Per riuscire i movimenti devono superare la tensione fra emozione e razionalità

George Lakey

Quando si tratta di azione, siamo tirati fra due tendenze che sembrano compatibili ma in pratica sono spesso in tensione. Vogliamo che i nostri movimenti siano razionali – cioè, che definiscano bene le loro strategie, usino efficientemente le risorse, e restino agili. E però, d’altro canto, può darsi che si vogliano anche i prodotti dell’emozione: sperimentare solidarietà, far sì che l’empatia ci leghi a quelli che non stanno partecipando, e tenere sotto controllo la giusta rabbia che nasce nell’occuparsi dell’ingiustizia.

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Nel corso della mia vita i movimenti sociali si sono dedicati sempre più alla formazione per accrescere la loro curva d’apprendimento e rendere le proprie azioni più efficaci. Tuttavia, il desiderio dei movimenti di attingere alla forza sia della razionalità sia dell’emozione pone una sfida ai formatori stessi, influenzati dalla distorsione del ceto medio e dell’educazione tradizionale. Il ceto e l’accademia spingono i formatori a privilegiare la razionalità e ignorare la sorgente emotiva.

Fortunatamente, l’azione riafferma la necessità di entrambi gli elementi, e la formazione sta nell’imparare a reagire. La storia dei movimenti negli Stati Uniti mostra la tensione, e comincia con il movimento per i diritti civili degli anni 1960.

Il movimento per i diritti civili non risolse ciò per tutti

Il movimento per i diritti civili fece più conquiste di quante ne abbiano fatte finora gli attivisti di oggi, ma quella sua prassi non è una risposta completa per noi oggi. Io ero un formatore nel movimento per i diritti civili e ho assistito a un brillante uso del gioco di ruolo e altri strumenti esperienziali per preparare ad affrontare i segregazionisti bianchi e la polizia brutale. Tali strumenti erano d’aiuto nel fare affiorare emozioni come la paura e la rabbia e, normalizzandole, renderle più facili da gestire.

superare la tensione fra emozione e razionalità

By Steve Kaiser from Seattle, US – WTO protests, CC BY-SA 2.0, Link

Però l’uso positivo più completo dell’emozione fu nel Sud dove era più intensa la cultura della chiesa dei neri. I predicatori neri erano esperti nel mobilitare quella che chiamavano forza d’animo per la lotta nonviolenta, come si può vedere nel film “Selma.”

Quella tradizione non è così disponibile per i movimenti di oggi, e gli esperimenti del Comitato di Coordinamento degli Studenti Nonviolenti – SNCC – non hanno sviluppato un’alternativa integrata al modello dei predicatori. Dopo l’affievolirsi del movimento per i diritti civili, alcuni suoi membri si unirono ad altri per formare nel 1971 il Movimento per una Nuova Società – MNS (Movement for a New Society).

In esso, ai primordi, scoprimmo la “Pedagogia degli Oppressi”, un libro apri-pista del più noto iniziatore dell’educazione popolare, il brasiliano Paulo Freire. L’educazione popolare si schiera nella lotta di classe onorando la saggezza degli oppressi, assistendoli col dialogo a dare un nome alla propria esperienza, unire i puntini [in un contorno riconoscibile] e incoraggiando vicendevolmente a intraprendere l’azione. Tali strumenti rassicurano quelli cui è stato detto che non riescono a pensar bene, in parte col facilitatore che fa domande mostrando rispetto, e in parte con l’esperienza di pensare ad alta voce notando che altri del gruppo prestano attenzione.

I nostri formatori hanno utilizzato con entusiasmo l’approccio di Freire, riscontrando che suscitava effettivamente più appieno la razionalità di un gruppo. Quando il MNS combinò l’educazione popolare con la formazione all’azione nata nel movimento per i diritti civili, i nostri formatori divennero molto richiesti in giro per gli Stati Uniti e altrove. Il MNS aiutò il movimento contro l’energia nucleare a ottenere la sua memorabile vittoria verso la fine degli anni 1970.

Però, cominciò a emergere un fenomeno curioso nei laboratori MNS: rivolte emotive di partecipanti per lo più espresse al team facilitatore, ma anche fra di loro. Gli strumenti di empowerment dei laboratori si focalizzavano sulla dimensione razionale dei partecipanti. In queste mini-rivoluzioni, la vita emotiva del gruppo esigeva invece più attenzione.

