17. Antifascismo nonviolento – Pietro Polito

Sono i libri che indicano
i titoli di merito
e i mezzi di orientamento
nei momenti difficili
di un popolo.

Aldo Capitini

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Come tra gli altri ha suggerito Aldo Capitini, occorre distinguere un primo e un secondo antifascismo. Il primo antifascismo è stato quello di chi contrastò il fascismo al suo sorgere (Salvemini, Turati, Matteotti, Amendola, Sturzo, Gobetti, Rosselli, Gramsci), il secondo quello che iniziò a profilarsi a partire dal 1937 con la guerra d’Etiopia. Il secondo antifascismo si formò ignorando il primo, per la estrema difficoltà di ritrovare quei periodici come “Rivoluzione Liberale”, “Conscientia”, “Non mollare”, “Italia libera”, o di procurarsi i “Quaderni di Giustizia e Libertà”. Nulla poteva sapersi di ciò che Gramsci pensava in prigione.

Le fonti d’ispirazione del secondo antifascismo sono state, tra l’altro, i libri di Croce, quelli di Piero Martinetti, il Capitale di Marx nella riduzione di Carlo Cafiero, gli Elementi di un’esperienza religiosa di Capitini, un libro pubblicato nel ’37 presso l’editore Laterza, per interessamento di Croce. Nell’introduzione all’edizione successiva del 1947 Capitini scrive: “Sono i libri che indicano i titoli di merito e i mezzi di orientamento nei momenti difficili di un popolo”.

Ebbene, fatte le debite proporzioni, gli Elementi di un’esperienza religiosa svolsero una funzione analoga alla Storia del secolo decimo nono di Croce: furono effettivamente un libro per i giovani, cioè per coloro che “non tanto per il periodo fascista, ma per tutta la vita dovevano imparare l’importanza del decidere”. Come ha ben detto Fabrizio Truini gli Elementi sono “un libro antifascista”, che “andava ben oltre”. D’altra parte lo stesso Capitini, ancora nell’introduzione all’edizione del 1947, osserva che il libro “portava una persuasione interiore che era una antitesi del fascismo”, ma che “fu questo ed altro, e appunto perché doveva valere fuori della lotta antifascista”.

Gli Elementi contengono in nuce le linee principali di una “filosofia della persuasione” fondata sui principi della nonviolenza, della non menzogna e della non collaborazione. Il libro, articolato in quattro parti, prende in considerazione il problema della nonviolenza, inteso come problema della scelta dei mezzi; il problema religioso, risolto nel tema esistenzialistico della finitezza umana; il problema dell’azione politica che, per Capitini, è sempre orientata dai due precetti morali della non menzogna e della non uccisione degli esseri umani e degli animali (il libro contiene una difesa dell’ideale vegetariano); il problema della critica del capitalismo e del collettivismo.

La posizione di Capitini è anticipatrice e preveggente. Secondo lui, capitalismo e collettivismo sono entrambe soluzioni inadeguate anche se diverso è l’atteggiamento nei confronti dell’uno e dell’altro sistema: Capitini è certo un anticapitalista ma, se non è un comunista, è un postcomunista. A suo giudizio, mentre nel capitalismo l’uomo viene ridotto a una merce (primato dell’economia), nel comunismo è considerato una cosa (primato della politica): “Il comunismo – scrive – anonimizza il mondo della creazione dei valori; il capitalismo agisce con prepotenza nel mondo delle possibilità, manomettendole” Che fare? Ecco la risposta: “L’uomo non può essere considerato come cosa; se ci si ribella al capitalismo perché lo considera come una merce ci si deve ribellare al politicismo che lo considera come cosa”

A mio parere, gli Elementi sono da considerare un “breviario di antifascismo” e insieme il primo manifesto della nonviolenza nella storia della cultura in Italia. Anzi, sono un libro antifascista in quanto nonviolento. Proprio nella prima pagina si legge: “oggi più che mai non è possibile […] rifiutarsi di prendere un atteggiamento, di impegnarsi per un’idea”. Capitini assume l’atteggiamento nonviolento e s’impegna per l’idea della nonviolenza, contro il fascismo trionfante, considerato l’esatto contrario di una realtà liberata dalla violenza.

