La nemesi della razza – Johan Galtung

Siamo stati rivisitati, non solo a Charleston, South Carolina, non solo negli USA; ma nel mondo intero, dal massacro scioccante dell’iconico Emanuel Church. Ha colpito in fondo al cuore quest’anziano norvegese, già giovane professore di sociologia alla Columbia University di New York, come americano come chiunque con quel passaporto, coinvolto a fondo nel conflitto per la desegregazione a Charlottesville, Virginia. E ora, come milioni d’altri, in cerca di venire alle prese con quest’enormità della storia in regresso da capire, alla ricerca di “come si sarebbe poturo evitare”; qualche soluzione da qualche parte?

Usando un antico metodo di verifica “che cosa mi fa venire in mente”, mi è affiorato Anders Behring Breivik, un connazionale norvegese. Il 22 luglio 2011, prima una bomba a un edificio governativo uccidendo sette persone, poi un massacro di giovani laburisti su un’isola, uccidendone altri 69. Avendo fatto ricerche sul caso, lo considero situato in un triangolo in cui a un vertice sta la sua idea di Norvegia bionda, pura e dagli occhi azzurri di credenti nel vero cristianesimo, minacciata dall’invasione musulmana; nel secondo vertice stanno i traditori di quella società: il governo laburista, i laburisti, e nel terzo vertice coloro che insorgono, fanno qualcosa contro la minaccia musulmana: Israele, i sionisti duri.

Questa sua ossessione ha lavorato dentro di lui fino al giungere del richiamo, solo io l’ho capito, tocca a me fare l’indicibile, liberare la storia dai suoi ceppi costringendo la gente a vedere la Verità, cominciando con i nemici nel nostro stesso campo, non i musulmani, i traditori.

La psicopatologia che l’ha mosso non proveniva da traumi infantili, ma dalla polarizzazione dei conflitti, una coloritura estrema in bianco-nero del mondo, con il nemico che domina nel nostro stesso campo.

Ispirato da un americano vivamente toccato dall’incidente di Waco, che colpì un obiettivo federale USA in Oklahoma, Breivik scelse il primo obiettivo da colpire e copiò la bomba. Ispirato da una storia di vittoria su musulmani e traditori nel campo cristiano (gli inglesi), scelse la data. O, almeno, questa è una interpretazione dell’accaduto.

Traduzione su Dylan Roof, non così eloquente, intelligente o di buone letture come Breivik, dall’aria da adolescente, piuttosto catatonico, ma con un manifesto. In lui c’è il puro Sud bianco (non mi sorprenderei se venisse fuori anche il “cristiano genuino”), minacciato dai neri, “voi violentate le nostre donne”. Allora perché non focalizzarsi sugli uomini neri per un massacro? No, come Breivik voleva colpire più a fondo, tutta quanta la sovversione secondo la sua presunta società ideale, la chiesa iconica con una sotterranea resistenza. E le donne, innocenti e indifese come le giovani vittime laburiste di Breivik, inconfondibilmente sul versante sbagliato, le più pericolose dei nemici. Ebbe abbondante tempo in chiesa per scatenare tutto questo in una mente contorta da una profonda polarizzazione, finché il richiamo fu agito, a sangue freddo, calcolando. Il resto lo sappiamo.

Come Breivik, ma a differenza di molti massacratori, non ha commesso suicidio, e la sua fuga non c’è realmente stata, restando con gli stessi vestiti, nella sua auto. Probabilmente vuole il suo momento in tribunale per far seguire agli atti parole adeguate a stimolare una guerra razziale, sperando probabilmente in un mitragliamento da parte di neri in una chiesa di bianchi, che liberi la storia dai suoi ceppi. Non finora.

Il terzo vertice, quello che è insorto e ha fatto qualcosa di serio, è ovviamente la Confederazione – con il South Carolina come primo stato secessionista dell’Unione (20 dicembre 1860); per i “diritti degli stati” in cima ai quali la schiavitù, in odio all’abolizione. Da qui gli emblemi confederati e la sua celebrazione di quella bandiera, bruciando invece quella dell’Unione.

Come Breivik, ha i suoi sogni, i suoi traditori, e i suoi eroi.

Guardando il pubblico ministero svolgere la sessione processuale, mi è venuto un incubo a occhi aperti: una giuria di soli bianchi che rilasci Roof in quanto ha agito per legittima difesa. Come in tutti quei casi in cui agenti di polizia uccidono giovani neri con pretesti inconsistenti.

So che ciò non accadrà; ma che cosa succederà invece?

La psichiatrizzazione. Si farà di tutto per dipingerlo come anormale, cominciando pari pari dal “delitto d’odio”; cioè emozioni divenute incontrollate.

Il pubblico ministero, che una volta fu criticato per un denigrazione razzista, ha abilmente pilotato il procedimento dall’attenzione al perpetratore a quella sulle vittime, attirando dichiarazioni delle famiglie delle vittime stesse. Programmata o meno, una vittima ha esortato Roof a pentirsi, ma il tema generale era “ti perdoniamo”. Reagire a un presunto delitto d’odio con parole d’odio potrebbe fare il gioco di Roof, d’accordo. Ma il perdono, tratto dalla preghiera del Padre Nostro come s’addice a un gruppo catechistico, non è ancora il percorso da seguire.

Sarebbe stato meglio “Perché, perché, PERCHÈ è accaduto questo, dobbiamo arrivare alla radice di quest’atrocità per sradicarla”. Pentirsi e perdonare sono termini etici, ci si arriva passando per la comprensione delle cause da rimuovere. Ma nella mente del pubblico ministero non pare esserci stato nulla del genere, né nel suo piano d’azione.

Ci è stato ammannito un dibattito ombra fra “delitto d’odio” e “terrorismo razziale, interno”, l’uno che la buttava sullo psicologico, l’altro sul politico. Va bene “assassinio”, legalmente. Ma è affiorato un altro dibattito ombra, su una bandiera a piena asta in cima al massimo edificio pubblico del South Carolina. Ci si può chiedere perché qualcuno non l’abbia tolta con discrezione; nessuno l’ha fatto, finché i candidati presidenziali non hanno temuto che potesse nuocere alla loro campagna.

Per il mio occhio interiore si tratta dell’odio e della paura di un segregazionista bianco che dice che ci odiano, che vogliono ucciderci tutti, comunisti, e minacciosi. E i neri con splendidi sogni americani di una casa con giardino e figli all’università – la via per il sogno passa per le scuole integrate. Ci sono voluti anni, ho partecipato anch’io, ne vado fiero e per questa vicenda sono finito sulla prima pagina del Washington Post (29-05-1960).

Ci sono molti altri passi da fare sulla via “insieme e uguali”; si dovrebbe farli, e si faranno. Tuttavia, ciò non risolve il problema Dylan Roof. L’unico modo è di esporre tutta la sua pazza costruzione mentale, mostrandone l’assurdità, forse anche a lui stesso.

Che questo possa avvenire in un tribunale del South Carolina è un altro discorso. Ma forse a livello federale? Nell’interesse di noi tutti.

29 giugno 2015

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale: The Nemesis of Race

http://www.transcend.org/tms/2015/06/the-nemesis-of-race/

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