Un gruppo nella mansarda di Starhawk smania per la solidarietà

La Battaglia di Seattle del 1999 sulla globalizzazione guidata dalle grandi multinaionali condusse a una serie di confronti massicci con i detentori del potere negli Stati Uniti e altrove. I formatori nonviolenti andarono da una città all’altra, facilitando i laboratori a ogni occasione. Alcuni anni dopo la leader attivista Starhawk e io convocammo i formatori per fare l’inventario di come procedeva, incontrandoci nella sua mansarda a San Francisco.

I formatori riferirono di successi multipli nel lavorare in mezzo al caos, come pure dei limiti. E sollevarono anche domande strategiche sul valore dei confronti di massa che non avevano obiettivi concreti o raggiungibili. Passammo alla condivisione delle competenze, divertente, e ai confronti fra quadri analitici. All’improvviso l’amichevole gruppo di formatori si fece intrattabile: avevamo da ridire sui reciproci commenti, ma specialmente diffidavamo della persona che per rotazione capitava a presiedere come facilitatore. I partecipanti sollecitavano soluzioni all’evidente disagio: “facciamo a coppie”, “abbiamo bisogno di una pausa”, “non avremmo mai dovuto lasciare aperto quel punto di disaccordo prima”, “può darsi che serva una canzone di gruppo”.

Non ci fu nulla che funzionò, io ero perso come gli altri con quella bufera che infuriava nel gruppo. Il facilitatore aveva un’aria demoralizzata. Un partecipante si perse, drammaticamente. Poi un autorevole membro espresse la propria vulnerabilità. D’improvviso, uscì il sole, abbracciammo chiunque ci fosse accanto, ridemmo, e ci fermammo per un tè.

Solo allora mi resi conto che avevamo vissuto un’esperienza emotiva che talvolta affiora nei gruppi. Avevamo cominciato con il periodo di “luna di miele” in cui tutti fanno i carini, poi però era cominciato l’aspro conflitto quando ci si mostrava più a fondo mentre i pacificatori tentavano l’impossibile: trovare soluzioni razionali al nostro sconforto. Infine, trovammo il varco per la comunità diventando, secondo il gergo organizzativo, un “team ad alto rendimento”.

Rammentai che un gruppo genera una bufera quando i suoi membri vogliono sentire accettazione per i propri strati più profondi, comprese le differenze che hanno mantenuto fino a quel momento al coperto. In breve, vogliono prossimità, perché capita che gli esseri umani siano animali sociali.

Il modello razionale suggerisce che i membri di un gruppo possano affermare delle differenze e negoziare un terreno comune al fine di ottenere la solidarietà necessaria per l’azione. Abbastanza vero per azioni a basso rischio e a bassa posta in gioco. Però, i movimenti hanno sovente poste alte che necessitano che i membri sopportino fatica e alto stress, eseguano un lavoro di squadra di fino, si assumano dei grossi rischi e attingano un bel sostegno dai propri compagni. Quasi tutti hanno visto al cinema, anche sportivo e di guerra, una squadra o un plotone con membri che non riuscivano mai ad andare d’accordo a casa e che riuscivano invece insieme a conseguire una vittoria.

I movimenti dichiarano sovente obiettivi che comportano questo livello di lotta per riuscire, e così attraggono partecipanti che s’aspettano di trovare il sostegno per arrivare fin lì — ma non lo trovano. Il controllo da ceto medio valuta al massimo l’efficacia in tali movimenti, avendo solo la propria razionalità da offrire. Nella mansarda di Starhawk i presenti non avrebbero chiesto, in tante parole, quel legame — sarebbe parso stucchevole o ingenuo. Invece, l’abbiamo creato emotivamente, facendo baruffa.

La buona notizia è che i facilitatori possono essere addestrati per riconoscere i segni precoci di una bufera in addensamento e in tecniche atte a sostenere tale bufera quando arriva. La cattiva è che i facilitatori di rado cercano tale addestramento, o le altre tecniche per assistere i gruppi nell’accedere alle proprie risorse inconsce. Come per l’educazione tradizionale, l’educazione popolare non è arrivata fin lì.

I formatori inventano l’educazione diretta per sostenere l’azione basata sulla solidarietà

Il gruppo di attivisti che fondarono Training for Change (Addestrarsi al cambiamento) negli anni 1990 ha sviluppato col tempo una prassi formativa che potrebbe produrre quasi tutto ciò che accadde nella mansarda di Starhawk, e ha sfruttato altre dinamiche di gruppo a sostegno di azioni gestite con massima consapevolezza. I formatori di Training for Change conoscevano gli strumenti del movimento per i diritti civili e l’educazione popolare usata dal MNS, quindi iniziammo di lì.

