Il nemico ucciso fa paura. Riflessione sull’Isis

Enrico Peyretti

Sono turbato e incerto, come molti, davanti a questo vistoso e risonante fenomeno dell’Isis, che si impone all’attenzione, sul palco mediatico mondiale, con schizzi di sangue umano. Tra le tante violenze del mondo, questa sembra ora la massima violenza. Sembra.

Cerco aiuto in letture, esperti, per capirne le cause. Evito le spiegazioni sempliciste, monocausali (che pure ci tentano, sembrano soddisfarci), perché sono tante le cause storiche, morali, di potere, intrecciate tra loro. Evito la contrapposizione che demonizza quelli là come mostri e automaticamente angelizza (o quasi) noi, il nostro mondo, la nostra storia.

Tra tanti aspetti, mi limito ad uno: che cosa significa lo scempio fisico del nemico, che costoro sembrano voler mostrare come loro distintivo?

Ho ripreso in mano un libro, Il corpo del nemico ucciso (di Giovanni De Luna, Einaudi 2006) che, limitandosi alle guerre contemporanee, studia la pratica dello spregio e sfregio del corpo, anche già ucciso, come esibizione ulteriore di potere sulla vita e sulla morte. Numerose fotografie documentano quei comportamenti, compreso il trofeo delle teste mozzate, mostrate con ciniche risa di trionfo. Chi lo faceva? Guardate a p. 86 e anche168.

Si direbbe che si taglia la testa perché si ha paura di non avere ucciso abbastanza. In altri casi si estrae il cuore. La testa è il capo, il centro decisionale di quel nemico che temevamo, ci minacciava, o semplicemente odiavamo per nostro impulso. Non abbiamo parlato con lui, lo abbiamo distrutto, gli abbiamo tolto la vita. Ridiamo, però non siamo sicuri. Abbiamo paura di ciò che abbiamo fatto. Naturalmente non lo confessiamo. Quel corpo morto, quella testa con occhi spenti che ancora ci guardano (De Luna ha un capitolo dal titolo “I morti non parlano, ma i loro corpi sì”) ci inquieta, ci minaccia. Bisogna ucciderlo di più, due morti, tre morti dobbiamo dargli. Così si stacca la testa, si fa un sasso freddo di quello che era un volto espressivo e parlante, un oggetto spregevole, da colpire coi piedi, da mostrare a segno della nostra potenza.

Potenza? È potenza il togliere vita dal mondo? Il vincitore crudele ha bisogno di darsi tutte le conferme, perché in fondo sa che non le ha. Una verità umana parla anche dentro l’uomo crudele, fatto crudele dal meccanismo di morte che è la guerra, che lo ha ridotto a rotella della macina che stritola l’umanità. Egli ha dovuto prima negare quella umanità, per poterla stritolare. Schiacciarla, si deve, perché continua a gridare che c’è. L’umanità vive nella vittima e il carnefice non riesce a spegnerla. Il vincitore è vinto dall’umanità insopprimibile. È disperato nella sua vittoria. È ridicolo nella sua crudeltà.

Eppure, l’essere umano è grande, è più grande delle sue malefatte, delle sue crudeltà e delitti. Cade al di sotto di se stesso e della vita, ma non può sfuggire alla sua più alta vocazione: far crescere la vita. Andiamo a rileggere il mito di Caino: è una verità ben più che storica, è la perenne verità di ciò che accade quando un uomo uccide un uomo. Può sentirsi per questo salvo, può sentirsi forte, difensore del suo diritto, abile e coraggioso nel pericolo pur di salvare vite affidate a lui, può pensare di aver fatto il suo dovere e punito degnamente un criminale. Tutto questo è anche vero, in qualche modo, ma dentro c’è un’altra dolorosa verità.

