Un altro Iraq è possibile – Alessandro Ciquera

Ci sono sempre, in ogni situazione, dei gruppi che portano solidarietà a chi è perseguitato. Anche nelle zone occupate dall’Isis

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Mazen ha 22 anni, innanzitutto è un giovane. Lui è una delle forze del Social Forum Iracheno. Mi confida che la sua religione è sciita ma che questo non ha nulla a che fare con il suo stile di vita e con le relazioni personali. Le relazioni, dice, sono frutto di scelte e per noi non c’è differenza sostanziale tra le persone. “Siamo un solo popolo”.

Lo slogan più urlato in questi giorni è: “Iraq akar munken? Akar munken!” che significa: “Un altro Iraq è possibile? Certo che è possibile!”.

Hanno avuto luogo negli ultimi mesi molte manifestazioni popolari contro la corruzione, la violenza e la politica governativa che favorisce solo alcune caste tralasciando i bisogni della maggioranza della cittadinanza. Inclusi i bisogni primari: salute, istruzione, elettricità, casa e sicurezza.

Mazen si rende conto che, lui come altri, si trova in una fase storica del suo paese, una congiunzione di eventi in cui tutto sembra crollare su se stesso.

“Non è tutto bianco e nero”, scandisce con forza in Inglese, la lingua che ha studiato all’Università come traduttore e interprete a Baghdad. In questa città, (che nei secoli si è guadagnata il soprannome di Dar el Salam, ovvero Casa della Pace) c’è ancora vita, ed è qualcosa che non è così facile da spegnere. Come una lampada che risplende di una luce antica, temprata da secoli di cultura e progresso che hanno fatto da faro a tutta l’umanità. Ci sono delle forze che sostengono i giovani iracheni oggi, che sono meravigliosi per il coraggio e la forza che dimostrano.

“Gli hotel di lusso e la zona verde dei consolati qui sono più protetti di chiese e moschee, cosa può significare se non che della nostra vita non interessa niente a nessuno?” , le frasi di un giovane dottore conosciuto la sera mi rimbombano ancora nella testa come un eco lontano. Un eco che incide la carne per la sua durezza e la sua verità.

Come può in uno stesso luogo convivere tanta bellezza e tanta violenza mortifera? Una delle questioni che mi sorge è se in fondo non è il mondo che va al contrario, ma siamo noi che non ci rassegniamo al fatto che questa sia la normalità.

“I gruppi che compiono attentati vengono pagati in base a quante più persone uccidono, quando un gruppo sembra prevalere sugli altri ecco che intervengono nuovi finanziamenti, per riportare in auge questo equilibrio distruttivo”.

Mazen quando parla ha lo sguardo serio, il tono di voce e pacato e sembra quasi che scelga con cura parola per parola, come se niente degli attimi che sta vivendo dovesse andare sprecato. Ci tiene molto a dimostrarci che esistono lati del suo Paese che in pochi conoscono veramente dall’Europa, una nazione che è fatta anche di ristorantini e battelli sul Tigri, famiglie che si ritrovano alla fine della giornata lungo i corsi del fiume a fumare narghilè. La vita chiede sempre i suoi spazi, anche quando in un quartiere esplode una bomba la gente smette di frequentarlo magari per una settimana, poi lentamente si ricomincia.

Non so trovare un senso a queste situazioni, probabilmente non esiste nel significato vorrei io.

Osama è uno studente di biologia all’Università, fa parte del gruppo che con orgoglio ci accompagna a visitare la storica città di Babilonia, nell’attuale provincia di Hillah. Un viaggio rigenerante, dove le poche ombre che incontriamo sono i resti ancora visibili di un brutale attentato ad un posto di blocco della polizia, una violenza che ha tagliato decine di vite. A Babilonia scattiamo fotografie e ci aggiriamo tra le rovine di una civiltà antica e maestosa, che ha dato al Medio Oriente ed al mondo il primo scatto in avanti culturale in molte discipline. Durante questo tour intorno a noi percepivo un silenzio rassicurante, tra palme di dattero alte diversi metri e alberi dal nome sconosciuto, l’Eufrate scorre sereno. Comprendo il motivo per cui questa regione veniva annoverate tra le Meraviglie del Mondo. Osama salta da una zona del sito ad un’altra, visibilmente emozionato: “Questa è la nostra storia eppure neanche io ero riuscito a venire qui prima d’ora”. Racconta volentieri dei suoi sogni, del voler studiare in Europa in un master specialistico, del desiderio di vedere il suo paese trovare una via di uscita da questo angolo in qui è stato spinto.

Abbas è di famiglia irachena ma è nato in Libia ed è vissuto lì per 24 anni, ha partecipato come attivista alla rivoluzione libica contro Gheddafi dalla città di Bengasi. Il suo ruolo era documentare e filmare quello che vedeva. Sua madre era una insegnante di Scienze Politiche all’Università Libica, ha viaggiato in diverse città del paese lungo la costa e non. Gli ripeteva spesso che queste rivoluzioni nei paesi arabi sarebbero diventate nel tempo un fenomeno che avrebbe riscritto la storia del Medio Oriente, che avrebbero distrutto ordini che andavano avanti da un secolo.

Abbas suonava la chitarra: brani rock da Europa e Stati Uniti, musica country e pop. Si esibiva nei locali, possiede un volto tondo e un profilo panciuto, un filo di barba gli copre la guancia. Parla spesso con il sorriso sulle labbra ed è un piacere starlo a sentire, nonostante quello che narra della sua vita.

