32. La parte dei persuasi

Pietro Polito

Vorrei dar voce soprattutto a pensieri, riflessioni dell’oggi che si interrogano sul passato e sul futuro per capire come portare avanti idee di pace. […] Vorrei investire il mio tempo in ciò che ritengo più giusto”. Cosi mi scrive una giovane amica, appassionata e impegnata, con cui condivido l’esperienza del gruppo “Antigoni” che a partire dalla tragedia antica si occupa della presenza di Antigone nella cultura e nella politica del nostro tempo. Secondo una interpretazione, che si ritrova in Aldo Capitini, il “no” di Antigone può essere considerato come l’affermazione che un indirizzo nonviolento della politica è possibile. Antigone è il simbolo del rifiuto della violenza del potere. (Sul tema è da leggere: Amedeo Cottino, C’è chi dice no. Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere, prefazione di M. Revelli, Zambon, Torino 2016).

Questo mio viaggio costellato di numerose presenze familiari intellettualmente, per esempio Piero e Ada Gobetti, ma anche personalmente, Bianca Guidetti Serra e Norberto Bobbio, giunge a termine con la proposta di un’idea di pace – la pace come tramutazione – elaborata da Capitini, che ritengo particolarmente feconda per la sua capacità di tenere insieme esigenza intima e esigenza pubblica, utopia e realismo e (perché non dirlo?) unire religione e politica in una prospettiva laica.

Ci sono degli autori che aderiscono alla nostra vita e che da quando li abbiamo scoperti occupano uno spazio stabile e diventano un luogo rappresentativo della nostra esistenza. Uno di questi autori è per me Capitini. Nella mappa delle vie contemporanee della pace, la pace attraverso tramutazione si distingue tanto dalla via della pace attraverso il diritto (pacifismo giuridico) quanto dalla via della pace attraverso la rivoluzione (pacifismo sociale). Sinteticamente, la via nuova – la via dei persuasi – si differenzia dalle altre per una diversa considerazione del rapporto tra i mezzi e i fini e per la proposta di nuovi strumenti per la soluzione dei conflitti: 1. la noncollaborazione; 2. la nonmenzogna; 3. la nonviolenza.

Noncollaborazione collaborante

La scelta tra collaborazione e noncollaborazione rimanda a un contrasto tra due diverse concezioni della natura umana. Questo contrasto lo si trova ben delineato in una pagina del principale libro filosofico di Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi (1966): “Si vede – egli scrive – che l’homo religiosus tende a trasformare la realtà attuale più profondamente dell’homo faber, che sposta e rielabora, ma sulla base di un’accettazione dei modi attuali (o leggi) di attuarsi della realtà, mentre l’homo religiosus opera sulla base della compresenza”.

Come ha osservato Bobbio, discutendo di religione e politica in Capitni, mentre l’homo faber “manipola le cose ma accetta i modi e le leggi con cui sono date”, l’homo religiosus “opera non con le cose ma coi valori, e tende ad altri modi e ad altre leggi”.

Negli Elementi di un’esperienza religiosa troviamo una delle più alte affermazioni del dovere di non collaborare all’esecuzione delle leggi ingiuste: “La libertà vive continuamente di leggi. E se la legge esteriore – osserva Capitini – discorda da quella intima, che appare, dopo un esame attento e specialmente in questioni importanti, assolutamente superiore, bisogna seguire quella intima, quella di cui si è convinti”. L’esperienza dimostra che è sempre avvenuto così: “altrimenti nessuna legge, nessuna direttiva sarebbe mai sostituita con una migliore”.

La specificità della noncollaborazione è espressa in modo particolarmente efficace, nel volumetto Le tecniche della nonviolenza (1967), con la formula: “noncollaborazione collaborante”. (In questo modo Capitini rovescia l’espressione “collaborazione della non collaborazione”, usata da Giovanni Gentile nella sua interpretazione di Gandhi). Che cosa significa? Che “la noncollaborazione non è totale, non esclude il tu, l’altro, l’unità con tutti, il tu-tutti, ma esclude semplicemente di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta”.

In realtà, a ben vedere la noncollaborazione si rivela una forma più alta e autentica di collaborazione: essa è “avviamento alla nuova legge”, è “offrire nuovi elementi al legislatore”, è “collaborazione con la storia”.

