Manuale pratico della Nonviolenza – Recenzione di Enrico Peyretti

Michael N. Nagler, Manuale pratico della NonviolenzaMichael N. Nagler, Manuale pratico della Nonviolenza, Prefazione di Nanni Salio. Edizioni Gruppo Abele, Torino 2014, pp. 125, € 12,00

Un manuale tutto all’opposto di questo, in vendita nelle stazioni, diceva «O si domina o si è dominati». Il dominio è la violenza statica, istituita. La nonviolenza è più del pacifismo, perché vuol togliere ogni violenza, non solo la guerra.

Nagler vede il dilemma «lotta o fuga» cioè violenza o elusione del conflitto. Evita la lotta il nonviolento vile, mentre il nonviolento forte – la distinzione è già di Gandhi – lotta e non fugge. La nonviolenza esiste già, ed è la stoffa continua della storia comune degli umani. Azioni e situazioni violente sono gli strappi in questo tessuto. Non è corretto ridurre l’essere umano ad un animale aggressivo. Quella capacità di nonviolenza «antica come le colline» (Gandhi) è messa alla prova davanti ad un comportamento violento. Ma è questa prova che ne manifesta la forza vitale e liberante, positiva. La conoscenza e l’addestramento di questa «forza dell’anima» conduce a saper vivere i conflitti senza replicare la violenza (che sia fisica, strutturale o culturale), ma con la forza di combattere l’ingiustizia e non chi si comporta ingiustamente. Le esperienze di azione nonviolenta crescono, anche se per lo più i politici la ritengono inutile allo scopo prima di sperimentarla. Essa, infatti, fa resistenza e ostacolo anche al potere non democraticamente condiviso e partecipato.

Nel conflitto dobbiamo sapere che siamo uniti ai nostri avversari, più di ciò che sembra. Si cerchi non la vitoria e l’umiliazione, ma la soluzione del problema. «Offrire dignità all’avversario» fu il metodo nella rivoluzione filippina del 1986. «La vera non-cooperazione è con il male, non con il malfattore», proponeva Gandhi agli indiani nell’ipotesi di una invasione giapponese, nel 1942. Così fu la «resistenza a base civile» o difesa popolare nonviolenta dei cechi, che fraternizzarono coi soldati russi nell’opporsi all’invasione sovietica (Praga 1968). Così fu la lotta efficace guidata da M. L. King: «Offendere qualcuno è offendere tutti». La Resistenza italiana, col procedere degli studi, specialmente delle storiche, si rivela condotta con metodi popolari nonviolenti più spesso che armati.

Nagler, a partire da quei principi, esamina i livelli di escalation di un conflitto. Ci sono ampi spazi di azione giusta ed efficace, intervenendo anche con il cuore e il coraggio, prima del livello massimo dove si tratta anche di rischiare la vita per un obiettivo di giustizia: emblematica l’immagine del giovane cinese, a Tien an Men, fermo davanti al carro armato che avanza. Ma i casi di morti in azioni di lotta nonviolenta sono di gran lunga inferiori ai morti nella lotta armata o in guerra. Episodi culminanti non sono solo la morte del nonviolento, ma anche la sua conquista morale, con l’amore, dell’avversario violento: Nagler racconta il caso del suo amico David Hartsough (p. 64).

L’energia nonviolenta va impiegata in modo proporzionale, graduale, usando anche il compromesso sugli obiettivi non essenziali, rifiutando di «vincere», soprattutto elaborando un «programma costruttivo», il vero obiettivo. Come reagire in caso di insuccesso? E come gestire il successo? E quanto conta il numero dei nonviolenti, e quanto i simboli? Si può fare cattivo uso dei metodi nonviolenti? E questa lotta comporta sempre sofferenza? Esaminando molti casi storici reali, Nagler affronta questi problemi. Conta molto il fattore tempo, la costanza, la fecondità lunga e paziente, più del pronto successo. Ma il successo delle lotte nonviolente c’è, e si documenta1. C’è anche il cattivo uso del successo, la regressione e lo scioglimento del movimento, perdendo dei risultati. Il numero dei nonviolenti in azione conta, ma di più la chiarezza e il fondamento: il potere è interiore, non sta nella quantità. I simboli contano, ma di più la concretezza dell’azione. La sofferenza accettata ed accolta, per amore e per maggiore giustizia, come l’offerta di sé compiuta da padre Kolbe ad Auschwitz per salvare un padre di famiglia, trasmette negli animi una potente forza reale. Anche il digiuno, purché non sia coercitivo ma limpido, è un mezzo forte di assunzione del dolore per affermare un fine giusto.

La nonviolenza «non è un’assenza, ma una forza positiva». Essa ha un «potere integrativo», non deterrente, non potere di scambio. Cioè, vuole riguadagnare l’avversario all’unità umana che lui, con la violenza e l’ingiustizia, ha perso di vista. Controllare le proprie tendenze divisive, come la paura, la rabbia, l’odio, il disprezzo, non è reprimerle, ma disciplinarle e guidarle, trasformando la separazione tra l’avversario e noi in ricerca concreta per fini umani concreti comuni: la vita degna anzitutto.

Di solito, la malainformazione sui conflitti esaspera i fattori di divisione in modo ultrasemplicistico, eliminatorio delle possibilità di vita. I contendenti possono restare vittime di questa loro cattiva rappresentazione, e dare il peggio di sé nella violenza e nella comune sconfitta umana. Invece, l’emotività del conflitto e della posta in gioco, quanto più è alta, è una forza positiva, che va impiegata a superare l’alternativa assoluta, eliminatoria, cercando di procedere oltre, allargando lo sguardo a tutti i fattori e soggetti in gioco, e a fini universali, meno angusti e strozzati di una vittoria assai costosa. Nessuno dice che sia facile, ma è possibile, come i molti casi storici citati incoraggiano a riconoscere.

Questo manuale non fornisce tecniche immediatamente pratiche, ma criteri-guida sulla qualità dell’azione nonviolenta, non meno pratici. Per conoscere ed elaborare ulteriormente le tecniche ci sono ottimi lavori, da Capitini a Sharp, a Muller, a Patfoort. Il taglio del libro, dice l’Autore, vuole condurre ad azioni costruttive, più che soltanto «ostruttive», come invece sono state le «rivoluzioni colorate» e le «primavere arabe». È possibile che tecniche nonviolente siano usate o strumentalizzate per fini di dominio, violenti. Ma ogni tentativo davvero nonviolento, nei fini come nei mezzi, è un seme che può tornare a germogliare.

Il volume è introdotto da una lunga approfondita prefazione di Nanni Salio sui concetti, sulle metodologie di analisi dei conflitti per la loro trasformazione nonviolenta, sugli scenari oggi possibili in cui promuovere la nonviolenza, vero «varco attuale della storia» (Capitini).

(1) Su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. ( Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010, su dati raccolti da fonti USA).

1Su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. ( Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010, su dati raccolti da fonti USA).

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