Gli errori dello stato imperiale globale e gli errori di altri – Richard Falk

Mi è stato fatto notare che la stranezza della rappacificazione senza verità che ho incontrato nelle Filippine rispetto alla persistente preminenza della famiglia Marcos, malgrado il diffuso discredito del suo periodo di dominio (1965-1986), non è così singolare come l’ho fatta apparire. Dopo tutto, Jeb Bush ha di recente annunciato la sua intenzione di cercare la presidenza degli Stati Uniti nel 2016 e George W. Bush, malgrado la sua presidenza disprezzabile è considerato come una risorsa politica e sta attivamente dedicandosi alla campagna elettorale raccogliendo fondi per conto del suo fratello minore. Nelle Filippine, al contrario degli Stati Uniti, c’è stata una rottura politica provocata dal Movimento per il Potere del Popolo che ha cacciato il clan di Marcos dal potere e ha portato direttamente a diventare presidente Corey Aquino, vedova di Benigno Aquino Jr., il rivale di Marcos che era stato assassinato.

Anche adesso questo trionfo popolare è festeggiato come un giorno di orgoglio popolare per il paese, e Benigno ‘Noynoy’ Aquino III siede nel Palazzo Malacañang come leader eletto del paese. Tuttavia, le realtà politiche nelle Filippine, come per l’America, sono più rilevanti per la loro continuità con il loro passato screditato che per i cambiamenti che lo hanno ripudiato e vinto.

Barack Obama in stava operando in uno scenario politico effettivamente diverso negli Stati Uniti quando ha messo da parte le ben fondate  accuse di criminalità dirette alla dirigenza durante la presidenza Bush, sostenendo prudentemente  che il paese doveva guardare avanti e non indietro rispetto alla responsabilità penale dei suoi ex leader politici. Naturalmente questo è il contrario di quanto è stato fatto con i capi tedeschi e giapponesi sopravvissuti dopo la II Guerra mondiale, ai processi ampiamente  annunciati  di Norimberga e di Tokyo, né tale prudenza può mai diventare la norma negli Stati Uniti in relazione ai reati di persone comuni, neanche i reati meritori di spionaggio del tipo imputato a Chelsea Manning, Julian Assange ed Edward Snowden. Tale impunità selettiva sembra essere il prezzo che le democrazie imperiali pagano per evitare lotte civili  in patria, e preferibili all’unità legata alle forme autoritarie di governo.

Per questa sola ragione l’approccio moralmente  regressivo di Obama rispetto alla responsabilità,  è politicamente  comprensibile e prudente. L’America è polarizzata, e il segmento più alienato  e arrabbiato della cittadinanza accetta la cultura delle armi e probabilmente continua a essere ardentemente  di sostegno  al  tipo di militarismo e di fervore patriottico che era stato così fortemente in evidenza durante la presidenza di Bush.

Pensieri che seguivano linee analoghe mi hanno portato a una più ampia serie di riflessioni. Gli errori che fanno le Filippine, per quanto orripilanti dal punto di vista dei diritti umani, sono per lo meno limitati ai confini territoriali del paese e sono causa di tormento per la loro propria cittadinanza. Per fare un paragone, gli errori di politica estera degli Stati Uniti vittimizzano principalmente altri, sebbene spesso contemporaneamente essi impongano costi pesanti sugli americani più emarginati e vulnerabili. In quanto società molti di noi  si rammaricano dell’impatto della Guerra del Vietnam o della Guerra dell’Iraq sulla serenità e sull’autostima della società americana, ma in quanto americani, molto raramente, se mai lo facciamo, ci fermiamo a rammaricarci per le immense perdite inflitte all’esperienza sociale  di coloro che vivono nell’ambito di lontani campi di battaglia di ambizione politica. Queste società vittime ricevono passivamente questa esperienza distruttiva e raramente possiedono la capacità o anche la volontà politica di reagire. Così è la  unilateralità delle relazioni imperiali.

Si è stimato che durante la Guerra del Vietnam siano morti tra 1,6 milioni e 3,8 milioni di vietnamiti, paragonati a 58.000 americani, e analoghe  proporzioni  di vittime sono presenti nelle guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, senza neanche considerare la distruzione e la devastazione subita. In Iraq si è calcolato che fin dal 2003 sono stati uccisi 600.000/1 milione di iracheni  e che oltre 2 milioni si sono trasferiti all’interno del paese, e altri 500.000 iracheni sono diventati profughi in conseguenza della guerra, mentre gli Stati Uniti hanno perduto  circa  4.500 personale combattente. Le statistiche dei campi di battaglia non dovrebbero renderci ciechi       davanti all’assolutezza di ogni morte dal punto di vista dei propri cari, ma rivelano realmente una fondamentale dimensione della distribuzione dei relativi costi umani della guerra che avviene tra  un governo che interviene e la società presa come obiettivo. Questo calcolo  delle morti in combattimento inizia a raccontare la storia della devastazione di una società straniera, o dei danni residui che si possono materializzare in lesioni mortali o che hanno prodotto  mutilazioni, molto tempo dopo che le armi sono silenziose, derivanti da ordigni  letali inesplosi che restano in giro nella campagna per generazioni, da contaminazione del suolo a causa dell’Agente Arancio, e da testate contenenti uranio impoverito, e  anche  come eredità di un trauma e in molti ‘promemoria’  quotidiani di ricordi di guerra sotto forma di panorami devastati e di punti di riferimento distrutti di eredità culturale.

