Tribunale delle Donne per la ex-Yugoslavia, un approccio femminista alla Giustizia – Graziella Longoni

Questo articolo è stato scritto nel 2012, nel corso della preparazione del Tribunale delle Donne per l’ex Yugoslavia , che si è aperto formalmente a Sarajevo il 7 maggio 2015.
E’ un documento prezioso per comprendere lo spirito e le ragioni di questa iniziativa, che ha mobilitato donne di diversi gruppi del femminismo pacifista e  nonviolento di tutti i paesi dell’ex-Yugoslavia. Ne abbiamo parlato lunedì 23 novembre al Sereno Regis con Stasa Zajovic, nell’incontro organizzato con le Donne in nero di Torino.

Il silenzio è tutto ciò di cui abbiamo terrore.
C’è riscatto nella voce” – Emily Dickinson

Quante più parole possiamo prenderci,
tanto più siamo liberi” – Herta Müller

…diventeremmo sempre più estranei a noi stessi,
senza la memoria di ciò che abbiamo fatto,
di ciò che ci è accaduto. Senza la memoria di noi.
E senza la voce che tenta di parlarne.” – Christa Wolf

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1. Donne custodi della Memoria

Nello scorrere del tempo, sembrano lontani i giorni dell’orrore, quando la guerra infuriava in Bosnia-Erzegovina (1992-95), portando con sé il suo macabro bagaglio di violenze inaudite e di tragedie individuali: la pulizia etnica pianificata dai serbi, la brutale deportazione degli abitanti di interi villaggi strappati dalle loro case e diventati improvvisamente nemici e usurpatori, le disperate marce di sradicamento, i lunghi assedi e la morte per fame dei bambini e dei più deboli, la tortura e lo sterminio di massa di uomini, ragazzi e vecchi, le fosse comuni, i campi di concentramento, la paura che annichilisce, lo stupro sui corpi delle donne, spesso ridotte in schiavitù in campi-bordello, per umiliarle, disonorarle e annientare così, nella triste logica del patriarcato, le radici etniche dell’avversario.

Eppure, per chi è sopravvissuto, il tempo è come sospeso; quel passato continua a vivere nella memoria che accompagna i gesti quotidiani dell’esistenza e chiede giustizia; continua ad abitare il presente e a rendersi visibile nel vuoto affettivo di chi ha perso figli, figlie, mariti, fratelli, sorelle, padri, madri; continua a tormentare i sonni, spesso artificialmente indotti, di chi ancora sente bruciare le ferite sul proprio corpo violato e vaga in un grande buio in preda all’ansia, alla depressione, alla perdita di fiducia e di autostima, alla vergogna, alla solitudine; continua a nutrire il sentimento di estraneità in chi ha percorso le strade della diaspora; continua ad invadere i luoghi sfigurati dalle bombe, a pesare sulle case occupate dai criminali che circolano liberamente e osservano, minacciosi e irridenti, le loro vittime, costringendole spesso ad abbassare lo sguardo per evitare di incontrare quegli occhi che tutto sanno e ad affrettare il passo, nel tentativo di tracciare una distanza per tenere lontano il male che quella presenza richiama e rinnova in un dolore che spesso eccede le parole, ammutolendo il linguaggio.

Ricordo il vissuto di una madre di Srebrenica che, mestamente, sussurrava: “Per me il tempo non è passato, non è passato neanche un giorno: io non ho più vissuto da allora”.

Certo non è facile riprendere a vivere, accanto a chi ti ha portato via tutto e in un luogo irriconoscibile, contrassegnato da un soffocante vuoto esistenziale; non è facile, per la comunità musulmana divenuta minoranza, affermare i propri diritti di cittadinanza in un territorio che gli accordi di Dayton hanno attribuito alla Repubblica Srpska, nata sul genocidio, le fosse comuni e lo stupro etnico, legittimando così la divisione etnica e premiando la malsana politica nazionalista che ha smembrato la Bosnia e cancellato la sua realtà multiculturale.

In questa situazione paradossale trovano uno spazio di manovra i fautori di un cinico realismo politico che, in nome di una “riconciliazione smemorata”, ritengono che non si debba perdere troppo tempo con il passato, campo d’indagine degli storici cui spetterà accertare la verità dei fatti accaduti, e che la vera urgenza è quella di creare le condizioni per un nuovo sviluppo che apra le porte a un futuro vivibile per tutti.

