Giorgio Vajani, patriota, caduto il 27 aprile in Milano – Gabriella Poli

Ovunque è la luce troviamo il suo volto. Ma la sua voce viene dall’ombra: rincuora, solleva, sospinge, conforta. Ci appare vivo. Con quegli occhi a volte ridenti di sole, a volte così disperati, con i capelli bruni, morbidi, ribelli: una parola per tutte le miserie, una carezza per ogni testina di bimbo. Gli piangeva nel cuore la dolcezza della mamma scomparsa e gli urgevano nell’anima gli echi dell’umanità disperata: ne accoglieva tutte le lacrime, ne soffriva tutti gli spasimi, ne amava tutte le creature.

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Per questo, quando era ritornato dall’Etiopia, – dove aveva trascorso gli anni ’37-’38 e vi aveva conseguito la licenza liceale – s’era iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia della sua Milano dov’era nato il 6 settembre 1919 e ne frequentò con assiduità e passione i corsi. Solo il servizio militare potè distoglierlo dagli studi, a cui di dedicò nuovamente durante la licenza ottenuta nel maggio del ’43.

Era un antifascista accanito da tempo e dopo l’8 settembre si legò ai vari amici della sua famiglia e a tutti i valorosi da cui doveva nascere la III Brigata d’Assalto. Fu ancora quel suo immenso amore per l’umanità sofferente a spingerlo nel gennaio del ’45 a piegarsi sui feriti dell’ospedale di Baggio; ma la sua attività politica non conobbe soste neppure in questo periodo e si deve in gran parte a lui il sorgere del C.L.N. dell’Ospedale in vista dell’insurrezione. La III Brigata d’Assalto che contava su forti gruppi in alcune delle principali fabbriche di Milano (Pirelli, Caproni, ecc.) il 25 aprile fu una delle primissime a iniziare l’azione.

Il 27 aprile quando già la lotta era praticamente terminata e i nuclei tedeschi e fascisti resistevano soltanto in qualche stabile, davanti agli ex Sindacati, occupato dalla III Brigata d’Assalto, s’iniziava un fuoco di fucileria da un gruppo di case diroccate. Fu allora che Giorgio Vajani ancora sulla breccia e primo sempre, cadde immobile colpito al capo.

E i fucili nemici turbarono il procedere della Sua salma, tra un’immensa folla silenziosa, la mattina del 29.

Non è facile parlare di lui. Bisognerebbe che la voce isolata fosse invece un coro di molte altre, che i morti ci dessero il loro sguardo pallido d’infinito e i vivi il dolore e la riconoscenza dell’anima loro. Vorremmo che parlasse il saggio di Harar, la donna dalla piaga fetida sola in quella baita sperduta, il tornitore pazzo, il soldato ferito dell’Ospedale di Baggio e la Madonnina di Monte Zebrù. Vorremmo che le montagne selvaggiamente severe potessero parlare, con la loro voce senza tempo, del ragazzo che le affrontava da solo, col sacco e la piccozza, gli occhi fermi e le braccia sicure. Vorremmo che la musica e la poesia che sentiva con tutta la sua ricchissima sensiblità ci dessero le loro armonie e il loro canto.

Era di quelli che non avrebbero dovuto morire. Eppure sentiva la morte avvicinarsi con la sicurezza dei predestinati: “moriremo, sai; io sono quasi tragicamente certo di lasciare la vita in questo borbottìo irritato e in queste convulse gesticolazioni del vecchio e ormai agonizzante materialismo: ma non me ne curo gran che. E’ una sensazione strana che ho di questi tempi – giovane come sono, senza nulla di fatto, senza nulla di concluso – sento di aver dato il meglio, tutto quello che potevo dare al mondo e non ho dato nulla… sento alitare su me un presagio funebre di morte”.

E la guardava – la morte – con gli occhi sereni, pacati, già lontani: “la mia vita è stata nulla! ma… forse sarà qualcosa di più la morte. C’è chi nasce per vivere e chi per morire: non mi dispiace neppure la seconda via: purchè serva a qualcosa”.

E’ un testamento, e abbiamo riportato le sue parole perchè era doveroso farlo, perchè si sappia che Giorgio era sicuro di morire, che la sua morte sarebbe stata il colpo d’ala della sua esistenza e il lievito per la vita dei rimasti. Ma c’è di più: c’è la luce che ha lasciato a tutti i giovani, indistintamente; la conquista che dobbiamo accogliere nell’anima perchè in qualcuno la fiamma viva e la sintesi, mirabilmente intuita, si compia:

“Sentirei di aver vissuto abbastanza se avessi lasciato in eredità a due sole persone, a due anime, la mia certezza intuita di un ordine supremo, di un’armonia unica del creato di cui l’uomo fa parte.

