L’ideale di una pace giusta

Enrico Peyretti

Questo scritto di Roberto Filippini è davvero serio perché accoglie la pesante serietà del problema, alla quale non si può sfuggire. Volere la pace giusta non può essere un volo nell’ideale, ma l’ideale della pace non può neppure essere un continuo rinvio restando chiusi nella durezza del reale.

Non uccidere, ma difendere chi sta per venire ucciso. Questo incrocio di due doveri, che sono lo stesso dovere nelle sue due facce, è la croce della pace, che il cristiano – ma ogni persona sensibile al valore della vita – incontra sulla sua strada, e non deve evitare.

Come ogni brancolante ma appassionato cercatore della pace giusta, non quella imposta con la vittoria – la “pax romana” non è pace, perché anche il dominio statico è violenza – , conosco l’accusa facile, eppure da ascoltare: sei un illuso, sei fuori dalla realtà, anzi tradisci il dovere di difendere la vita e il diritto minacciati e offesi, e di difenderli in modo efficace.

Il punto d’appoggio della trattazione di Filippini è il Discorso della Montagna di Gesù. Che cosa dice ai discepoli, ma pure ad ogni cuore sensibile, questo annuncio essenziale e questo appello maggiore di Gesù? Dice che ci è promessa una riuscita della vita nel donare, nel portare i pesi dell’esistenza, e non c’è una riuscita nel prendere e nell’imporsi. È la rivelazione di un di più della vita rispetto a ciò che il mondo chiuso in sé riesce a realizzare e considera un successo, ma al troppo caro prezzo di divisioni, ingiustizie, dolori inflitti, offese alla dignità umana, in realtà un fallimento della vita. Questa è la vera illusione del mondo, non della speranza.

Il Discorso della Montagna, centro alto del vangelo, ricevuto e creduto dai cristiani, implica la pace come rinuncia alla violenza e come attuazione dell’amore per tutti, ma la durezza e difficoltà dell’esistenza coi suoi conflitti ha spinto molto spesso i cristiani a restare e tornare nella logica del “mondo”. E questo non solo nelle pratiche, ma anche nel pensiero che giustifica la necessità della violenza. Come possiamo noi cristiani annunciare al mondo umano la promessa di Gesù, se ne testimoniamo il tradimento e l’oblio?

La ricerca della pace non è solo per un miglioramento pratico dell’esistenza e una diminuzione dei dolori, ma ci mette, come cristiani, totalmente in gioco: noi non portiamo una speranza vera, noi non abbiamo fede, noi non accogliamo lo Spirito del Dio vivente, se non crediamo attivamente nella possibilità della pace giusta. Noi, chiese cristiane, singoli discepoli, siamo giudicati da Dio e dall’umanità, perché abbiamo creduto poco, crediamo poco, abbiamo una fede sterile, se la pace resta fuori dalla vita e dalla storia.

Credere con fiducia in una nuova vita oltre la morte – se questo è essere cristiani, discepoli del Risorto – implica negare fede all’impero della morte, alla razionalità necrofila e vittimaria, per cui un conflitto duro, un’alternativa radicale, si risolve solo con la distruzione di uno dei due, con la morte fatta regina dell’esistenza. Se credi nella guerra, nell’ostilità, nella separazione delle vite e delle civiltà, nelle ragioni della forza bruta, nel mors tua vita mea, credi che la morte è tutto. Non c’è altro dio. Così, l’esistenza è nulla, la vita è nulla perché destinata al nulla. Se la mia ragione, il mio diritto, si affermano con la morte, io sono una cosa morta. La vita non vale, se non per un momento, nella volontà di potenza, nel dominio sopra un altro vivente.

