Giornalismo di pace: funziona?
In breve: No. Gli avvenimenti di Parigi hanno innescato un giornalismo di guerra; non si è osservato alcun giornalismo di pace. Dubitare che la violenza anti-IS funzionerà non è giornalismo di pace, solo giornalismo di guerra con degli interrogativi.
Il giornalismo di pace fu concepito negli anni 1960 come reazione a un negativismo sulle notizie estere focalizzate sui protagonisti e le persone e i paesi d’élite. Non quindi per propugnare la pace ma come giornalismo riguardante la pace. Così come il giornalismo di guerra non è appoggio alla guerra, ma un indispensabile giornalismo sulla guerra, il riferire quel che accade, e chi sta vincendo. Può essere ben fatto o no, e sovente diviene propaganda per un contendente, nei media nazionali più che in quelli locali e globali (con un’accentuazione anglo-americana, comunque).
Sicché, il giornalismo di pace non è mai stato un sostituto del giornalismo di guerra. L’idea era di avere l’uno e l’altro, a vicendevole complemento. I media soffrono di un cattivo giornalismo non professionale, che riferisce solo un versante degli avvenimenti in corso, solo quello negativo, la violenza, e solo quel che fanno attori d’élite in paesi d’élite; più qualche “leader” in qualche altro paese.
Si prenda un’epidemia come metafora. Dev’essere riferita; l’eziologia, la letalità, dov’è iniziata, come si diffonde, la prognosi. Però, se questo è quanto, sentiamo che ci manca qualcosa. Possiamo chiamarlo giornalismo sanitario e considerare quanto riferito dell’epidemia come null’altro che un distorto giornalismo patologico. I giornalisti si chiederebbero ovviamente anche “quale sia la causa originaria”, “che genere di virus, microrganismo”, “come possiamo proteggerci”, “come possiamo fermarla?”
E, al governo: “che cosa state facendo o state per fare in merito?”
Le risposte possono variare dal controllo del traffico, alla quarantena, a una vaccinazione per evitare il contagio, a un maggior rafforzamento immunitario a lungo termine con migliore alimentazione ed esercizio. Ci sentiremmo tutti messi terribilmente alla sprovvista da un giornalismo che ometta questa seconda parte per darsi al flagello di un’epidemia, figuriamoci poi d’una pandemia.
Eppure, ciò è appunto quel che manca per il flagello della guerra. Il concetto di “cause radicali” è infine arrivato – è già qualcosa; ma non quali siano e come affrontarle. È arrivata la parola “soluzione”, ma non il suo contenuto. Ci siamo avviati, ma serve molto di più.
Due cause radicali della guerra sono il trauma, ferite lasciate da violenze passate che portano alla vendetta; e il conflitto, obiettivi incompatibili perseguiti dai contendenti, che conducono alla frustrazione dovuta agli obiettivi bloccati e all’aggressione. Le parole per i rimedi sono ben note: conciliazione per i traumi e soluzione per i conflitti. Ma non come attuarle.
Particolarmente non negli USA. Con 248 interventi militari in altri paesi per ragioni qualsiasi – a partire da Jefferson in Libia 1801-5 (“Stati di Barberia”) – gli USA mostrano preferenza per la guerra rispetto alla soluzione del conflitto, e hanno causato traumi ovunque. Il consiglio USA ad altri di conciliarsi e risolvere può vedersela con un “e voi allora, USA”. E poi, la perizia nella violenza facilmente inibisce quella nella conciliazione e soluzione. “Per chi ha un martello, il mondo sembra un chiodo” (Mark Twain).
Siamo di fronte ad alcune versioni semplificate, dilettantesche. Non l’esplorazione penosa eppur necessaria del trauma, di quel che è avvenuto, di quel che si sarebbe potuto fare, di cooperazione futura; piuttosto il rito delle scuse, del perdono e delle strette di mano, “adesso siate buoni amici”.
Inoltre, invece di esplorare gli obiettivi di tutti gli attori di un conflitto – senza escluderne nessuno con qualche “anti” come in anti-comunismo, -terrorismo, -jihadismo, -americanismo –, e invece di esplorare che genere di cambiamenti potrebbero realmente produrre i loro obiettivi se legittimi e compatibili, possiamo ritrovarci con nulla più che un compromesso che non soddisfa nessuno. Né accettabile né sostenibile.
