Trasformare la paura in potere – Stephanie Van Hook intervista Linda Sartor

Linda Sartor, Stephanie Van Hook

Intervista con l’operatrice di pace (peacekeeper) disarmata Linda Sartor

Linda Sartor su un carro armato Sovietico fuori Kabul, Afghanistan (WNV/Peggy Gish)

Linda Sartor non ha paura di morire. Dedicatasi alla nonviolenza, ha speso i 10 anni del dopo l’11 Settembre 2001 viaggiando nelle zone di conflitto nel mondo nella veste di operatrice di pace disarmata, con ruoli che vanno dall’accompagnamento protettivo alla interposizione diretta fra le parti quando la tensione diventa troppo elevata.

Documenta il suo lavoro nel mondo – in Israele, Palestina, Iraq, Afghanistan, Sri Lanka, Iran e più recentemente Bahrain – nel suo nuovo libro, Turning Fear into Power: One Woman’s Journey Confronting the War on Terror (Traformare la paura in potere. Il viaggio di una donna di fronte alla guerra al terrorismo). Intimamente tranquila ed esageratamente umile (scelse di dormire all’aperto per otto anni della sua vita adulta), il suo coraggio e le sue convinzioni non sono solo rinfrescanti, sono contagiose. Recentemente ho avuto il privilegio di passare una giornata con lei per discutere dei suoi viaggi e di come questi l’hanno cambiata come individuo, così come della sua relazione con l’azione nonviolenta.

E’ possibile un’azione nonviolenta contro il terrorismo?

Credo che George W. Bush abbia abusato della parola “terrorismo” tanto da farle in realtà perdere di significato. Quando i manifestanti del Movimento Occupy vengono descritti come terroristi, anche questo atteggiamento modifica estremamente il significato di democrazia. Il vero terrorismo, se esiste, penso sia una risposta estrema, un grido di aiuto da parte di coloro che vengono maltrattati severamente e che non hanno altro modo di farsi vedere o sentire da quelli che potrebbero rendere giustizia alla loro situazione. Una risposta nonviolenta al terrorismo è costituita da qualsiasi azione che porti maggiore giustizia nel mondo, compresa una maggiore equità nel sistema economico globale in modo tale che le necessità di tutti vengano soddisfatte e nessuno possa abusare degli altri per il proprio vantaggio economico.

Cosa significa attivismo per lei?

Penso che la parola “attivismo” più delle volte significhi protestare contro qualcosa, ma io sono più entusiasta all’idea di Gandhi di un ‘programma costruttivo’. Preferisco il focalizzarsi nel creare modelli di ciò che noi vogliamo, piuttosto che il protestare contro ciò che non vogliamo, perché credo che quando investiamo le nostre energie contro qualcosa stiamo infatti rendendola più forte.

Lei ha lavorato in questa organizzazione applicando il “programma costruttivo”, che è all’avanguardia del Peacekeeping internazionale e del sogno gandhiano del Shanti Sena o “Esercito di Pace”. Può raccontarci qualche storia illustrando come opera questo tipo di nonviolenza?

Il giorno dopo il massacro in un villaggio cristiano Tamil presso un’isola in Sri Lanka, noi operatori delle Nonviolent Peaceforce (http://www.nonviolentpeaceforce.it/canale.asp) siamo stati accolti dal prete che ci ha portato a vedere i corpi. La gente del villaggio era eccitata all’idea di raccontarci quello che era loro successo la sera precedente quando le undici vittime furono uccise. Ogni testimone avrebbe confermato che gli assassini appartenevano al Corpo della Marina del Sri Lanka. La legge in Sri Lanka stabilisce che i corpi devono rimanere sul luogo del delitto fin quando il giudice non li esamina. Quando il giudice, una donna, arrivò incamminandosi lungo la strada, era accompagnata da rappresentanti della Marina e della Polizia. Non appena gli abitanti del villaggio vedono approssimarsi questo gruppo di persone, le donne e i bambini si rifugiano velocemente nel cortile della chiesa e gli uomini si raggruppano il più vicino possibile sul marciapiede di fronte. La tensione è palpabile.

Mi sono posizionata di lato al gruppo di uomini, in modo tale che i rappresentanti della Marina, la Polizia e i giudici mi superassero prima di arrivare al gruppo di uomini del villaggio. Nel momento che mi superavano, ho sorriso e li ho salutati e questo si è dimostrato totalmente disarmante. In quel momento ho fisicamente sentito che ero più protetta in quanto disarmata di quanto non lo sarei stata se armata. Nessuno aveva alcun motivo di temermi, dunque non ero in pericolo. Da quella mattina in avanti e fino a quando gli abitanti del villaggio non decisero di trasferirsi al campo rifugiati, siamo stati in grado di fornire una presenza protettiva alla gente e loro hanno avuto un senso di sicurezza che la Marina, teoricamente responsabile della loro protezione, non è stata in grado di fornire.