Le prime ad opporsi a questa sottile forma di negazionismo, completamente indifferente al dolore di chi è sopravvissuto e ancora cerca i resti dei propri morti per dare loro dignitosa sepoltura, sono le donne, custodi della memoria, che osano alzare la loro voce non solo per raccontare una tragedia personale, ma anche e soprattutto per rivendicare giustizia e verità, condizione necessaria per guarire le ferite di un’intera comunità e superare l’odio e il rancore che alimentano le divisioni e non consentono di andare oltre l’immagine dell’altro come nemico.

Alla parola “riconciliazione” preferiscono la parola “riparazione”, perché il genocidio distrugge la vita delle persone che, per poter elaborare il lutto, recuperare la propria integrità e continuare a vivere, hanno bisogno di vedere i responsabili di un tale crimine contro l’umanità davanti a un tribunale, dove, grazie all’accertamento della verità, al riconoscimento del male inflitto, all’ascolto delle vittime di tanta efferatezza, si ponga fine a quel clima di impunità che l’esasperata contrapposizione etnica aveva contribuito a diffondere, consentendo di trasformare i carnefici in eroi e le vittime in “esseri superflui” da eliminare.

Munira Subaši?, presidente dell’ “Associazione delle donne di Srebrenica e Zepa”, descrive con molta chiarezza le modalità e il senso del percorso di riparazione: “Oggi devo trovare i resti di mio figlio, ma voglio anche dare un nome all’assassino. Se non succederà, nella nostra storia non ci sarà mai convivenza, non ci sarà quella che voi stranieri chiamate ‘pacificazione’, non ci sarà fiducia, non ci saranno diritti umani; non potrò dividere i serbi in buoni e cattivi e io, come vittima, avrò il diritto di sospettare che in ogni serbo si nasconda l’assassino di mio marito e di mio figlio. I criminali devono rispondere dei loro atti, a qualsiasi popolo appartengano e qualsiasi nome portino. Se non succederà, non ci sarà Bosnia, né possibilità di convivere in Bosnia”.

La giustizia riparativa, che le donne perseguono, si fonda dunque sul bisogno di riconoscimento e di partecipazione che promana dalle vittime, sull’invito a non dimenticare la soggettività di chi ha patito un’offesa, condizione necessaria per trasformare il sopravvissuto in essere vivente, per permettergli di recuperare la pienezza della sua umanità, consentendogli così di andare oltre lo status di vittima e di ricominciare a progettarsi nel futuro.

Mosse da un fortissimo senso civico e dall’etica della “cura” che si dispiega come attenzione alla vulnerabilità dell’esistenza, impegno a costruire relazioni umane basate sul reciproco rispetto e sulla capacità empatica di condividere emozioni e sentimenti, le donne chiedono di fare i conti con il passato fino in fondo perché sanno che non si potrà costruire nessun futuro sui crimini rimasti impuniti.

Si sono organizzate in associazioni, trovando conforto in un’aggregazione collettiva che attraversa i confini artificialmente costruiti dal nazionalismo e vede insieme donne bosniache, serbe, croate, kosovare, macedoni, unite in una forte e affettiva tessitura di rapporti che si è concretizzata nell’attivazione di una rete di solidarietà, capace anche di dare aiuto materiale e sostegno psicologico alla parte più colpita.

Condividendo il dolore di chi ha subito il genocidio, di chi vive in uno stato criminale che l’ha fomentato e reso possibile, di chi è dilaniato dalla vergogna e dal senso di colpa, tutte insieme continuano a chiedere verità, giustizia, riparazione e a coltivare la memoria, recandosi sui luoghi dei massacri per onorare i morti, documentando le violenze, manifestando negli spazi pubblici delle loro città con il linguaggio della non violenza e dei diritti umani, denunciando le politiche reticenti dei loro governi, presidiando insieme l’andamento dei processi.

Emblematico il gesto delle Donne in Nero di Belgrado che hanno chiesto perdono alle donne bosniache, assumendosi la responsabilità morale, in quanto serbe, dei crimini commessi dal loro governo anche in loro nome e negando nello stesso tempo il loro consenso al regime criminale di Miloševi?. Chiedere perdono è riconoscere la sofferenza della vittima, è “consentire alla vita di proseguire” – dice Hannah Arendt; il perdono, infatti, pur non cancellando l’atto compiuto, avvia un percorso riparativo finalizzato alla ricostruzione di quel legame sociale compromesso dall’offesa arrecata.

