettare: i fondatori di movimenti di attivisti spesso hanno difficoltà a pensare in modo sequenziale, però quando, in un laboratorio, chiedo loro di mettere su carta le loro tattiche preferite, e poi li invito a disporre queste tattiche sul pavimento in una successione per loro adatta a raggiungere l’obiettivo, essi sono in grado di farlo. Inoltre, il risultato abituale come gruppo è proprio il modello a cinque fasi! Le fasi captano un buon senso a cui è difficile accedere in altro modo.
Le femministe continuarono la discussione. “La linearità del modello non si adatta ad una società complessa: in una certa posizione sociale, la gente sta prendendo coscienza di un’ingiustizia solo ora, mentre in un altro posto c’è già un gruppo che costruisce alternative, ed in un terzo posto – nello stesso tempo – ci sono persone arrestate nella fase di confronto. La linearità simula una coerenza che non rappresenta la dispersione della diversità.
Il nostro dialogo, lungo e spesso emotivo, dimostrò ancora una volta che il contrasto fra compagni di lotta può portare a dei successi. Arrivammo a renderci conto che il modello funziona meglio quando ci aspettiamo delle iterazioni nelle fasi. All’inizio di un processo storico, gli organizzatori potrebbero sperimentare che la sequenza va solo dalla fase uno alla due e poi si ripete. Poi potrebbe arrivare fino alla fase tre e ripetersi più volte fino a che avviene la fase quattro (non collaborazione di massa). Questa successione può ripetersi ancora più volte, finché, alla fine, in un numero sufficiente di posizioni socio-economiche con un livello di coordinamento crescente, una vasta unità consente di realizzare la successione completa delle cinque fasi. Il movimento può reclutare molte più persone con il lavoro della fase uno, portarle dentro le organizzazioni, sostenerle durante la rovente fase tre, che, a sua volta, sfocia nella non collaborazione di massa e, alla fine, nelle istituzioni parallele.
Una delle contestatrici mostrò graficamente che, con tali modifiche, il modello sarebbe divenuto ciclico, – una rottura con la rigidità patriarcale – e somigliante alla struttura di un animale marino, il nautilus.
Modificare il modello in questo modo lo rese anche più utile per campagne attive in una democrazia liberale, che non si confronta con una situazione rivoluzionaria. Una campagna potrebbe mirare a quella che lo stratega sindacale francese André Gorz chiamò una “riforma rivoluzionaria”. Le campagne possono essere vinte anche progettando solo i primi quattro stadi, talvolta anche solo portando avanti i primi tre.
L’umiltà di questo approccio mi piace. Al momento attuale, non possiamo prevedere quanto velocemente la resistenza al cambiamento dell’un per cento si combinerà con la crisi climatica per creare una situazione rivoluzionaria. La polarizzazione continua ad accelerare negli Stati Uniti. Potremmo intraprendere una campagna, aspettandoci che si svolga solo per tre o quattro fasi per ottenere una particolare vittoria; tuttavia, non dovremmo sorprenderci se la legittimazione della “democrazia” liberale andasse rapidamente nello scarico del bagno, e potremmo approfondire la nostra non collaborazione di massa e arrivare alla fase delle istituzioni parallele.
Questo tipo di preparazione è quanto avrebbero trovato utile le forze a favore della democrazia in Egitto nel 2011. Il Database Globale dell’Azione Nonviolenta contiene molti casi che illustrano le opportunità mancate quando la crisi si è acuita oltre le aspettative degli aspiranti riformatori. Essi non erano preparati ad essere veloci e ad aiutare i loro movimenti ad esprimere pienamente il potere popolare che potrebbe essere mobilitato.
Rispondendo alla sfida di Nathan, sono diventato più radicato nella mia identità come attivista di tutta una vita ed ho acquisito strumenti per restare in contatto con la realtà odierna, continuando a preparare le possibilità di domani. Sono grato a tantissime persone lungo questo percorso, compreso David Hartsough, attivista da lungo tempo, i cui recenti viaggi attraverso il paese lo hanno convinto che il libro risponde alle sfide di oggi ed ha aiutato a realizzare questa nuova edizione nordamericana.
May 4, 2016
Titolo originale: How ‘Strategy for a Living Revolution’ came to life
http://wagingnonviolence.org/feature/how-strategy-for-a-living-revolution-came-to-life/
Traduzione di Franco Malpeli per il Centro Studi Sereno Regis
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