Però, attenzione, oneste persone, amanti dell’umanità, interpretano l’esistenza come chiusa dalla morte naturale, e seguono una sincera “etica del finito”, senza ridurre tutto nella volontà di potenza, senza disconoscere un valore prezioso, intoccabile, di questa esistenza mortale, senza cessare di difendere e amare la vita, pur destinata a sfumare. In ogni caso, una vittoria del dominio e della logica eliminatoria insidia radicalmente il significato dell’esistenza, svuota anche il provvisorio e destina tutto al nulla. La fede audace dei cristiani in una vita nuova, dataci dal Vivente, consiste del tutto nel fatto che il loro maestro, rifiutando la spada, ha accettato – con infinito coraggio nell’angoscia immensa, fedele al suo compito fino in fondo, a rischio di soccombere al nulla e di perdere il Padre suo, sua ragione di vita – ha accettato di sopportare la morte orrenda pur di non darla, ha accettato di non annullare neppure i negatori, di non opporre male al male. Questa vita ha reso così tanto vivo il coraggio vitale, che la morte più potente ne rimane sfibrata e vinta. Perciò riconosciamo Gesù vivo sopra la morte, e lo ascoltiamo dirci: «Io vivo, e voi vivrete» (Giovanni 14,19). Se credi nella risurrezione sei contro i poteri che danno la morte. Questa fede ci giudica. Su questa fede il mondo ha diritto di giudicarci, e, se siamo infedeli, di condannarci.

Infatti, la questione della pace è per noi anche questione teologica: quando gli esseri umani si colpiscono tra loro colpiscono Dio, che a loro si è legato. Questa vita fragile e mortale, facilmente fallibile, è preziosa per Dio, che ci prega e ci comanda, ci comanda e ci prega, come Oscar Romero nell’ultima omelia, costatagli la vita: «Vi supplico, vi prego, vi ordino» di non uccidere. Dio muore con noi, e vive con noi, affinché noi possiamo vivere. Dobbiamo continuamente ripensare Dio, comprendendo più intimamamente e più veramente la parola di sé che egli ci mette in cuore. Abbiamo persino pensato un Dio della morte, un tiranno arbitrario e punitore feroce, credendo csì di dargli grandezza mentre lo bestemmiavamo. Consiglio, per una sintesi, di leggere il capitolo 9, su Dio nonviolento, del ibro di Raniero La Valle, Chi sono io, Francesco?, che mostra la rivoluzione in corso anche su questo punto.

Eppure, chi ci giudica, ha davvero diritto di giudicarci? Coloro che si rassegnano facilmente al fatto che i conflitti – i quali, vissuti in positivo, potrebbero essere confronti plurali e passi di crescita – siano decisi dalla forza bruta e non dalla ragione comune, non dal dialogo e dalla mediazione dei rispettivi diritti; coloro che di questo fatto fanno una ideologia, una fatalità, una legge della storia, a cui rendono onore col glorificare la violenza militare e i suoi simboli arroganti, con l’identificare il diritto-dovere di difesa e la relativa politica soltanto nelle armi, e lo Stato nell’esercito quale suo simbolo più pieno (parata militare del 2 giugno, nella festa italiana meno armata che ci sia!); coloro che alle vittime della violenza bellica rendono l’ipocrita omaggio dei monumenti, dopo avere usato le loro vite come strumenti di morte, offerti alla morte; ebbene tutti costoro – dobbiamo dirlo con umile doveroso orgoglio! – non hanno diritto di criticare e irridere la nostra speranza sempre sospesa e sempre rinata.

Noi stiamo lavorando in questa faticosa speranza anche per loro, disperati spegnitori di speranza. Siamo noi che osiamo umilmente accusare loro, perché rinunciare alla speranza attiva è servire la morte, è essere già morti. Anche per i mortiferi affossatori sistematici della pace, noi speriamo la vita. Anche per i fabbricanti degli strumenti più micidiali di morte, e per i mercanti che, per maledetto profitto, esigono che la guerra divampi e uccida vite e distrugga le case della vita e la terra della vita, per far consumare i loro prodotti che sparano morte e succhiano sangue, anche per costoro noi lavoriamo.

Ci sia consentito, mentre ci esaminiamo seriamente su questa croce della pace, accusare con le accuse di Gesù chi si arricchisce e fa mestiere della guerra. Non è con loro la giustizia: «La giustizia scappa dal campo dei vincitori» (Simone Weil, Quaderni III, p. 158, citato in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Ediz. Cultura della Pace, Fiesole 1992, p. 137). Chi fa la guerra, chi la prepara, fa la guerra alla giustizia. Il tuo nemico è chi ti guida alla guerra, diceva con semplice verità Brecht.

