La resistenza del post-Fukushima | Matteo Boscarol
Maboroshi. Tra i movimenti di protesta – spesso non violenti – del popolo giapponese, il Seald, nato subito dopo la tragedia nella centrale atomica
Cinquant’anni fa accadeva qualcosa di importante per i movimenti di protesta e di rivolta in Giappone, nell’estate del 1966 infatti cominciava a Sanrizuka, una zona rurale situata a circa un’ora da Tokyo, la resistenza dei contadini contro l’esproprio delle loro terre e la costruzione dell’aeroporto di Narita. Una specificità di queste resistenze che hanno visto il loro apice fra il 1968 ed il 1973, è il fatto che a lottare non erano solo i contadini ma anche gli studenti provenienti dai vari movimenti di protesta che sconvolsero le università. I tempi sono naturalmente mutati, ma un’interessante mescolanza, se non sociale almeno generazionale, è molto presente nei vari movimenti di protesta che sono esplosi nel post-Fukushima e che continuano ancora oggi.
Una costellazione assai variegata ma che ha le sue ragioni d’essere principali nella lotta contro l’energia nucleare, contro il governo Abe e i vari tentativi di modificare la costituzione pacifista del Giappone.
Certo non si tratta di «atti di ribellione» che fanno parlare di se, spesso intenzionalmente ignorati dai media giapponesi sempre meno liberi dall’influenza governativa, anche perché si tratta di proteste «silenziose» e non violente e non hanno quasi mai ottenuto in questi cinque anni ciò per cui si sono battuti.
Caso particolare è quanto sta succedendo a Okinawa nei movimenti contro le basi americane, attivismo che ha uno sviluppo storico molto diverso, ma per sviscerare l’argomento servirebbe un articolo a parte. L’esempio di quanto successo negli ultimi giorni è calzante, il 29 marzo infatti è entrato in vigore il nuovo pacchetto di sicurezza dove in pratica è consentito alle forze militari giapponesi di intervenire all’estero.
Quando lo scorso anno queste modifiche furono annunciate, il movimento di protesta ha reagito in maniera energica, con gruppi di cittadini scesi in piazza a protestare davanti ai palazzi governativi. Azioni che non hanno naturalmente fermato il governo Abe. È importante però che questi movimenti esistano, aggreghino, facciano parlare e creino discussione, risveglino cioè le coscienze di chi vi partecipa. Certo si tratta solo di una parte della popolazione giapponese, ma è significativo che si tratti di gruppi eterogenei, come si diceva all’inizio, formati anche da giovani e studenti.
Per forza e capacità di persuasione, anche dal punto di vista mediatico, è il SEALDs. Acronimo di «Students Emergency Action for Liberal Democracy», il gruppo è nato subito dopo la triplice tragedia di Fukushima proprio per preservare o implementare la democrazia nell’arcipelago e continua ad essere molto attivo anche oggi, anzi forse ancora di più visti i tentativi del governo in carica di zittire o influenzare la stampa e le televisioni, nell’organizzare marce, sit-in e manifestazioni. Per alcuni analisti si tratta solo di una tendenza come un’altra in voga fra i giovani, un modo di sentirsi al centro dell’attenzione mediale, molte parole, molta musica e pochi fatti, vista la tendenza ad usare metodi non violenti.
Ma si tratta solo dell’inizio, non bisogna dimenticare che gli attivisti del gruppo sono per la maggior parte sotto i trent’anni e spesso poco sopra i venti e riguardo alla spettacolarizzazione, alla fine dei sessanta anche gli universitari che si ribellavano per le strade sceglievano il colore dei loro elmetti in base a come si sarebbero notati nella televisioni a colore. Performance e protesta/resistenza ritornano così a fondersi nella società dello spettacolo.
Fonte: il manifesto, 1 aprile 2016
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