2. Tribunale dell’Aja: quale giustizia?

A questo punto è naturale chiedersi se il Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex-Jugoslavia è in grado di rispondere al bisogno di verità e di giustizia che la rete delle coraggiose donne dei Balcani esprime con tanta forza e determinazione.

Staša Zajovi?, portavoce delle Donne in Nero di Belgrado, ritiene che la giustizia riparativa o transizionale non può essere soddisfatta dal suddetto Tribunale e pensa che le donne debbano inventarsi qualcosa d’altro per ottenerla.

Le fa eco Munira Subaši? che, a sua volta, dice di non credere alla giustizia del tribunale dell’Aja e aggiunge che, in realtà, non sarà mai fatta giustizia per le vittime; tuttavia crede che sia un bene che tutti debbano rispondere giuridicamente dei loro atti davanti a un tribunale internazionale in grado di giudicare i criminali e di assegnare loro una punizione. “Se non ci fosse il tribunale – precisa – non avremmo neppure questa vaga speranza di giustizia, sebbene abbiamo denunciato più volte che il diritto è una cosa, la giustizia un’altra.”

In effetti, se giustizia non significa solo punire i responsabili ma anche riconoscere i torti con conseguente disponibilità a cambiare gli atteggiamenti sbagliati; se giustizia significa aiutare le vittime a normalizzare il più possibile la loro vita e avviare un processo di effettiva riparazione per contribuire allo sviluppo della società civile, il tribunale dell’Aja si è rivelato un organismo inadeguato e anche contraddittorio. Spesso le sentenze pronunciate non hanno favorito l’accertamento delle responsabilità individuali di tutte le parti coinvolte, né la ricostruzione della verità dei fatti, non riuscendo così a scongiurare il pericolo che gli attuali e i futuri leader politici possano fare un uso strumentale degli avvenimenti del 1991-1995 per ridare corpo e seguito ai terribili fantasmi del nazionalismo.

Indubbiamente importante sul piano simbolico e per il contributo dato, sia nella definizione dei crimini di guerra e contro l’umanità, considerati imprescrittibili sotto qualsiasi bandiera vengano compiuti, sia nel chiarimento e nella creazione di regole di procedura e di prove applicabili ai processi internazionali; il Tribunale dell’Aja ha manifestato tutta la sua debolezza nel pronunciamento di certe sentenze che si potrebbero definire a “due pesi e due misure”.

Oggi non si può negare che nella ex-Jugoslavia la barbarie ha vinto con la complicità dell’ONU e della NATO, che portano su di sé una responsabilità incancellabile e imperdonabile; tuttavia nessuno, tra chi era in posizione di comando nell’operazione di peace-keeping durante la guerra e avrebbe dovuto proteggere la popolazione, è stato portato davanti al Tribunale che ha respinto ogni richiesta in tal senso.

Sorprendente anche la sentenza che ha assolto la Serbia dall’accusa di genocidio, riconoscendole soltanto la responsabilità di non aver fatto nulla per evitarlo e di scarsa collaborazione nella cattura dei criminali.

Sconvolgente la recente sentenza che ha assolto con formula piena i due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Marka?, condannati in primo grado a 24 e 18 anni di carcere per crimini di guerra contro i civili serbi, che vivevano nella Krajna croata. Durante l’ ”Operazione tempesta”, (agosto 1995), portarono a compimento una terribile pulizia etnica in cui vennero cacciati dai loro territori di vita più di 200.000 serbi e uccise più di 2000 persone, per lo più vecchi e malati, rimasti nelle loro case barbaramente massacrati.

Dopo questa sentenza, solo i serbo-bosniaci Karadži? e Mladi? restano in carcere all’Aja in attesa di giudizio e questo contribuirà sicuramente a confermare i serbi nel loro vittimismo e ad alimentare, per reazione, un pericoloso rivendicazionismo nazionalistico.

Questo comportamento non lineare, questo modo di leggere i reati, attribuendo loro significati diversi a seconda di chi li ha compiuti, dà l’impressione di trovarsi di fronte a una giustizia sfuggente e indefinita che risuona come concessione di amnistia per alcuni, i quali, per altri, sono solo criminali. E soprattutto infligge un’altra ferita alle vittime, che non si sentono riconosciute, e un duro colpo alla costruzione di una memoria condivisa.