Lei è una persona soltanto. Cosa le fa sperare di poter fare una differenza?

Dopo l’undici settembre non potevo rimanere seduta a fare niente. Sentivo un desiderio di far qualcosa, di prendere una posizione più energica di prima. Nei dieci anni dei quali parlo nel mio libro, non sono completamente sicura quanto le mie azioni abbiano fatto una differenza nel quadro generale. Proprio come gli Afghan Peace Volunteers (volontari di pace afghani, NdT) con i quali ho collaborato in Afghanistan, non mi aspetto di vedere i cambiamenti per i quali mi sono coinvolta, avverarsi durante la mia vita. Ma credo di dovermi impegnare per raggiungerli in ogni modo. E’ come quelle parole della canzone “The Impossible Dream” (Il Sogno Impossibile) che dice “E so che soltanto se io fossi fedele a questa gloriosa missione, il mio cuore rimarrebbe sereno quando arriva la mia ora; e il mondo sarà migliore proprio per questo”.

Da un altro punto di vista, se vedo qualcosa nel mondo che non mi sta bene, credo che se mi guardo dentro e mi domando qualcosa tipo “Dove posso riconoscere questa violenza in me?” e allora c’è uno spazio dentro di me che posso impegnarmi a rimarginare. E forse questo è l’unico posto dove posso veramente fare una differenza. Io sono convinta che quel piccolo processo di guarigione contribuisca in parte alla guarigione necessaria nel mondo.

Sono stata ispirata dalle parole della poetessa Clarissa Pinkola Estes, quando dice “Non è nostro compito sistemare il mondo intero tutto in una volta, bensì quello di fare il necessario per mettere in ordine quella parte del mondo che è alla nostra portata di mano. Qualsiasi azione pacifica un’anima possa fare per aiutarne un’altra oppure per confortare una piccola parte di questo povero mondo sofferente, sarà immensamente di aiuto… Sappiamo che non ci vuole ogni singolo individuo sulla terra per portare pace e giustizia, ma basta un piccolo gruppo di persone determinate che non si arrendano per ottenere lo stesso risultato.” (http://www.laviasalka.it/news.php?id_news=36, NdT)

Il suo libro parla di trasformare la paura in potere nonviolento. Il coraggio era una delle caratteristiche più importanti dell’anima nonviolenta (o satyagrahi) secondo Gandhi. Nel suo lavoro: “Satyagraha nel Sudafrica” del 1928 lui disse “un satyagrahi dice addio alla paura”. Quale ruolo pensa lei abbia la paura nella perpetuazione della violenza nel nostro mondo?

Vedo che i poteri dominanti che sembrano controllare il mondo oggi prosperano nel creare e perpetuare la cultura della paura. La paura è contagiosa e facilmente esagerabile dalla nostra immaginazione. Vedo ciò specialmente da una certa distanza. Per esempio, la gente che non vive in California ha paura dei terremoti e visto anche che non sono mai stata in mezzo a un tornado ne ho paura. Mi sono resa conto mentre mi preparavo per il mio primo viaggio – verso Israele/Palestina- che per coloro a casa sarebbe sembrato che io fosse in pericolo tutto il tempo. In realtà, ci sono stati pochi momenti veramente allarmanti mentre il resto del tempo no.

Possiamo imparare a lasciare che le nostre paure siano i nostri insegnanti e quando le accettiamo o persino abbracciamo e lasciamo che ci insegnino ciò che dobbiamo imparare da esse, non ci controllano più. Non è che ci libereremo mai più della paura, è soltanto che possiamo convivere con la paura in modo diverso. Più convivo con la paura, più sono libera di fare ciò che il mio cuore mi detta e più mi sento viva alla fine.

Consiglierebbe a tutti di viaggiare verso zone di conflitto come ha fatto lei?

Incoraggio la gente a riconoscere che non è necessario fare ciò che ho fatto io, ma che i loro cuori albergano l’invito adatto per loro. Son convinta che se ognuno di noi fa così, questo possa portare a soluzioni che non siamo in grado di trovare quando pensiamo ai problemi soltanto con la testa e nella prospettiva di ciò che abbiamo fatto in passato.


14 Ottobre 2014
Traduzione di Marlene Barmann per il Centro Studi Sereno Regis
Titolo originale: Turning Fear into Power: One woman’s journey confronting the war on terror
http://wagingnonviolence.org/feature/turning-fear-power-interview-unarmed-peacekeeper-linda-sartor

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