“Sentirei di non aver vissuto invano se lasciassi in retaggio a qualcuno la mia certezza della solubilità del nostro problema etico al di fuori della isterica dogmaticità della nostra degenerata religione e dello agnosticismo gretto e miserabile della scienza tradita. Sarei felice di questo.”

Era di quelli che non avrebbero dovuto morire. Forse contraddiciamo la sua parola, ma è il timore di non saper raccogliere la sua fiaccola che ci fa dire così; anche queste nostre righe sono così scarne, così nude per tratteggiare a coloro che non lo conobbero, la figura del giovane che fu medico, artista, scrittore e poeta, che si dedicò con uguale passione allo studio delle letterature di tutti i tempi e di tutti i paesi e ai disegni preparati per l’Atlante unito all’opera del suo amico-maestro, dal titolo : “Schemi anatomo-clinici del Sistema Nervoso”; alla musica e ai disegni di embriologia ed istologia. Bisognerebbe scrivere a lungo di lui: ma non varrebbe quello che di lui è rimasto: perciò lo ricordiamo con i suoi scritti, con la sua poesia, a significare ciò che egli fu, sentì e visse, la sua anima, il suo spirito, la sua verità. Lo ricordiamo con le parole espresse dal cuore commosso di uno squisito e valente scrittore italiano, che ci pare abbia interpretato l’eterno del nostro Giorgio il meglio possibile e più spassionatamente di quanto a noi sarebbe concesso di fare.

“Un’anima ardente e mortificata, ripiegata su se stessa, accesa di delirio e d’ideale, di pessimismo e di fede, che si traduce in queste parole senza veli e senza ipocrisie: ed esse hanno quindi il valore dell’arte, che è valore di vita e di spirito. Un perenne contrasto in lui, giovane della generazione oscura, tormentata ed anelante; ecco uno stralcio del suo diario il giorno della liberazione di Roma. Non è che un cenno, un’amara constatazione che ha eluso l’entusiasmo ed ha guardato l’umana verità: Roma è libera: ma non ci sono che cadaveri. Roma non è che un punto; altrove è l’apocalisse, sulle coste di Francia dove gli alleati sbarcano e vincono: neppur qui entusiasmo: migliaia di vite confuse e travolte, morti e morti e morti, giovani e giovani. Che cos’è la vita? La sua anima libera è bruciata e travolta: il mondo è furore e pazzia: Dio, Dio non esiste. Poichè Dio esiste in lui e gli uomini lo cancellano: Dio è nella sua bontà, dell’umiltà, dell’umiltà e tanta, tanta, tanta bontà occorre, scrive in una sua lettera e ama i poveri di spirito nella più pura credenza evangelica. Ama e vuol essere se stesso, socialista ma individualista per indole e per spirito: tutto è in noi, tutto, tutto, grida, e quell’individualismo è un supremo desiderio d’ideale, di speranza e di amore: ognuno guardi in sé, scelga e tenti la sua vita, ma poi sia a questo sogno, a questo programma, consequente. Il contrasto è nella frase stessa: sogno, egli ha detto nell’impeto del sentimento: poi contrappone freddamente: programma. Ma rimane il sogno. Quel sogno e quell’ideale sono schiantati dall’epoca terribile della sua vita: ed in Val Masino ogni cosa ha un suo gelido senso di morte, un deserto silenzio sovrumano; è quasi, il mondo, un lume cui manchi l’olio: l’ultima porta si chiude su di un morto. Pure egli crede e spera, in una visione oltre la vita, come sognava, forse, Mameli, agonizzante nell’Ospedale di Roma. Tutto pareva finito ed egli moriva: e pur tutto ricominciava. Sento in me il presentimento di una nostra età migliore… Ha qualcosa del sognatore e dell’antesignano: il contrasto si concilia nell’avvenire sognato: vivrà lo spirito, tutto andrà all’aria! I problemi politici come se li pone oggi il momdo politico sono già superati nello spirito”. L’avvenire si chiude ed egli muore.

Lo ricordiamo così, con quello che ha già dato dopo la morte, con il bene che ha già fatto con i suoi scritti, altissima, sublime espressione della più pura idealità italica, combattuta e sempre rinascente, con la vita e la giovinezza che ci vengono dalla sua anima, simbolo eterno di verità e di poesia, profeta di una patria e di un’umanità migliori.

AGORÀ, anno II, n. 2, febbraio 1946

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