Certo, non si può negare che diversi criminali sono stati giudicati e condannati, ma si tratta, comunque, di un numero esiguo che, spesso, ha patteggiato per ottenere una riduzione di pena; molti criminali minori e semplici esecutori materiali circolano ancora liberamente tra le loro vittime perché i tribunali nazionali, cui dovrebbero rispondere, non hanno né la volontà, né i mezzi per fare giustizia fino in fondo, dato che sono in gran parte manovrati da politici che hanno condiviso la pulizia etnica.

Non è un caso che le donne di Srebrenica erigeranno, nel Memoriale di Poto?ari, il “Pilastro della vergogna” sul quale saranno scolpiti sia i nomi dei funzionari dell’Onu e dei comandanti militari che di fatto hanno consegnato più di 10.000 musulmani bosniaci nelle mani del sanguinario generale serbo Mladi?, sia i nomi di coloro che hanno dissolto la Jugoslavia, programmando ed eseguendo la pulizia etnica.

Ciò che rimarrà davvero importante nella storia del tribunale dell’Aja, è la sentenza che ha stabilito in modo inequivocabile che a Srebrenica è stato compiuto il crimine di genocidio e ne ha attribuito la responsabilità alle forze serbo-bosniache, precisando che erano ben consapevoli che la “distruzione di un numero così grande di uomini significava inevitabilmente la scomparsa fisica della popolazione bosniaco-musulmana di Srebrenica”.

Si tratta indubbiamente di una sentenza che, oltre a rendere giustizia alle vittime, è destinata a fare giurisprudenza e a condizionare il giudizio su casi simili a livello internazionale.

Non dimentichiamo, inoltre, che il genocidio di Srebrenica, compiuto in nome della pulizia etnica, è uno dei più orrendi per i mezzi utilizzati: la deportazione forzata di migliaia di civili, le uccisioni di massa, i campi di concentramento, la pratica della tortura, lo stupro sui corpi delle donne, programmato a tavolino come arma di guerra, praticato poi in modo sistematico e pubblicamente, per umiliare un’intera comunità, bollare gli uomini come inetti, incapaci perfino di difendere il focolare domestico, ridurre le donne a semplici contenitori, destinate a mettere al mondo un futuro “soldato cetnico” e costringere così gli abitanti di certe aree geografiche ad abbandonare le loro case nel tentativo di sfuggire alla vergogna e al massacro.

Non dimentichiamo nemmeno che Le Nazioni Unite hanno riconosciuto lo stupro e la violenza sessuale non solo come un crimine di guerra, cioè come un prodotto secondario dei conflitti armati, ma anche e soprattutto come un crimine contro l’umanità. Esso può essere considerato un particolare tipo di tortura riservato alle donne e un atto di genocidio perché annienta la donna in quanto tale e rappresenta un oltraggio alla sua dignità, oltre che all’inviolabilità della persona.

Tutto ciò dimostra che appartenere al genere femminile è un ulteriore fattore di rischio in tempo di guerra.

Ecco le disperate parole di una donna stuprata più volte dai militari serbo-bosniaci: “Lo stupro calpestò il mio orgoglio e io non sarò mai più la donna che ero… dopo il terzo stupro, ormai mi ero separata dal mio corpo…alla fine ero fisicamente e psicologicamente distrutta. Ti uccidono psicologicamente”.

Le donne dei Balcani conoscono questo infinito dolore e sanno anche che tutta questa sofferenza non potrà trovare ascolto e risarcimento in un tribunale penale, la cui funzione è quella:

– di classificare il reato, secondo parametri stabiliti a priori, indipendentemente dal vissuto di chi denuncia l’offesa subita,

– di accertare le responsabilità,

– di emettere la sentenza di condanna ,

– di erogare la pena.

Nello svolgimento dei processi domina il punto di vista oggettivo che utilizza le vittime unicamente come testimoni. Nelle aule dei tribunali non c’è posto per la persona nella singolarità del suo esserci e della sua storia; al testimone si chiede, infatti, di parlare quasi con voce neutra, di non farsi travolgere dall’emozione nel raccontare i fatti, di esistere come portatore di un nome comune, il generico nome di testimone, e non come portatore di un nome proprio, che annuncia un essere unico, cui spetterebbe il diritto di parlare in prima persona.

Ecco perché le donne dei Balcani hanno denunciato l’insufficienza del Tribunale dell’Aja e hanno cercato di inventarsi qualcosa d’altro, un luogo diverso, dove si possa mettere le vittime nella condizione di raccontarsi come soggetti, e si concentri l’attenzione non tanto sulla tipologia dei reati, quanto sulle sopravvissute, sul cammino di resistenza da loro intrapreso per riuscire a non farsi travolgere dal dolore, a ritrovare la propria umanità dopo tanta negazione e a continuare a vivere.

