6. La religione del vivere – Pietro Polito

Sarebbe vana, dunque, superata e respinta dalla vita, la fede, la speranza, la volontà di sacrificio di una gioventù europea che ha assunto il bel nome di rèsistance, della Resistenza internazionale e concorde contro lo scempio dei propri paesi, contro l’onta di un’Europa Hitleriana e l’orrore di un mondo hitleriano, non voleva semplicemente “resistere”, ma sentiva di essere all’avanguardia di una migliore società umana? Tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?

resistenza

No, non può essere. Non c’è stata idea per cui gli uomini abbiano combattuto e sofferto con cuore puro e abbiano dato la vita, che sia andata distrutta. Non c’è idea che non sia stata realizzata, a costo di contrarre tutte le macchie della realtà, ma acquistando la vita.

Thomas Mann, Prefazione a Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi, Torino 1954, p. XXII

La vita, la fede, la speranza, la volontà di sacrificio dei condannati a morte della Resistenza sono l’espressione di una autentica religione del vivere. Questa espressione si deve a Franco Antonicelli che la usa commentando le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (“il Movimento di Liberazione in Italia”, marzo – maggio 1952, n. 17-18 pp. 3-19).

Le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943- 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, prefazione di Enzo Enriques Agnoletti, furono pubblicate da Einaudi nel 1952 e sono state ristampate in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione, con la prefazione di Gustavo Zagrebelsky.

Come ha osservato Antonicelli, attraverso le parole dei condannati è possibile tracciare “una storia spirituale della guerra di liberazione”. I caduti italiani, di cui abbiamo gli “estremi addii”, sono 112. Tra loro troviamo studenti, operai, contadini, professionisti, un prete; le donne sono tre; i più sono ventenni.

Antonicelli richiama l’attenzione sulla forza d’animo, la severa dignità, il richiamo a doveri semplici ed essenziali che traspaiono nelle lettere delle donne. Se Maria Luisa, impiegata, raccomanda di “non fare tante chiacchiere sul mio conto”, Paola, pettinatrice, invece, scrive al figlio: “ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo”; e Franca, casalinga, si rivolge al caro Mario così: “vado alla morte senza rancore delle ore vissute”.

Come ha scritto Cesare Pavese, alcune pagine dei caduti nella guerra di liberazione sono da leggere “umilmente, come si legge una preghiera o un testamento”. Eppure, commenta Antonicelli, quelle pagine sono esenti dall’estetismo, mentre sono percorse da una “energia etica”, “un’aura di eccezionalità” che conferisce loro un valore poetico e che si può cogliere qua e là un po’ dappertutto.

Dall’insieme di quelle lettere emerge “una bellezza triste ma serena” (sono le parole di uno dei condannati, Giuseppe Pelosi, studente in ingegneria). Un altro, Amerigo Duò, dice: “non maledite nessuno come non maledico io”; e un altro ancora, Lorenzo Viani: “non voglio morire augurando del male a chi mi ha fatto del male, quindi auguro loro che il mio sangue non ricada su di essi”. Sull’istinto di vendetta, di rancore, di esecrazione prevale il senso del dovere: “il fondamento delle loro ultime gesta – osserva Antonicelli – era il dovere, null’altro che il dovere, non l’occasione, non l’avventura, non il privato interesse: il dovere, e perciò la causa giusta”.

Uno di loro, Umberto Fogagnolo, ingegnere elettrotecnico, socialista, che il 25 luglio organizzò la difesa delle fabbriche da parte degli operai di Sesto San Giovanni, afferma: “V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere e abbandonare le parole”.

Con accenti diversi, malinconia, letizia, fierezza, semplicità senza pose, “il senso di essere dalla parte giusta è costante e indubitato in ciascuno dei nostri”. Quei cento che affrontano la morte non sempre e non tutti hanno una visione generale chiara e precisa in cui inserire la propria esperienza. Ma il fatto stesso di avere scelto di combattere da una certa parte non può non implicare un giudizio morale o politico.

L’alternativa non è da porre tra una maggioranza grigia che si adagiò nell’indifferenza e una minoranza indistinta che mise a repentaglio la propria vita: altro è rischiare la vita per perpetuare la dittatura, altro è essere condannati a morte per avere agito per un’idea. Quale idea? L’idea comune a tutti i caduti, quando viene espressa, è la restaurazione dei principi di libertà e giustizia conculcati dal fascismo.

Per tutti è sufficiente ricordare le parole di Giordano Cavestro, 18 anni, studente di scuola media: “Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della libertà”. Un’idea larga di libertà che oltrepassa le circostanze contingenti della lotta e prefigura un futuro ordine più umano.

Al di là della diversità delle fedi religiose e o politiche, la “faticosa eredità” che ci lasciano i condannati a morte della Resistenza italiana si può riassumere in una “posizione di attivi, non di attivisti; e perciò sollecitazione morale, non predica moralistica”.

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