Nonmenzogna

Negli Elementi di un’esperienza religiosa Capitini sostiene che attraverso la nonmenzogna, il persuaso esprime all’altro “il proposito di non mentirgli mai [..], rinnovato ad ogni istante”. Così si “vince continuamente l’esser separati” e ci si avvicina “in modo assoluto” all’altro, che “resta fuori finché penso di mentirgli”: “il proposito della nonmenzogna attesta che Dio sorregge infiniti altri; e il mio isolamento scompare, l’assoluto non è la mia solitudine, ma la verità che opera e stringe dall’intimo tutti”.

In linea generale si può dire che la noncollaborazione indica l’atteggiamento nonviolento verso lo stato, mentre la nonmenzogna è il modo in cui l’homo religiosus – il persuaso – si pone in rapporto con l’altro. In Religione aperta, un libro del 1955 di recente riproposto da Mario Martini con l’editore Laterza – la nonmenzogna viene presentata come una “aggiunta” alla vita di tutti. Da Capitini viene un invito alla “trasparenza assoluta”: Se parliamo, non possiamo che dire ciò che pensiamo”.

Nonviolenza

Che cosa è la nonviolenza?

Si può illustrare la definizione capitiniana di nonviolenza attraverso un duplice processo di distinzione e di specificazione. In primo luogo, occorre distinguere, per dirlo con Pietro Pinna, la “parte negativa” dal “movimento positivo della nonviolenza”. Tra i tanti luoghi in cui Capitini richiama queste due facce della nonviolenza, quello forse più incisivo è l’editoriale Il nostro programma, che il 10 gennaio 1964 apre le publicazioni della rivista “Azione nonviolenta”: “Nonviolenza è non opprimere, non tormentare, non distruggere nemmeno gli avversari, cioè apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti. Questo può essere il programma e la tensione di persone isolate, e può diventare il metodo di lotta di grandi moltitudini”.

La peculiarità della nonviolenza capitiniana sta nell’idea di apertura: “Apertura significa vedere in un essere singolo qualsiasi, umano o sub-umano, qualche cosa di più di ciò che si vede ordinariamente: una interiorità, una capacità di dare e di fare, una possibilità per oggi e per il futuro, una forza di miglioramento e di rinnovamento, di integrazione di ciò che già è, di partecipazione con gli altri”. (Così si esprime in una delle sue lettere di religione indirizzate agli amici, il 2 settembre 1968).

Vista nella sua faccia positiva, la nonviolenza è “apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo di tutti gli esseri” (Questa definizione è ricorrente nei suoi scritti nonviolenti). Se nella sua faccia negativa la “manifestazione iniziale e fondamentale” della nonviolenza, “la sua prova più concreta e più evidente, è l’atto di non uccidere”, nel suo risvolto positivo, come ha ben detto Pietro Pinna, essa è impegnata “perché in tutti ci sia vita piena, creativa, nel benessere, nella cultura, nella ricerca e affermazione del valore, del bene in tutti i campi della vita”.

Giova insistere su questo punto: che la nonviolenza come apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo riguarda ogni essere. Lo ripeto: “ogni essere”. Attraverso un processo di specificazione, infatti, si possono distinguere tre gradi di nonviolenza: verso le cose, gli altri organismi viventi, il prossimo.

Nonviolenza verso le cose

In Vita religiosa (1942) Capitini ci invita a considerare ad una ad una le cose, e vedere come tutte hanno la loro singolare esistenza. Per lui, le cose, “tutte sono sorelle a me come individuo limitato e naturale” (è evidente il richiamo a Francesco). Dalla nonviolenza verso le cose deriva il precetto di non sciuparle, di “non mutarle di luogo senza ragione”, di non considerarle “soltanto per l’utile”, al contrario di lavorarle con cura ed intelligenza: “Ma adoperare una cosa per il male – così si esprime negli Elementi di un’esperienza religiosa – è la forma più elementare di violenza […] è un arbitrio nel servirsi di essa; un’offesa, è non portarla al grado di universalità. Perché si fa violenza al tempo quando lo si usa male, si fa violenza alla luce quando ci debba servire per facilitare una cattiva azione. E così l’acqua e i prodotti della terra”.