Gli islamisti sunniti gli hanno incendiato la farmacia in Libia su cui aveva investito 200.000 dollari, ha perso praticamente tutto quello che aveva, l’unica sua colpa essere di credo sciita, imperdonabile per i fanatici che lo hanno attaccato. La chitarra gli è stata spezzata perché proibita e da quel momento ha perso il gusto di suonare.

In seguito a queste minacce Abbas è tornato in Iraq con sua madre; ha avuto anche dei problemi connessi che lo hanno portato a perdere dei legami importanti, nonostante questa lunga strada percorsa e i numerosi sassi in cui è dovuto inciampare oggi sfodera battute verso i suoi interlocutori.

Emad è un ragazzone dal sorriso contagioso, una delle prime particolarità che mi colpisce di lui è la stretta forte e rassicurante dell’abbraccio con cui ti cinge ogni volta che ti incontra. Lui svolge servizio con la Mezzaluna Rossa irachena-sezione di Baghdad, una delle più calde sullo scenario nazionale. Si occupa di formare i formatori dei nuovi volontari; è stato attivo e solidale con la popolazione colpita dalla guerra contro lo Stato Islamico nella regione di Falluja. Lavora insieme a Mazen, a Osama e a tanti altri giovani coraggiosi.

“I campi profughi in quella zona sono in condizioni disperate, la maggioranza di quelli che abbiamo visitato hanno carenza di cibo e completa assenza di acqua potabile ed energia elettrica. Sono continuamente sottoposti alla violenza del conflitto, un pomeriggio ero seduto a riposarmi su una panca davanti ad un locale ed un colpo di mortaio è caduto a 100 metri da me”. Gli chiedo se non ha mai paura, perché io a volte ne ho, mi risponde sicuro mentre tira una boccata di narghilè: “Paura? No, quello mai”. Ha una propensione naturale al rapporto con i bambini ed è stato mesi a lavorare nelle regioni del nord Iraq: sia tra i cristiani di Erbil sia con gli yezidi a Duhok.

Questo giovane uomo dal sorriso contagioso è di tradizione sunnita, ma poco importa, mette a disposizione la sua incolumità fisica e la sua forza non indifferente a tutti coloro che riesce a raggiungere al di là dell’appartenenza etnica o religiosa.

Questa immagine è il regalo più prezioso che mi hanno fatto le persone che ho conosciuto e che mi hanno onorato della loro amicizia: l’immagine di relazioni che vanno al di là delle barriere che la politica Irachena e la società Occidentale vuole imporre loro. “Siamo persone che provengono da tradizioni diverse ma ci conosciamo e ci stimiamo per quello che siamo, non per fattori esterni”.

Una rottura delle regole del gioco che manda avanti questo conflitto: “Siamo tutti iracheni, veniamo tutti dalla stessa terra”. Sorrido al pensare al modo in cui siamo abituati in certi dibattiti pubblici a catalogare le persone in Italia: quello è del sud o del nord, quello è straniero, quello è zingaro.

A Baghdad, come in altre città, si rischia di perdere tutto in pochi attimi quotidianamente. Cammini con la consapevolezza che la lancetta ruota e non sai se la prossima vittima della violenza estremistica potresti essere tu o un tuo amico, vicino o famigliare.

Si rischia andando a fare la spesa al mercato o andando in moschea per la preghiera, andando in manifestazione contro la corruzione del governo o all’università: continuare a vivere la propria vita diventa quindi una ribellione nei confronti di quello che si è costretti a temere, una reazione del genere: “Se deve essere così allora io mi comporto all’esatto contrario”.

Wassim lavora come gestore in un bar all’interno del campo profughi cristiano di Karrada, molte di questa famiglie provengono dalla provincia di Mosul e hanno dovuto abbandonare le loro case in seguito alla occupazione delle loro terre e delle case da parte dello Stato Islamico.

Dipendesse da lui, dice, andrebbe in Europa anche domani mattina. Il problema sono le risorse economiche e i documenti, ha il volto temprato dalla lunga camminata che ha compiuto nella notte del 6 Agosto 2014, insieme ad altre decine di migliaia di persone in fuga dai miliziani neri. Ha dentro di sé un universo di emozioni che non è semplice tradurre in parole, sa cosa può significare camminare per la vita.

Una cara amica e compagna di viaggio, in questi giorni intensi mi ha scritto un messaggio: “Leggendo e sentendo i fatti di Ventimiglia mi si è così riaccesa quella fiamma che chiede giustizia, ed è così profonda e radicata in me come posso non ascoltarla? Non voglio non ascoltarla! A sentire di Ventimiglia ma anche pensando a tutti i migranti che si trovano nelle foreste balcaniche, odiando i confini, con il freddo che arriva. E poi a tutti coloro che ancora sono al di là dal mare, come lì con te. Mi piace ciò che mi circonda, il mio lavoro, la casa…è tutto Faticosamente Bello. Faticosamente, per me ancora di più? Non riesco a vedere quanto anche qui in Italia ogni giorno possiamo salvare vite, come ci siano persone che lo fanno? O solo la spinta all’andare alla fonte della violenza, alle priorità è più forte?”

Sono questioni che in questo periodo mi hanno fatto riflettere come spine nella carne, e ancora non ho la risposta: se non nella certezza della corresponsabilità del nostro vivere.

“Quando tornerai in Italia, a casa tua, non dimenticarti di noi”. Questa è una richiesta che ritorna spesso come una sola voce che rimbomba per le strade: non dimenticatevi di noi. Il fare gli altri partecipi di una sofferenza ingiusta e che fa gridare le pietre.

Se esiste un Dio, l’unica preghiera che gli farei in questo momento è quella di lasciare aperte le porte che si sono schiuse in questi giorni. Fino a quando il cuore avrà la forza di battere per tenerle spalancate.

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