Volgendoci però anche alla risorsa dell’ emozione, incorporando impressioni sulle dinamiche di gruppo riflesse fra l’altro nel libro della Starhawk “Dreaming the Dark” [Sognando il buio] e in quello dello psicologo Arnold Mindell “Sitting in the Fire” [Seduti nel fuoco]. Il mio libro “Facilitating Group Learning” [Facilitare l’apprendimento di gruppo] riassume un decennio di scoperte sulla vita sia razionale sia emotiva del gruppo, e condivide metodi che funzionano al meglio indipendentemente da molti confini culturali. Significativamente, tale metodo è l’approccio formativo all’azione che ha attratto la più vasta gamma di gruppi, da organizzazioni religiose ad anarchiche, a enti non-profit, a sindacati.

Dall’educazione diretta si scostano quelli che limitano l’appprendimento all’ambito conscio, razionale, compreso chi crede che il cambiamento sociale avvenga utilizzando un linguaggio accademico astratto quale “commutazione di codice” o “intersezionalità”.

La nostra esperienza è che, quando i gruppi propongono nel corso di una seduta di formazione dei conflitti del mondo reale, i partecipanti hanno l’opportunità di andare più in profondità e provare i comportamenti che termini astratti sono stati inventati per rappresentare. Sostenere il conflitto in tale momento aiuta addirittura alcuni partecipanti a sganciarsi dall’attaccamento ai termini indotto dall’appartenenza di classe e farsi più presenti a quanto sta davvero avvenendo. Le azioni che emanano da un tale processo hanno più probabilità di avere un impatto sul mondo effettivo di ingiustizia, perché tali azioni provengono dall’ esperienza anziché dalle parole.

Ma per quanto riguarda le ‘cause’ ?

La pedagogia pro-conflittuale contraddice un’ipotesi corrente nei circoli anti-oppressione, che l’obiettivo nell’ottenere, per esempio, una giustizia razziale sia la protezione. Tale ipotesi dà al facilitatore il compito di definire norme per evitare il conflitto. In certe aule ai professori si chiede di dare “segnali d’allarme” quando ci s’imbatta in materiale che potrebbe in qualche modo essere percepito come oppressivo.

Credo che questa condotta sia anti-liberatoria. Dà ulteriore potere a chi già lo detiene, chiedere alle autorità (in questo caso, gli insegnanti) di assumere ancor maggiore responsabilità per monitorare e controllare. Priva chi ha patito oppressione della facoltà di prendere posizione, supponendo che non sia in grado di difendersi quando subisce un affronto. Esime i facilitatori dal compito di sostenere i partecipanti nell’acquisire i muscoli per battersi per la propria liberazione.

La visione implicita nell’attuale tendenza è di produrre piantine da vivaio che possono prosperare solo al riparo di un “posto sicuro”. Tale visione m’indigna: il mio sé omosessuale e operaio è cresciuto in potere personale nel mondo reale dove abbondano le micro-aggressioni. In effetti, vivere nel mondo reale serve a motivarmi per combattere in vista di un cambiamento più ampio anziché a una ritirata in un’altra versione di privilegio dove sarei isolato dal mondo reale.

Questa visione benintenzionata è, per via delle sue radici classiste, una versione della comunità isolata.

Chi è sopravvissuto ai traumi ha bisogno e merita sostegno. Verificarlo col facilitatore in anticipo potrebbe far ideare opzioni che stimolano l’assunzione di potere autocosciente. Secondo il vario grado di guarigione dei partecipanti, un certo seminario potrebbe essergli utile o meno. Cosa eventualmente quanto mai vera per i laboratori di formazione per formatori, poiché i nuovi formatori devono disimparare la reattività e restare presenti pur con l’affiorare di aggressioni in un certo gruppo d’apprendimento.

L’origine dell’educazione diretta, con le sue radici nel movimento per i diritti civili e il suo utilizzo fra gruppi oppressi che si fanno sentire, insiste su una distinzione fra sicurezza e comodità. In un laboratorio il facilitatore assiste i membri di un gruppo a essere sia al sicuro sia scomodi, perché la scomodità è là dove si ha il massimo apprendimento e la massima crescita.

Manco a dirlo, ai movimenti odierni serve la curva d’apprendimento più ripida che riescono a generare.


29 luglio 2015

Titolo originale: To succeed, movements must overcome the tension between rationality and emotion

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


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