Come si capirà meglio in seguito, si può scorgere una prova del nesso tra antifascismo e nonviolenza, in contrapposizione a quello tra fascismo e violenza, nella polemica condotta da Capitini contro Georges Sorel, l’autore delle Riflessioni sulla violenza, assunto dal fascismo come uno dei suoi padri spirituali. Uno dei vari modi di annettere il sorelismo al fascismo è la comunanza dei loro nemici, gli intellettuali, la borghesia, la democrazia, lo stato liberale, che porta i fascisti e i seguaci di Sorel a perseguire di fatto lo stesso fine: “instaurare governi autoritari e fortissimi”.

Gli Elementi sono un libro che si inserisce nella teoria della “crisi della civiltà”, di cui l’esempio forse più significativo è la Crisi della civiltà di Johan Huizinga. Non so se Capitini abbia letto questo libro, ma le coincidenze colpiscono. Il classico di Huizinga, uscito in Olanda nel 1935, viene tradotto da Barbara Allason, l’autrice delle Memorie di un antifascista, presumibilmente nel 1936 ed è pubblicato da Einaudi nel 1937. Il bersaglio polemico di Huizinga è la teoria dell’amico-nemico di Carl Schmitt, ma anche Huizinga considera Sorel “il padre spirituale degli odierni regimi totalitari”.

Gli Elementi nascono “dalla consapevolezza di una crisi radicale dei valori, di un clima contrassegnato da segnali di catastrofe imminente” (R. Ranieri, Un’esperienza diversa dell’antifascismo:l’opposizione religiosa di Aldo Capitini, in “Il Ponte”, XLII, 1, gennaio-febbraio 1986, p. 116). E, per Capitini, il segnale più evidente della crisi della civiltà è la considerazione diffusa della violenza non più come un “errore” bensì come un valore.

Non a caso il libro di Capitini, giustamente considerato in quegli anni e in quelli successivi da più di una generazione uno straordinario libro di formazione, si apre con l’affermazione che la violenza è un errore: al pari della violenza, il fascismo è un errore morale e sociale.

Nelle conclusioni Capitini reagisce all’idea soreliana, una delle più deliranti della peggiore retorica soreliana (ma di Sorel non si può dare una lettura esclusivamente in chiave retorica), che “la violenza non solo può assicurare la rivoluzione futura ma appare anche come il solo mezzo di cui dispongono le nazioni europee, abbrutite dall’umanitarismo, per ritrovare la loro antica vigoria”. L’“insegnamento sorelliano” da Capitini viene capovolto: se la violenza è l’errore, la nonviolenza è il valore.

Giova rileggere e riproporre uno dei brani più incisivi degli Elementi di un’esperienza religiosa: “Da violenza nasce violenza, e si diffonde una diseducazione generale: giungono tempi tragici, e ai violenti di ogni specie che non vogliono ascoltare nulla, si oppone l’attestazione che dà qualche anima del valore della sua verità. […] Intorno al centro religioso possono disporsi tutte le forze per una costruzione che deve avere le sue radici nell’intimo, e può conservare il meglio del vecchio e anticipare attivamente il nuovo. Se non tutti resteranno poi fedeli alla nonviolenza, il più importante è che riconoscano che oggi questa è l’atmosfera centrale, che sola può attrarre uomini anche di convinzioni diverse a parlare tra di loro, a discutere, eliminare prevenzioni, studiare, preparare per domani”.

Il discorso non sarebbe completo se non si aggiungesse che Capitini rigetta tanto la violenza fascista quanto la violenza comnuista. Il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà auspicato da Marx si rivelerebbe contraddittorio e vano, come la storia ha dimostrato, se non fosse preceduto dal passaggio dal regno della violenza a quello della nonviolenza. Questo era per lui e rimane per noi “il varco attuale della storia”.

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