Questo diverso luogo è il “Tribunale delle donne per la ex Jugoslavia”.

3. Raccontare la verità in prima persona: il Tribunale delle donne

Il percorso che conduce all’istituzione del Tribunale delle Donne della ex Jugoslavia, la cui apertura è prevista tra qualche anno, è iniziato nel 2000 per iniziativa delle seguenti associazioni di donne: Donne per le donne, Sarajevo (Bosnia-Erzegovina); Centro per le donne ed educazione alla pace, Anima di Kotor (Montenegro); Centro per le donne vittime di guerra e Centro per gli studi delle donne (Zagabria); Rete delle donne del Kosovo; Centro per gli studi delle donne e Donne in Nero di Belgrado (Serbia).

Ciò che accomuna queste donne, che la follia maschile della pulizia etnica voleva dividere, è la condivisione di una stessa pratica politica quotidiana che si dispiega come:

– resistenza al militarismo e al nazionalismo,

– rifiuto della violenza che precipita i conflitti in guerra aperta,

– ricerca della verità e della giustizia per abbattere la menzogna che cancella le responsabilità e per avviare la possibilità di una narrazione condivisa in vista della costruzione di una pace duratura,

– riconoscimento l’una dell’altra, come base di un “lavorare insieme” che mette in comune conoscenze, riflessioni, emozioni.

L’orizzonte di senso, nel quale si iscrive il loro agire, il loro pensare e la decisione di dare vita al Tribunale delle Donne, è il femminismo che ha insegnato a coniugare il personale con il politico e a “partire sempre da sé” nell’analisi dei problemi. Essere femminista significa, infatti:

– cercare di modificare le relazioni di potere che limitano la mia vita e quella degli altri,

– trasformare la politica in forza positiva di cambiamento,

– alleggerire il peso portato dalle donne, a causa della violenza del patriarcato nelle sue molteplici sfaccettature, dandosi reciproco sostegno,

– cercare insieme guarigione, consapevolezza, riparazione, superando la vergogna e la disistima che annichilisce le donne abusate,

– trasformare la vittima in “soggetto responsabile”, capace di dare sostegno e conforto a chi è ancora rinchiuso nel suo muto dolore e di porsi poi al suo fianco sulla via della liberazione che le permetterà di diventare, a sua volta, soggetto che riesce a prendere la parola e ad alzare la voce, rompendo così il silenzio che aveva gettato la sua vita e quella di molte altre donne nell’abisso di una umiliante insignificanza.

È indubbiamente questa etica femminista che ha permesso alle associazioni di donne della ex Jugoslavia di costruire e di mantenere, attraverso i lunghi anni del conflitto, una relazione empatica, caratterizzata da quella capacità di “sentire insieme”, di “pensare insieme”, di “resistere insieme” che costituisce la matrice profonda dello spirito di sorellanza, di solidarietà, di amicizia.

Il progetto delle Donne dei Balcani prosegue l’esperienza del Tribunale mondiale delle donne, che opera dal 1993. Nel corso del tempo sono state convocate, in diversi paesi, donne di tutto il mondo per affrontare insieme tematiche specifiche (la guerra, la povertà, la violenza sulle donne, gli armamenti, i crimini di guerra degli Stati Uniti) che ciascuna sviluppava, portando la sua testimonianza di vittima e il suo contributo di riflessione.

Esso nasce sul fallimento della giustizia ordinaria e per volontà della società civile, nella fattispecie delle donne, che respingono la visione corrente che vuole che anche la costruzione della pace sia di esclusivo dominio del potere maschile.

Sappiamo, purtroppo, che quel potere prova un fascino irresistibile per la guerra, al punto da inventarsi persino le “guerre umanitarie” pur di continuare ad usare le armi contro il nemico del momento, costruito appositamente attraverso il martellamento di una vile propaganda, fatta di menzogne e finalizzata alla militarizzazione delle menti. La storia dimostra, inoltre, che la pace, pensata e ratificata dal potere maschile, è sempre instabile perché non si accompagna mai alla giustizia, ma si limita a imporre gli interessi del più forte, preparando così a guerre future.