Nonviolenza verso gli altri organismi viventi

La nonviolenza è una rottura con la concezione umanistico-antropocentrica che implica un’apertura verso gli animali non umani. La scelta vegetariana è connessa con il problema dei mezzi e dei fini. Se “il progresso sta proprio nell’ampliare la sfera di ciò che è fine” (nel mondo umano come in quello animale, nel mondo vegetale come in quello delle cose), allora – osserva Capitini in La nonviolenza oggi (1962) –, “in fondo a questa strada sta l’ideale di una realtà in cui non ci sia più nulla che sia soltanto mezzo, cosa, strumento, ma tutto sia soggetto e oggetto di amore”.

Nella concezione di Capitini, l’atteggiamento verso gli animali viene ad inserirsi nel piano di “una liberazione-sociale-religiosa”, vale a dire “una liberazione intesa in senso ampio, non solo nella società (dall’assolutismo, dall’imperialismo, dal capitalismo), ma anche nella natura (dall’insufficienza, dal dolore, dalla morte)”. Capitini arriva ad affermare: “Un socialista si sente indotto ad essere vegetariano: non è una classe subalterna e oppressa anche quella degli animali”? (Lettera di religione n. 18, 30 maggio 1953). Occorre rovesciare il modo tradizionale di considerare gli animali come specie e non come singoli esseri: “Finora – si legge in La nonviolenza oggi – si è considerato il campo animale come un campo libero dove uno potesse portare strage; la nonviolenza inizia il piano di un accordo col campo animale, che potrà arrivare molto lontano”.

Nonviolenza verso il prossimo

Il precetto di non uccidere l’altro uomo viene ripreso negli Elementi di un’esperienza religiosa con una frase memorabile (la cui tragica verità purtroppo trova continue conferme dalla storia): “Guardiamoci intorno: – scrive – troppe nefandezze sono oggi compiute «a fin di bene»; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto”. Ma, come si è detto, la nonviolenza non si esaurisce nell’atto del non uccidere.

Se il momento negativo della nonviolenza consiste nel rifiuto della violenza come male, il momento positivo sta nel principio secondo il quale ogni essere (uomini, animali, piante, cose) non ha mai puramente e semplicemente valore di mezzo, ma sempre soltanto valore di fine. Capitinianamente, la faccia positiva della nonviolenza consiste nell’affermazione del «tu» di ogni essere, “dovunque egli si trovi, qui o là nello spazio, oggi o domani nel tempo”.

Dalla parte di Antigone

Come modello idealtipico del persuaso si può assumere una figura femminile: Antigone, la protagonista della tragedia di Sofocle. Antigone segue la legge intima e non quella esteriore, non accetta il compromesso, “in piena follia” (la follia che verrà elogiata dal grande Erasmo) disobbedisce agli ordini del Re, lo zio Creonte, dando sepoltura al fratello Polinice. Antigone apertamente disobbedisce, “di tutta la città lei sola”. Ma il suo rifiuto non è una fuga, anzi è un vero e proprio atto, una presa di posizione forte di fronte alla città, che ci interroga sul valore sempre attuale della coscienza.

Giuliano Pontara ci ha dato un contributo importante, indagando le ragioni di Creonte e quelle di Antigone (Antigone o Creonte. Etica e politica, violenza e nonviolenza, ultima ed. edizioni dell’asino, Roma 2011). Pontara richiama l’attenzione sulla versione di Antigone proposta da Jean Anouilh, un dramma in un atto unico, scritto nel 1941, pubblicato nel 1943, rappresentato per la prima volta al Théâtre de l’Atelier di Parigi il 6 febbraio 1944 con regia, costumi e scenografia di André Barsacq. In questa ripresa della tragedia Creonte è “il fautore di una concezione ‘realistica’ della politica come fondata da ultimo sulla minaccia e l’uso della violenza”.

Creonte crede che per l’ordine della città sia necessario “un lavoro sporco” e ad Antigone osserva: “ma se non lo faccio io, chi lo farà?”. La posizione di Antigone è ferma e chiara: “Sono qui per dirti di no e per morire”. L’atto di Antigone di violare apertamente e in modo nonviolento il decreto di Creonte può essere visto come un tentativo di bloccare la spirale della violenza che minaccia l’esistenza stessa della città.

La parte dei persuasi è dalla parte di Antigone.

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