Dobbiamo aggiungere qualche causa fondamentale di pace positiva come l’equità – cooperazione per benefici reciproci e uguali – ed empatia per l’armonia, mettersi nei panni dell’altro, per la conciliazione e la soluzione al fine di eliminare le cause originarie della guerra. Nessuna di esse è un punto forte nella politica estera USA. Difficile quindi per loro come per un cammello passare attraverso la cruna di un ago?
Una sessione del congresso dell’Associazione Nazionale USA della Comunicazione a Las Vegas il 19-22 novembre 2015 è stata sul giornalismo di pace; una buona mossa. Le quattro relazioni erano sull’uso della radio per il giornalismo di pace, sul giornalismo dei servizi speciali sulla vita quotidiana e le sue tematiche, e due articoli sull’Ucraina. Le relazioni documentavano quanto il “giornalismo di pace” sia presente negli USA: discussione ben informata, casi di studio affascinanti, ma carenti in quanto a pace nel senso di conciliazione, soluzione, equità ed empatia.
La Radio, nello spazio pubblico più che nella comunicazione per internet, è un medium per la comunicazione in entrambe le direzioni, i mattoni della mediazione, con altri in ascolto. Come in The Voice of Peace di Abie Natha per il Medio Oriente; ma non sono state menzionate soluzioni concrete. Né per Radio Brod (radio che trasmetteva dal “battello della pace”) al largo della costa jugoslava negli anni 1990, o per Radio Okapi in Congo. Eppure, già la loro stessa esistenza fu positiva.
Il giornalismo dei servizi speciali, è focalizzato sull’individuo, la famiglia e la comunità. Esplora come questi temi vengono “affrontati, ignorati, ostacolati, valorizzati”. E soprattutto, risolti; ma non sono stati forniti esempi. Un’eccellente opportunità per chi sta in alto per condividere con la gente comune una cultura di soluzione generale. Cultura che non sostituisca gente e media con la politica.
Due articoli molto documentati hanno presentato fatti relativi al processo ucraino, e i cambiamenti nel discorso generale, ma i fatti da soli non sono soluzioni. C’è bisogno del valore concreto della pace, e che il giornalismo esplori vie d’uscita per uno stato – appropriatamente chiamato Ucraina – al confine, fra due nazioni nemiche; l’una appoggiata dall’Occidente, l’altra dalla Russia. Il federalismo suggerisce “Uno stato/due nazioni”; il non-allineamento e la neutralità evidenziano il ruolo di “due grandi potenze”. Queste soluzioni avrebbero potuto essere esplorate, ma non lo sono state.
Tuttavia, stiamo procedendo dal nulla verso qualcosa. Quali “cause radicali” siano da rimuovere e costruire è un tema principale del giornalismo di pace per il dialogo. Inoltre, c’è già in campo una rivista eccellente, The PEACE Journalist, del Center for Global Peace Journalism, e Peace Journalism Insights della Park University, Parkville, Missouri, USA.
Guardiamo indietro: poco o nulla. Guardiamo in avanti: sempre più spazio mediatico per la pace.
30 novembre 2015
Titolo originale: Peace Journalism: Is It Working?
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
"Dobbiamo aggiungere qualche causa fondamentale di pace positiva come l’equità – cooperazione per benefici reciproci e uguali – ed empatia per l’armonia, mettersi nei panni dell’altro, per la conciliazione e la soluzione al fine di eliminare le cause originarie della guerra. Nessuna di esse è un punto forte nella politica estera USA."
Mi chiedo: nella politica estera di quale paese equità, empatia e armonia rappresentano un punto di forza? Che dire, allora, di quello che fu l'imperialismo sovietico, o l'imperialismo cinese (invasione del Tibet) e di tutti gli altri piccoli o grandi imperialismi presenti nel pianeta, diversi da quello americano? E quello del Daesh, oggi, non è forse uno degli imperialismi più spietati che la storia conosca? Addossando agli USA o all'Occidente in generale le cause di ogni crisi internazionale non si va davvero molto lontano. Tanto meno in un momento storico come l'attuale.