Da quasi ogni  punto di vista etico sembrerebbe che qualche concezione di responsabilità internazionale dovrebbe limitare l’uso della forza in situazioni diverse da quelle autorizzate dalla legge internazionale. Ma questo non è il modo in cui funziona il mondo. Gli errori e i misfatti che avvengono in una terra lontana sono raramente riconosciuti e mai puniti e nessun risarcimento viene mai offerto. E’ una cosa immorale che sono soltanto i leader  territoriali che sono stati portati in giudizio (per esempio, Saddam Hussein, Slobodan Milosevic e Muammar Gheddafi). Il governo degli Stati Uniti, specificamente il Pentagono, fanno ogni sforzo per dire al mondo che non raccolgono dati sulle vittime civili collegate alle sue operazioni militari internazionali. In parte c’è un’attitudine alla negazione, a minimizzare le traversie inflitte ai paesi stranieri, in parte c’è il balsamo di una sottostante insistenza ufficiale secondo cui gli Stati Uniti fanno ogni sforzo per evitare le vittime civili. Nel contesto della guerra con i droni, Washington insiste che ci sono pochissime vittime civili, come viene misurato dal numero di morti, ma non ammette mai che un numero sempre maggiore di civili si raggruppano per la continua forte paura che possano essere presi di mira o colpiti a morte involontariamente da un missile vagante.

Considerando le strutture statali e imperiali dell’ordine mondiale, non c’è da meravigliarsi che ci sia così poca attenzione verso questi problemi. Gli errori di uno stato globale imperiale hanno conseguenze materiali molto al di là dei loro confini, mentre gli errori di uno stato normale risuonano internamente come in una camera di riverberazione. Gli sbagli di coloro che agiscono per lo stato globale imperiale sono protetti rispetto ad analisi attente da idee realistiche di impunità, mentre gli errori di coloro che agiscono per uno stato normale sono sempre più soggette a procedimenti internazionali  di responsabilità. Quando questo è accaduto dopo la II Guerra mondiale, è stata chiamata giustizia dei ‘vincitori’; quando accade ora, specialmente con la giurisprudenza di vedute ristrette della ‘legalità liberale’, viene spiegata in riferimento alla prudenza e al realismo: essere pratici, fare ciò che è possibile, accettare i limiti, permettere un giusto processo a coloro che vengono accusati, impedire dei modelli di cattive azioni.

Questo non cambierà a meno che si verifichi una delle due cose: che si crei una capacità globale di interpretare e attuare la legge penale internazionale o che la consapevolezza politica degli stati imperiali globali venga fortemente alterata dalla internazionalizzazione di un ethos di responsabilità verso  le società straniere e i loro abitanti. Qualsiasi definizione di tali progressi della legge e della giustizia  ci rendono consapevoli di quanto queste aspettative rimangano un’utopia.

Attualmente, esiste un solo stato imperiale globale, gli Stati Uniti d’America. Alcuni suggeriscono che la bravura economica della Cina crea un centro di potere e di influenza rivale che dovrebbe essere riconosciuto come secondo stato imperiale globale. Sembra fuorviante. La Cina forse è più  forte ed è certamente meno militarista nella sua concezione della sicurezza e nel perseguimento dei propri interessi, ma non è globale, né combatte guerre lontane dalla terra natia. Inoltre la lingua cinese, la sua valuta, e la sua cultura non godono della stessa portata che hanno la lingua inglese, il dollaro degli Stati Uniti e il capitalismo del franchising. Indubbiamente la Cina attualmente è probabilmente lo stato più importante del mondo, ma la sua realtà è al livello delle idee vestfaliche fondamentali, di sovranità territoriale, mentre gli Stati Uniti operano globalmente in tutte le regioni per solidificare la loro condizione di unico stato imperiale globale, in effetti il primo stato del genere nella storia del mondo.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/the-mistakes-of-the-global-imperial-state-and-the-mistakes-of-others Originale: Richardfalk.com Traduzione di Maria Chiara Starace

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