Il Dialogo per la Pace

Gianmarco Pisa

Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Il Dialogo per la Pace, Mimesis, Milano 2014, pp. 108, € 12,00.

«Il Dialogo per la Pace», una guida per l’azione

Il dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni razzismo, è un libro utile, che colpisce – mi colpisce – per più di un motivo. L’architrave delle questioni, attraverso le quali si snodano le riflessioni degli autori e delle autrici, è rappresentato dalla cosiddetta «pedagogia interculturale»: come ci ricorda, infatti, Daniele Biacchessi, nel suo intervento, posto nella sezione di apertura del volume, l’autrice «Laura Tussi non è una storica, è una pedagogista, e affronta i temi della memoria, della pace e del razzismo con altri occhi».

Si tratta, per altri aspetti, di una premessa metodologica importante per inquadrare il contenuto centrale della narrazione che il volume offre, ma anche per precisare i contenuti della tematica alla quale il testo fa ripetutamente riferimento. Se la «pedagogia della pace», come spiega, nella introduzione dell’opera, Fabrizio Cracolici, «apre a tutte le tradizioni e le religioni, al fine di raggiungere un’unità di senso e di significato, un comune orizzonte di idee, in un alto momento di incontro, pluralista e democratico, basato sulla dignità delle differenze che costituiscono il vero motore attivo e libertario dei popoli», allora la «pedagogia interculturale» ne rappresenta, al tempo stesso, una premessa e una declinazione, e tale messaggio sembra trasparire con forza nelle pieghe del testo.

Da una parte, la pedagogia interculturale come premessa del «lavoro di pace», dal momento che, come spiega l’autrice, «ognuno (e ognuna) di noi presenta una propria specificità e differisce da ogni altro soggetto nelle personali prerogative identitarie; la considerazione e il riconoscimento dell’“altro da sé” permettono il reciproco confronto e la gestione educativa del conflitto dove, spesso, l’intesa e l’accordo si presentano come una “bella utopia”.

Dal dialogo risulta possibile generare l’intesa, l’accordo, nel confronto tra identità che, con l’analisi auto-biografica, possono assumere una maggiore consapevolezza valoriale, nel rispetto di sé e, di conseguenza, dell’altro» (p. 25). Dall’altra, la pedagogia interculturale costituisce anche una articolazione specifica del lavoro di pace, dal momento che, in termini generali, «educare significa scegliere sempre la persona, per agire a favore del più debole, dell’emarginato e dell’oppresso, per interagire in contesti di pluralismo culturale, in cui la natura del soggetto consiste nell’affermare la propria differenza e la propria singolarità e appropriarsi di valori e di ricchezze, comuni all’umanità, perché l’alterità è un’altra identità e autenticità prodotta dall’umano, nell’interazione reciproca, nella relazione, nello scambio, nell’incontro, che si fondano sull’autenticità, risalendo alle sorgenti vitali […] alla ricerca di un dialogo nell’equilibrio e nell’armonia» (p. 54).

Se è vero che questi termini non esauriscono l’impegno dei costruttori di pace, nei diversi ambiti in cui si insedia e si articola il loro impegno sociale e culturale (dall’educazione alla pace nelle scuole alla gestione dei conflitti in ambito internazionale, dal lavoro di promozione sociale a quello di mediazione costruttiva e, appunto, «dialogo di pace»), è almeno altrettanto vero che questi termini finiscono per istituire una mappa concettuale importante, che pure il volume delinea, almeno intorno a tre questioni, problematiche ed esigenti: pace, memoria e inter-cultura.

Sin dai due passaggi testuali poc’anzi richiamati è possibile sviluppare altrettante osservazioni critiche, intorno alla natura e alla portata dell’impegno nonviolento per la prevenzione della violenza (e quindi di ogni forma di discriminazione, segregazione e razzismo) e per la costruzione della pace (e quindi per la rigenerazione delle relazioni sociali in chiave progressiva e trasformativa, in termini di «giustizia e libertà»).

In primo luogo, resta implicita nelle osservazioni dell’autrice una connotazione fondamentale del lavoro di pace, vale a dire l’esercizio, costante e consapevole, del decentramento emotivo e cognitivo quale presupposto della dislocazione in medias res: si tratta, cioè, di porsi a confronto nella relazione e a contatto nella diversità, maturando la consapevolezza necessaria a comprendere non solo la specificità del contesto che si sta attraversando (o che si intende attraversare) ma anche la irriducibilità dei codici narrativi e dei paradigmi culturali che abitano (o a cui si riferiscono) persone, popoli e comunità che pure della guerra hanno fatto, tragica, esperienza.

