La Palestina nei testi scolastici di Israele

La Palestina nei testi scolastici di Israele

Angela Dogliotti

Nurit Peled-Elhanan, La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2015

Ci si chiede spesso come sia possibile che in Israele continui a manifestarsi un crescente consenso alle politiche di destra, non si riesca a fermare l’espansione degli insediamenti coloniali, i diversi governi abbiano sempre rifiutato di rispettare le risoluzioni internazionali… come sia difficile, in altre parole, fare passi concreti verso un vero processo di pace giusta e condivisa, che richiederebbe il riconoscimento della pari dignità delle richieste avanzate dalle parti in conflitto e la disponibilità di entrambe ad un compromesso, rispetto agli obiettivi iniziali di ciascuno, orientato alla convivenza.

Il libro di Nurit Peled-Elhanan, docente di educazione linguistica all’Università ebraica di Gerusalemme, ma soprattutto membro dell’associazione israelo-palestinese Bereaved Parents for Peace per essere stata tragicamente colpita dalla perdita di una figlia nel corso del conflitto, aiuta a comprendere come il sistema scolastico possa contribuire, almeno in parte, a creare questi ostacoli alla pace.

La tesi dell’autrice è che lo stato di Israele sia una «democrazia etnica», nel senso che «l’elemento determinante per il conferimento di diritti, potere e risorse in Israele non è quello della cittadinanza bensì quello dell’appartenenza etnica» per cui «in tutti i libri di testo e nel generale discorso politico e socioculturale, il Paese è definito come Stato di tutti gli Ebrei, ovunque si trovino, e non come Stato dei suoi cittadini» (p. 11). Di conseguenza, il sistema dell’istruzione è volto a creare e riprodurre una memoria collettiva coerente con la narrazione «costituita dall’ipotesto sionista, sul quale sono “scolpiti” i racconti e in base al quale si dà riscontro ai fatti» (p. 34).

Tale convinzione deriva all’autrice da una ricerca condotta su dieci manuali di storia, sei di geografia e uno di educazione civica, tutti pubblicati tra il 1996 e il 2009 (cioè dopo gli accordi di Oslo tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese), i cui risultati erano stati precedentemente pubblicati in diversi articoli su riviste accademiche ed ora sono raccolti nel testo in oggetto.

Nel quattro capitoli centrali vengono analizzate le rappresentazioni dei palestinesi nei testi scolastici israeliani; il modo in cui la geografia riproduce le «carte mentali», cioè i costrutti ideologici che rispecchiano percezioni e immagini fondamentali nella costruzione della politica pubblica; i significati impliciti ed espliciti veicolati attraverso il layout (la struttura) e la presenza di meccanismi di legittimazione nei rapporti sui massacri.

Le conclusioni cui il testo giunge sono riepilogate nel capitolo conclusivo: «Indipendentemente dal fatto che siano stati pubblicati sotto ministeri di destra o di sinistra, i testi analizzati strumentalizzano il passato a beneficio della presente e futura politica israeliana di espansione» (p. 262) In particolare, i testi analizzati «presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese […] e legittimano molti tipi di discriminazione ufficiale, da tempo indicati dall’ONU come inaccettabili», tra cui, ad esempio, la disparità di trattamento davanti alla legge, la disuguaglianza nella libertà di movimento e di residenza, di regolamentazione e trattamento della proprietà privata (confische di terra alla popolazione palestinese e divieti a costruire sulla propria terra)…

In conclusione, riferendosi a un testo di Coffin, l’autrice afferma che dai libri di storia gli alunni «imparano a presentare le interpretazioni come fatti e a inserire visioni personali in rappresentazioni apparentemente neutre, ossia apprendono il linguaggio del potere» (p. 270). […] Con tali visioni e carte geografiche distorte ben radicate in mente, i giovani alunni israeliani si arruolano nell’esercito e si trovano ad applicare la politica di Israele faccia a faccia con palestinesi, il cui mondo è loro sconosciuto e la cui esistenza reale, come hanno appreso, va temuta e odiata» (p. 272).

Naturalmente non può essere il sistema di istruzione il solo responsabile, tuttavia è forse oggi sempre più vero che «il monopolio dell’istruzione legittima è più importante di quello della violenza legittima» (p. 261), come l’autrice ricorda citando Ernest Gellner.

Quali che siano le ragioni di una simile realtà, se questa analisi di come i testi scolastici israeliani parlano della Palestina è corretta, forse si può comprendere come mai, nonostante tanti generosi e straordinari esempi di israeliani e palestinesi impegnati dal basso in percorsi di reciproco riconoscimento e ascolto, il problema di fermare la costruzione di nuovi insediamenti israeliani e di porre fine all’occupazione dei territori palestinesi non appaia, anche alla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, come il primo, imprescindibile passo verso una pace giusta e condivisa, in questa terra lacerata da un conflitto ormai secolare.

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