Daniele Biella, Nawal, l’angelo dei profughi | Recensione di Dario Cambiano
Daniele Biella, Nawal, l’angelo dei profughi, Paoline, Milano 2015, pp. 146, € 13,00
Vorrei essere io, Nawal?
Nawal è una ragazza, figlia di migranti, che ha vissuto il passaggio del Mediterraneo da neonata, è sopravvissuta, e cresciuta e la sua coscienza non si è seccata. Così, va in Siria, a «rendersi conto», e lì lascia il suo numero di telefono a qualcuno.
Potrei essere io, Nawal?
Presto si accorge di aver fatto qualcosa di incredibile: aver dato il suo numero di telefono a «qualcuno» che presto diventa migrante, e lo usa. Lo usa per dire che ha paura, che sta affondando, che sta morendo.
Dovrei essere io, Nawal?
Lei, che sia notte o che sia giorno, risponde. Sempre. Si fa dare le coordinate, le comunica alla Capitaneria di Porto (vive a Catania). Fa partire i soccorsi con indicazioni preziose, mirate. Dalla prima volta, i suoi interventi si susseguono, si moltiplicano. La sua vita è invasa dalle richieste di aiuto. Sommersa.
Lei non affoga, anzi, aiuta, prima al telefono, poi di persona, andando a incontrare chi ha contribuito a salvare.
Nawal non sta ferma. Non guarda la televisione commuovendosi. Non legge i giornali indignandosi.
Nawal aiuta, si mette a disposizione, si mette in gioco. Crea un servizio.
Un servizio che ha salvato migliaia di migranti.
Vorrei essere io, Nawal.
Potrei essere io, Nawal? Comunque la pensiate, questa ragazza – è una storia vera, naturalmente – ci guarda in faccia e ci interroga. Leggete questo libro, potrebbe disseccare le nostre/vostre coscienze.
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