Le venti vite del Buddha – Recensione di Cinzia Picchioni
Noor Inayat Khan, Le venti vite del Buddha, elliot, Roma 2014, pp. 96, € 12,50
“Io mi vedo”
“Sii sincero o falso, poiché non puoi essere entrambi”.
“Sii il primo ad aver fede nel tuo ideale, se desideri che gli altri credano in esso.
Se non rispetti tu stesso il tuo ideale, gli altri non lo rispetteranno”
(Hazrat Inayat Khan)
Questo il padre, il famoso mistico indiano.
La figlia, Noor, è l’autrice del libro presentato questa settimana.
Lo ha scritto nel 1939 a Londra, ispirandosi alla tradizione buddhista degli Jataka (antichissime storie che raccontano le vite anteriori del Buddha), originariamente scritti in singalese da un anonimo, nel v secolo.
Noor Inayat Khan – poetessa, musicista, agente segreto britannico contro la minaccia nazista – le ha rivisitate, dedicandole non solo ai lettori adulti, ma anche ai bambini, “per diffondere parole di pace nei tempi atroci della guerra”.
Proprio a causa della guerra e per combattere l’invasione nazista si unì nel 1940 al Women’s Auxiliary Air Force britannico e nel 1943 alla Resistenza francese. La Gestapo l’arrestò, la rinchiuse in isolamento nella prigione di Pforzheim in Germania; fu interrogata, probabilmente torturata, ma non collaborò mai. Fu giustiziata il 13 settembre 1944 al campo di concentramento di Dachau. Aveva 30 anni. “Oggi un busto in bronzo la ricorda ai Gordon Square Gardens di Londra, e dal marzo del 2014 il suo volto appare anche sui francobolli della Corona” (p. 92).
Il libro, soave e poetico, narra storie in cui “il Buddha è ora protagonista, ora personaggio secondario, ora semplice narratore di vicende e parabole in cui si trasmettono messaggi di compassione, sincerità, altruismo”.
Queste alcune delle storie: I cani colpevoli; Il bufalo paziente; Il grande elefante (davvero commovente); Il nobile cavallo; La prova del maestro, in cui il maestro, povero e debole, chiede ai suoi allievi di rubare per lui il denaro necessario alla sua vita, ma senza farsi vedere. Tutti gli allievi accettano tranne uno, che se ne stava “in silenzio con lo sguardo rivolto in basso”. Quando il maestro gli chiese come mai non accettasse di andare a rubare per lui, il giovane rispose così “non esiste un posto dove nessuno ci può vedere […]. Anche quando sono solo, io mi vedo. Preferirei prendere una ciotola e mettermi a mendicare, che costringere me stesso a guardarmi rubare”. Così il maestro fu felice che almeno uno dei suoi allievi avesse compreso il suo messaggio e anche gli altri “ogni volta che un pensiero indegno si affacciava alle loro menti, ripensarono alle parole del loro compagno: “Io mi vedo””.
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Che bellezza e che purezza di parole. ..grazie