Tu non uccidi – pur nella necessità di uccidere per difendere, e ben peggio se sei preda della follia dell’uccidere – non uccidi un altro senza uccidere e negare te stesso. Nel tuo delitto, nei nostri delitti, noi gridiamo questa verità: abbiamo ucciso noi stessi. Abele ci guarda. Noi ci specchiamo in lui, che volevamo cancellare. Ecco la fuga di Caino: fuga da se stesso, fuga dalla terra che ora lo maledice, dalla terra fattasi gola in cui grida forte il sangue intacitabile di Abele, uomo uguale e fratello, inseparabile compagno di indissolubile umanità. Quel sangue grida fino a Dio. Non c’è voce più potente al mondo. Abele, ucciso, ha la forza di muovere Dio a scuotere Caino dal suo sogno di forza, a salvare Caino da se stesso.

Caino deve fuggire per sempre, ora tutti possono ucciderlo, perché lui ha creato l’omicidio, un seme infestante che dilaga sulla terra, come orda di serpenti velenosi. Solo Dio difende Caino da Caino. La prova che Dio è vivente sta nel fatto che c’è una difesa, un ritrovare se stesso, anche per l’omicida Caino, il creatore della morte, anche della propria morte. La morte fabbricata da mano umana non è potente come la vita.

Noi abbiamo fatto tutto questo, da Caino all’Isis, e alle altre odierne violenze occulte, non esibite. Abbiamo tentato di uccidere quel che del morto è vivo, il suo onore, la luce del suo volto. L’abbiamo fatto anche noi italiani sui corpi di popoli colonizzati, “razze inferiori”, e comunque nemici. L’hanno fatto i nostri amici e difensori. Tutte le guerre lo fanno, altrimenti non funzionano. L’hanno fatto le democrazie bellicose e imperiali.

È la guerra stessa che deve disumanizzare il nemico, il suo corpo, la sua anima, il volto che ci guarda. Altrimenti non funziona. È la decisione (o anche il sentirsi costretti a decidere così), di affidare alle armi, all’arma più potente e più svelta, il giudizio sulle nostre controversie, sul nostro diritto, o sulle nostre brame di conquista e di potere, è con quella decisione che ci dimettiamo dal trattare e mediare umanamente, perché quello che ci facciamo nemico per noi non è umano.

L’arma, eletta a giudice, sa solo uccidere; solo così decide vincitore e vinto, ragione e torto, sentenziando su valori che totalmente ignora, fuori dalle sue possibilità. Non ha un codice da applicare: uccide lei, dove la mano e l’occhio umani la puntano. L’arma è estranea al diritto, come l’occhio non ha l’udito e l’orecchio non ha la vista.

Quando noi abbiamo affidato il giudizio all’arma, allora noi ci siamo ridotti nelle mani della morte. Anche se diamo la morte al nemico che ci voleva uccidere, noi siamo nelle braccia della morte. L’uomo che uccide è già morto lui.

In tutte le guerre si arriva con facilità a perdere l’umanità: quella del nemico, necessariamente disprezzato da vivo e da morto, e quindi l’umanità nostra. Non è crudele il soldato, non è crudele il generale (salvo casi patologici), ma la guerra li fa crudeli, li usa, li manipola, li piega a deformare la propria umanità. Se circostanze dure ci costringono alle armi, poi le armi ci costringono a perdere umanità. Vero eroe di umanità è il soldato che riesce a stare al margine della guerra, pur dentro la guerra, senza odiare, senza uccidere. Ne ho conosciuti. Vero eroe è chi, pur nelle condizioni più difficili, disobbedisce alla guerra, offrendo tutte le sue energie alle lotte giuste condotte con la forza nonviolenta.

Questo Isis, come altre violenze, farà ancora male, dolore, offesa. Ma è un morto che uccide, più morto delle sue vittime. Le vittime gridano al cielo una verità che intercede per lui.


(pubblicato su Madrugada, rivista trimestrale dell’associazione Macondo, giugno 2015, pp. 14-15; www.macondo.it; [email protected] )

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.