In secondo luogo, la pedagogia interculturale è una parte della pedagogia per la pace e può costituire uno strumento prezioso per innervare di senso la comunicazione interculturale e quindi le modalità stesse del «dialogo di pace» che, in contesti di violenza, conflitto e post-conflitto, si intende instaurare. Vi è dunque una questione grande che fa da sfondo alla ricostruzione e ricapitolazione che gli autori affrontano nel volume: la questione della guerra. Non è l’unica questione retro-agente né l’argomento principale tra quelli costitutivi; è però, dal mio punto di vista, al tempo stesso, l’impellenza più urgente, la sfida più esigente e il punto di caduta più risolutivo dell’intero percorso affrontato dal testo. È difficile immaginare, infatti, una «dotazione di concretezza» della pedagogia interculturale (a meno di non intenderla come mera disquisizione accademica), se non in termini della sua ricaduta specifica, quella di pedagogia per la pace. Allo stesso tempo, gli strumenti propri della pedagogia interculturale, in quanto vettori di facilitazione di relazioni pluralistiche, diventano estremamente scottanti e sensibili quando applicati a contesti di crisi e di conflitto, di alterazione violenta del tessuto della convivenza ovvero di lacerazione critica della concatenazione unitaria dei diritti umani. In questi casi, il lavoro di pace si estrinseca spesso in termini di ricomposizione di ciò che la guerra ha scomposto, di ritessitura di ciò che la violenza ha lacerato e di rigenerazione di ciò che il dolore ha sfigurato.

Non si tratta – è bene specificarlo per evitare di generare improvvide semplificazioni o pretestuose strumentalizzazioni – né del lavoro del pompiere né dell’azione di tutoraggio: il costruttore di pace (se consapevole e nonviolento) non è colui/colei che «mette la toppa» o «detta le regole», bensì colui/colei che si mette a disposizione, abitando il conflitto dal lato di chi ne ha maggiormente subito l’ingiustizia, le violazioni e le violenze, di un processo di trasformazione sociale che punti, nella misura del possibile e quanto più intensamente possibile, a estinguere i bacini della violenza, a dissodare il terreno delle legittime esigenze di pace e di giustizia (insieme: di «pace con giustizia») e a contribuire a riorganizzare il tessuto delle relazioni sociali e, quindi, una convivenza eventualmente possibile secondo una maniera che consenta di costruire la pace piuttosto che di rigenerare la violenza.

Vi sono tre passaggi del volume che alludono a questi significati. Nella sua Prefazione, Alessandro Marescotti ci ricorda che «ci sono almeno tre buoni motivi per fare educazione per la pace oggi – primo: fermare le guerre; secondo: fermare il razzismo; terzo: fermare la violenza […]».

Inoltre, appena più avanti, richiama opportunamente la nostra attenzione sul fatto che «una pedagogia della vita quotidiana che ami la bellezza, l’arte e la cultura; che educhi alla complessità e alla pazienza, al dubbio e alla saggezza […] è impegno contro la guerra come espressione di barbarie». Molto più avanti, nelle loro conclusioni, gli autori ci ricordano opportunamente che l’impegno nonviolento per la pace rappresenta, nel suo complesso (nella sua complessità) «un modo per mettersi in gioco personalmente, per assumersi delle responsabilità e per indicare la strada concreta della nonviolenza e della pace, per uscire dalla follia, dal baratro senza fine dei conflitti bellici e dell’era del nucleare». Ovvero, detto diversamente, «la pace come umanità che si deve riconoscere una, plurale e solidale, concretamente esistente nei (per i) singoli esseri umani, tutti uguali per diritti e dignità, tutti differenti per caratteri, propensioni ed opinioni, nell’umana convivenza, nella comune responsabilità, nella reciproca solidarietà, di cui ogni persona è promotrice» (p. 105).

È, se vogliamo, la sfida stessa della «pace positiva», un terreno ed una sfida tra le più impegnative ed esigenti per il lavoro costruttivo di pace, che resta come «sotto-testo» di questa narrazione e che Nanni Salio, nel suo contributo, ha il merito di portare ad evidenza, ricordando i quattro compiti (ambiti) del lavoro di «pace con giustizia», da un lato costruire equità ed armonia, dall’altro riconciliare i traumi del passato («ripulire il passato, riconoscere gli errori, augurandosi di non ripeterli, dialogo sul perché ed il come, costruire un futuro») e risolvere i conflitti presenti («lavorare per superare sia le contraddizioni e le incompatibilità, sia gli atteggiamenti e i comportamenti negativi»). Come lo stesso Nanni Salio ci ricorda (p. 83), si tratta di «una semplice formula proposta da Johan Galtung […] utile per individuare gli aspetti salienti di una pedagogia per la pace».

In definitiva, Il dialogo per la pace, di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, resta senza dubbio, nella più recente bibliografia sul tema, un prezioso racconto a più voci e a molti temi, dalla pace alla nonviolenza, dalla resistenza alla memoria, ed una guida utile al lavoro sulle memorie, per la costruzione della pace e per tutti quanti abbiano a cuore l’orizzonte multiculturale delle nostre società.

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