Manifesto per una rivoluzione nella scuola – Recensione di Claudio Facchinelli
Remo Rostagno, Manifesto per una rivoluzione nella scuola, Anordest, Villorba (Tv) 2014 pp. 220, € 12,00
Spesso, osservare la figura, l’espressione del volto di un autore aiuta a comprendere meglio la sua opera. Credo che ciò valga per Dante, l’Alfieri, il Foscolo; anche per entrare nel criptico, sconcertante universo di Beckett.
Si parva licet componere magnis, quel che di malizioso, quasi infantile, che l’ultrasettantenne Remo Rostagno ha conservato nello sguardo, è una porta che ti fa esplorare con ancor maggiore gusto le pagine della sua ultima pubblicazione: Manifesto per una rivoluzione della scuola. La scelta di un linguaggio colloquiale, spigliato, a tratti quasi goliardico, con cui restituisce al lettore schegge di saggezza pedagogica, ben si accorda con la sua figura minuta, vivace, incline all’understatement o, per usare un’espressione più consona alla sua identità piemontese, al principio, caro a Norberto Bobbio: “Esageruma nen!” (non esageriamo).
Saggezza pedagogica, ho detto: perché lui ha tutte le carte in regola per essere un pedagogista, ma pur avendo insegnato in scuole di ogni ordine e grado, fino all’università, Remo è ciò che di più lontano si possa identificare con un cattedratico, perché il suo lavoro si è svolto – per così dire – in trincea. Semmai, se lo vogliamo chiamare pedagogista, è opportuno aggiungere a quella qualifica il vecchio, glorioso aggettivo “militante”.
Dopo una carriera che lo ha visto protagonista in diversi ambiti teatrali, dall’animazione degli anni settanta, all’attività di drammaturgo (basta pensare a Kohlhaas che, con Marco Baliani, ha superato il traguardo di mille repliche), Remo Rostagno, ormai nonno, osserva e annota cosa combinano a scuola i suoi nipotini. Da questi appunti prende forma un libro del quale non è facile definire il genere: non saggio, non autobiografia, ma forse ambedue le cose.
Il testo, come premesso dall’autore, si compone di tre parti: un’ecografia della scuola italiana; un manifesto per cambiarla radicalmente; un epilogo. Ma alla fine di ogni capitoletto, troviamo, in corsivo, delle brevi notazioni che, a prima vista, sembrerebbero del tutto estranee alla trattazione. Rostagno le chiama “respiri di memoria”. Sono, almeno inizialmente, dei flash su una stagione che sembra remota, ma nella quale non si stenta a riconoscere gli ultimi anni della guerra e quelli immediatamente successivi; anche il paesaggio è identificabile: è il primo tratto della valle del Chisone, subito oltre Pinerolo.
Sembrano frammenti di una fiaba, soffusi di poesia, ma sono materiati di terricola realtà, quella che Remo ha vissuto nella sua infanzia. Ma, a mano a mano che si procede nella lettura, quelle memorie si avvicinano all’oggi, si popolano di personaggi noti, senza perdere il loro colore fiabesco, come nell’incontro col Marco Baliani nel ruolo di contastorie, o la lettura, in una notte trascorsa in un treno, della Lettera a una professoressa, di Don Milani. Lo stesso priore di Barbiana, come Danilo Dolci, sono i referenti pedagogici ed etici dichiarati di Remo Rostagno ma, ancorché non citata, ci metterei vicino anche Emma Castelnuovo, la grande didatta della “matematica con le mani sporche”.
La struttura composita del libro ricorda Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert Pirsig (un testo che sarebbe da adottare in tutte le scuole superiori) dove, in modo analogo, all’elemento autobiografico si sovrappongono considerazioni teoriche e filosofiche.
A infilare tutte le perle pedagogiche – e non soltanto – che costellano “il Manifesto”, si costruirebbe una collana lunga chilometri: tanto vale leggersi il libro. Mi limiterei a sottolineare un filo rosso che percorre ogni singolo capitolo: il gioco, come modalità di apprendimento, di crescita, di esplorazione e appropriazione della realtà; assieme a questo, un altro concetto che troppo spesso abbiamo pudore di nominare: la felicità.
Visioni utopiche? Può darsi. Ma è con la fede nelle utopie che il mondo cammina e, qualche volta, progredisce.
Che delusione! Leggo la "recensione" di un libro che non conosco, di un autore che non conosco e trovo un elogio sperticato dell'autore… va beh, mi fido, non lo conosco. Nelle ultime righe, quando ormai dubito di trovare qualcosa che somigli a una recensione, la dichiarazione: "tanto vale leggersi il libro". Beh, allora non chiamatela "recensione".