Nel Tribunale delle donne non vi sono né giudici, né pubblica accusa, né condannati; la scena è interamente occupata dalle donne che raccontano, in prima persona, la loro esperienza di dolore, portando alla luce la verità dei fatti, custoditi nella memoria, testimoniati dalle ferite lasciate sui corpi e dal vuoto affettivo scavato dalla perdita delle persone con cui si è condiviso la vita e che si sono tanto amate.

In un luogo che intende offrire spazi di dignità, di ascolto e di riconoscimento, anche il racconto assume un andamento particolare: trascende lo schema della narrazione polarizzante, basato sull’opposizione aggressione/vittimizzazione e cerca invece – come precisa Corinne Kumar, coordinatrice internazionale del suddetto Tribunale – di intrecciare la realtà oggettiva degli eventi con le testimonianze soggettive delle donne che li hanno vissuti. L’obiettivo di questo stile narrativo è quello di promuovere sia una comprensione approfondita del contesto in cui è scoppiato il conflitto e delle radici ideologiche che hanno scatenato la guerra, sia l’elaborazione di una nozione di giustizia riparativa capace di garantire una pace duratura e un futuro dove la riconciliazione diventa impegno quotidiano di tutte le parti a ricostruire il legame interrotto, nel rispetto delle diversità, nel reciproco riconoscimento, nell’assunzione delle responsabilità in merito ai fatti accaduti, nella volontà, illuminata dall’etica non violenta della verità, di comprendersi e di perdonarsi.

Il Tribunale ospita anche una giuria di persone sagge che, con le loro osservazioni, i loro commenti, la condivisione della loro esperienza, aiuteranno tutte e tutti ad incamminarsi sulla giusta strada per recuperare una nozione di saggezza collettiva e di giustizia come virtù morale che salva e libera dall’egoistica spinta alla prevaricazione. Nel calore del contesto relazionale, diventerà allora possibile immaginare e praticare un nuovo modo di fare politica, capace di valorizzare la vita, il femminile, di prendersi cura della vulnerabilità e della fragilità che caratterizzano la condizione umana e impegnano, tutte e tutti, a rendere prezioso ogni attimo della nostra esistenza.

Le donne bosniache, croate, serbe, macedoni, kosovare apriranno il Tribunale delle donne della ex Jugoslavia con queste premesse.

Raccontando la tragedia che ha distrutto il loro paese, frantumandolo in staterelli etnicamente “puliti”, riattraverseranno il loro immenso dolore, ma testimonieranno anche la forza della loro tenace resistenza al male, rappresentato dal nazionalismo, dal militarismo, dalla guerra, dal genocidio, dallo stupro etnico sui corpi delle donne; faranno cioè un percorso, dentro la loro esperienza personale e dentro la follia nichilista che ha sconvolto le loro comunità, imponendosi come protagoniste del processo di pace, fondato sulla verità e la giustizia.

Tutte le donne e gli uomini, che sognano e operano per un futuro libero dalle guerre, saranno indubbiamente al loro fianco e le sosterranno con tanto amore e infinita gratitudine.

Nel cammino, fatto insieme, per arrivare ad istituire il Tribunale, le donne della ex Jugoslavia si sono continuamente contrapposte alla durezza del potere maschile, mostrando come si esercita il cosiddetto “potere soffice”, che appartiene alle donne e si sviluppa nella cooperazione. Esso si esprime come capacità di resistere alla violenza e di avviare il cambiamento, basandosi unicamente: sull’autorità morale delle singole persone che si sono assunte la responsabilità di togliere il velo della menzogna, sulla forza di una conoscenza che attraversa il corpo e accoglie al proprio interno la chiarezza del pensiero e il calore dell’emozione, sulla saggezza che accompagna i gesti della cura, sulla gentilezza di chi, ritrovando, insieme all’altra, la pienezza della propria umanità, diventa capace di curare le proprie ferite e di comprendere anche il dolore dell’altra, avviando così un comune processo di guarigione.

Il Tribunale delle donne della ex Jugoslavia racconterà, dunque, un’altra storia, una storia sottratta alla manipolazione dei nazionalisti, una storia che sarà espressione di una memoria condivisa e fonte di un’autentica riconciliazione.

L’orizzonte del Tribunale è indubbiamente il futuro e i suoi destinatari sono le giovani generazioni che, grazie alla verità narrata in prima persona da testimoni credibili, potranno incamminarsi sulla strada del cambiamento e della pace da protagonisti consapevoli e finalmente liberi dal peso e dalla manipolazione del passato.

Novembre 2012

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