Però, la ricerca per la pace e la nonviolenza attiva è anti-armismo, porta il simbolo del fucile spezzato, ma non può essere identificata con l’antimilitarismo. È programma costruttivo, e non distruttivo. I militari come persone umane, impegnati come tutti noi nelle difficoltà della vita, non sono i nostri nemici. Nemica è la cultura di guerra: la guerra che, da triste caduta, diventa istituzione, idolo antropofago, regina della storia. La violenza che uccide e distrugge è soltanto l’effetto della violenza strutturale, sistemica, e serve a difendere questo dominio offensivo. Ma ancora più radicale e devastante è l’idea instillata e installata nelle menti, il dogma per cui diseguaglianza, dominio, morte sopra la vita, sono una legge insuperabile. Chi ribadisce questa cultura di morte, è lui l’omicida impunito. Noi, che ci sentiamo colpevoli di tiepidezza e contraddizioni riguardo alla pace, accusiamo chi nutre questa radice interiore del male. Non vogliamo accusare di malvagità nessuna persona, ma malvagio è questo pensiero che imprigiona le persone, che lega le menti come schiave, ed è fonte di infiniti dolori e offese, fallimento dell’umanità sulla terra.

Ma soprattutto ora, con l’aiuto dell’Autore di questo studio coraggioso nella verità, noi assumiamo la nostra contraddizione. Facciamo questa penitenza che, nella fede, è base di nuovo coraggio e volontà. La confessata contraddizione dei cristiani, più che una facile soluzione, più che una rassegnazione nella sua insolubilità, a mio parere richiede cammino, movimento, con una direzione chiara, che è quella evangelica: la pace è dono e promessa, perciò è impegno non destinato a fallire. Proprio l’assunzione del nostro limite storico, proprio il fatto innegabile (anche per Gandhi, anche per Bonhoeffer) che in certe tragiche situazioni estreme una violenza minore può evitare una violenza maggiore, ci rende umili nella speranza, ma ci sprona ancora di più in avanti, per prevenire, evitare, modificare quelle situazioni, trasformandole verso modi non distruttivi, sempre meno distruttivi, di gestire i conflitti umani. Perché conflitto, contro l’uso equivoco, non è sinonimo di guerra, ma vuol dire le differenze che possono arricchire la vita invece di appiattirla nella vittoria cieca.

Il più micidiale conflitto violento e negatore è l’odio religioso: la propria arma divinizzata, che trascina Dio, un dio fatto strumento assoluto, contro altri figli suoi. Uno dei passi di pace più necessari urgenti e costruttivi è il dialogo e il riconoscimento tra tutte le religioni, tra tutti i buoni tentativi che l’umanità ha fatto per dare senso alla vita, cogliendo tracce di luce. Il dialogo pacifico e fine nulla toglie e molto aggiunge al valore proprio e prezioso di ogni via spirituale e di ogni luce di verità. Anche su questo punto il libro del nostro Autore propone prospettive di valore: qualcuno potrà stupirsi nel sentire in Ratzinger echi di pnsieri di Gandhi e di Panikkar. Questo lavoro di pace intgerreligiosa è ampio, lungo, faticoso, chiede aperture interiori e incontra anche feroci ostacoli, ma dà respiro alla speranza.

Tra l’utopismo astratto e irresponsabile (che non è l’utopia intelligente), e il realismo triste e fermo, c’è il cammino. Il cammino non è volo e non è pigrizia inerte. Camminare è amore del bene. Il bene vero viene incontro alla nostra umanità. Qualcuno ci prova, ma è difficile e forse impossibile fare un bilancio della storia, se cioè cresce la guerra o la pace. Non importa. Anche al bilancio possiamo rinunciare, come all’avere tutta la ragione. Non possiamo rinunciare a camminare. E il cammino è la storia e il pensiero della nonviolenza, che è realtà vissuta e sperimentata, sebbene poco conosciuta, anche occultata, perciò poco preparata e organizzata. Il lavoro dell’Autore ha il merito raro di dare questo riconoscimento alla teoria e alla prassi della nonviolenza.

Introduzione, intitolata “La croce della pace”, al libro di Roberto Filippini, “Il vangelo della pace” Ed. Pazzini.

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