Le proporzioni della guerra
Libia. Il «pacifismo» di Matteo Renzi: le proporzioni della guerra
Facciamo chiarezza. L’intervento militare dell’Italia in Libia purtroppo ci sarà. Il problema è solo come e quando. Lo ha ben evidenziato il dibattito parlamentare di ieri, la vicenda penosa delle salme dei due ostaggi italiani e la triste comparsata di Renzi a Domenica Life.
Le parole di Gentiloni, insieme a tanta neo-retorica e tra molti «freni», non lasciano dubbi infatti. E soprattutto non ne lasciano quelle incredibili – dopo le dirette responsabilità avute per la guerra in Libia del 2011 – di Giorgio Napolitano, presidente emerito della repubblica e a questo punto ministro degli esteri ad interim.
«Gli interventi militari non sono la soluzione» per la stabilizzazione della Libia, dice Gentiloni, anzi «possono talvolta aggravare il problema» e «il governo non è sensibile al rullar di tamburi e non si farà influenzare da radiose giornate interventiste» ma «si difenderà dalla minaccia terroristica con azioni proporzionate». La proporzione dell’intervento militare italiano è commisurata all’efficacia del piano Usa di raid aerei pronti in tutti i dettagli secondo il New York Times – quei raid che a Sabratha hanno fatto, per «colpire cellule Isis», decine di vittime civili tra cui due ostaggi serbi (del resto abituati agli interventi «umanitari» in quanto serbi), e influenzando probabilmente il comportamento degli stessi malviventi rapitori – ora sappiamo che non era l’Isis – dei quattro italiani.
E proporzionata alla spartizione di ruoli e giacimenti petroliferi con Parigi e le forze speciali francesi già sul campo. E tutto questo, secondo l’Italia, aspettando il sì di un governo libico «legittimo». Di quale legittimità stiamo parlando è dato dubitare, visto che in Libia, dove si moltiplicano milizie e governi, non c’è. E viene ricercata solo perché l’eventuale esecutivo unitario chieda l’intervento armato esterno. In questi giorni, tra il governo di Tripoli e quello di Tobruk in conflitto tra loro, è sembrato emergere perfino il «governo di Sabratha».
Dunque l’intervento sarà «proporzionato» ma ci sarà. Motivato con la «sicurezza» da garantire sull’altra sponda – ma anche nel 2011 la Libia era sull’altra sponda del Mediterraneo ma abbiamo preferito far diventare gli aerei della Nato l’aviazione dei jihadisti in rivolta contro Gheddafi. Lo faremo per gli scafisti avendo già previsto tanti «effetti collaterali» di profughi disperati finiti a quel punto nel mirino del «fuoco amico». Ma l’intervento militare ci sarà.
Del resto come poteva essere altrimenti, dopo che il governo aveva chiesto per l’Italia la guida della missione militare internazionale in Libia e dopo averla ottenuta con tanto di pronunciamento del capo del Pentagono Ashton Carter – visto il legame e il passato (coloniale) – che ha avanzato la richiesta di almeno 5mila militari, dopo l’assenso della ministra Pinotti, e dopo le dichiarazioni di Gentiloni sulla preparazione dell’intervento arrivata ormai «ad un livello molto alto» e «in fase avanzata».
Alla fine Matteo Renzi, sondaggi alla mano, nella sede che gli è più propria, quella televisiva di Domenica Life, non certo nelle istituzioni democratiche, ha dichiarato che «la missione militare in Libia non è in programma» perché «la guerra è una parola terribile non è un video gioco». Per prendersela con i giornali che «mettono l’elmetto» – tanti, purtroppo e storicamente impegnati ad essere guerrafondai, ma spesso proprio gli stessi che ne sostengono l’azione di governo.
Inoltre ha sollevato il problema più spinoso, una specie di autogol del quale pochi si sono accorti. Per gli ostaggi italiani, due tornati fortunatamente vivi e due invece assassinati da bande tribali del puzzle libico – altro che Isis – «bisogna vedere le responsabilità, perché il governo italiano aveva rappresentato i pericoli…noi abbiamo portato via tutti gli italiani dalla Libia», ha detto. Ma se il Greenstream che da Mellitah porta il gas in Italia per l’azienda di bandiera doveva e deve funzionare, sarà mica colpa dei lavoratori? Tanto Renzi è abituato a sfotterli i lavoratori. Chi se non il governo o sedi decisionali ad esso collegate ha deciso che quel lavoro doveva continuare?
Il fatto è che non è la guerra in quanto parola ad esser terribile, ma la guerra stessa. È davvero un errore, avere messo il piede su questa tragedia pensando che sia come esaltare lo zerovirgola dei presunti successi in economia o i battibecchi tra i potentati o gli accordi sottobanco con i verdiniani.
Del resto non è il «governo La Pira» che abbiamo di fronte, ma quello di un presidente del Consiglio – ora solo al comando con l’emendamento che gli dà potere operativo sulle forze speciali d’intelligence – che ha prolungato di un anno la missione militare in Afghanistan, che ha stracciato il voto parlamentare che lo impegnava a tagliare le spese per gli F35 che compreremo invece tutti, che ha dato il via alla partenza a giorni di 700 soldati a Mosul in Iraq in piena zona di guerra, e che sostiene militarmente Israele che occupa i territori palestinesi. No, davvero non è un videogioco.
Fonte: il manifesto, 10 marzo 2016
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