Quando Google ha incontrato Wikileaks

Nanni Salio

cop_Julian Assange, Quando Google ha incontrato WikileaksJulian Assange, Quando Google ha incontrato Wikileaks, Stampa Alternativa, Viterbo 2015, pp. 175, euro 16

Libro inquietante, che rivela le strutture di potere che tentano di dominare il mondo mediante il tecnofascismo, creando l’impero della menzogna, l’antitesi della non-menzogna di cui parla Aldo Capitini a proposito della nonviolenza.

Il libro è il resoconto, registrato e sbobinato, dell’incontro tra Julian Assange e Eric Scmidt, presidente di Google, e Jared Cohen, direttore di Google Ideas, avvenuto nel 2011 a Ellingham Hall, in una casa nel cuore dell’Inghilterra di proprietà di un sostenitore di Wikileaks in cui Assange è rimasto confinato agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, prima dell’asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, nel 2012.

Nel capitolo introduttivo, “Al di là del bene e del «non fare il male»”, Assange descrive le modalità con cui è nato l’incontro dicendo: “Mi divertiva l’idea che sarebbe stata la montagna ad andare da Maometto. Ma è stato solo molto tempo dopo la partenza di Schmidt e dei suoi accompagnatori che ho capito chi era venuto veramente a farmi visita”. (p. 13)

Nel corso della conversazione vengono affrontati molti aspetti tecnici relativi all’uso dei sistemi informatici che probabilmente non sono noti alla maggior parte del pubblico, ma un apparato molto ricco di note permette di colmare in parte queste lacune.

Ma che cos’è Google? La descrizione che ne dà Assange è quanto mai preoccupante: “Tutto fa ritenere che i capi di Google credano veramente alla forza civilizzatrice di grandi imprese multinazionali illuminate e che vedano la propria missione in continuità col progetto di trasformazione del mondo che meglio risponde alle esigenze della ‘superpotenza benevola’. Pur elogiando le virtù dell’apertura mentale, rimangono ciechi davanti a qualsiasi prospettiva che metta in discussione il dogma eccezionalista che è al centro della politica estera americana. E’ questa l’impenetrabile banalità del «don’t be evil». Sono convinti di essere dalla parte dei buoni. Ed è proprio questo il problema.”

D’altronde, questa è una strategia messa a punto per controllare e condizionare la società civile americana. “Dalla fine degli anni settanta, come minimo, le organizzazioni storiche, come le chiese e i sindacati, hanno dovuto ripiegare davanti all’attacco dello statalismo mercatista, che ha trasformato la ‘società civile’ in un mercato senza regole… Negli utlimi quarant’anni si è assistito a una proliferazione di think tank e ONG politiche il cui vero scopo, al di là delle chiacchiere, è sostenere certi programmi politici per conto terzi.” (p. 26) La prova più significativa di questa strategia sono le cosiddette “rivoluzioni colorate” con cui gli Stati Uniti hanno cercato di destabilizzare quei paesi che non erano ancora pienamente sotto il loro controllo, non ultima l’Ucraina, stravolgendo a proprio favore tecniche e metodi della lotta nonviolenta.

Nel corso dell’intervista emergono con chiareza i ruoli perversi dei servizi segreti, del controllo e della manipolazione dell’informazione, in una misura che fa impallidire i sistemi totalitari più brutali. Per smascherare questi sistemi di spionaggio e nel contempo difendersi per evitare di fare la fine di Chelsea Manning, Assange, come altri whistelblowers (spifferatori), tra cui Edward Snowden hanno elaborato efficaci tecniche di crittografia. Ma questo non basta e debbono fare attenzione agli “infliltrati” con cui i servizi segreti cercano di controllare la loro attività.

E’ questo un tema che Assange aveva già trattato in un libro precedente, “Internet è il nemico” (Feltrinelli, Milano 2013) che svela l’altra faccia, quella pericolosa, di una tecnologia che spesso molto superficialmente viene descritta come potenzialmente liberatoria.

A un certo punto dell’intervista, Assange fa una considerazione che merita di essere citata per intero, perché permette di capire che cos’è realmente il complesso militare-industriale statunitense:

“Dopo aver messo in imbarazzo la classe militare e diplomatica statunitense, ne abbiamo subito il pesante contrattacco. Si tratta di gruppi assai potenti e influenti, che vanno ben oltre il vertice della Casa Bianca e non sono composti solo da qualche generale, bensì da un’ampia fascia della popolazione che trae profitto dal sistema a cui dà vita. Qualcosa che abbraccia fino a un terzo degli abitanti degli USA, da Chelsea Clinton fino a chi vive nei bassifondi di San Antonio, Texas e il cui fratello è schierato con le truppe in Iraq. Nel 2010 negli Stati Uniti erano quasi 900.000 le persone munite di autorizzazione all’accesso a informazioni top-secret, più altri due milioni e mezzo a quelle riservate (salite a 5, 1 milioni nel 2014). Considerando gli ultimi vent’anni, gli individui con accesso a informazioni riservate hanno raggiunto la cifra totale di 15 milioni. E prendendo in considerazione le loro famiglie, gli amici e i colleghi stretti, si arriva a qualcosa come il 30 per cento della popolazione USA in qualche modo legata a questa struttura ideologica e al sistema clientelare.” (p. 105).

L’importante ruolo svolto da Assange e dagli altri whistelblowers viene riassunto da Johan Galtung in cinque punti essenziali:

  1. Le fughe di notizie non riguardano “lo spifferamento” ma una lotta di disobbedienza civile nonviolenta contro immani mali sociali.
  2. Basilare non è il nodo di attenzione mediatico-politico su Assange-Manning-Snowden, ma su ciò che essi hanno rivelato.
  3. È stata svelata la diplomazia in generale, non solo quella USA.
  4. Gli alleati USA si adeguano per timore, non per consenso.
  5. Ognuno, e inoltre i media, può accelerare i processi.

I whistelblowers sono oggi i nuovi obiettori di coscienza di cui l’umanità ha bisogno per affrontare gli immani problemi che si presentano, dalla corsa al suicidio nucleare allo sterminio per fame alla totale distruzione ambientale provocata dall’innescarsi del cambiamento climatico globale.

Come ricorda Stefania Maurizi nella Prefazione, “Perché Julian Assange abbia scelto di usare tanta determinazione e talento nell’imbarcarsi in un’impresa rischiosa come Wikileaks, anziché per fare soldi creando un’impresa hi-tech nella Silicon Valley, lo ha spiegato efficacemente ai reporter del settimanale tedesco Der Spiegel: «Si vive una sola volta, quindi siamo obbligati a a fare buon uso del tempo che abbiamo e a fare qualcosa che sia significativo e soddisfacente. E’ il mio temperamento. Mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili. Mi piace fare a pezzi i bastardi»”. (p.9)

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