Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi – Recensione di Isabella Bresci

cop_baumanZygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Edizioni Erickson, Gardolo (TN) 2007, pp. 102, € 10

I libri di Bauman si contraddistinguono per acutezza e profondità e questo non è da meno. Cento densissime pagine e in copertina una foto che ritrae dei piccioni come a suggerire il tema del primo capitolo “Mode volatili”.

Il tema affrontato è tra i più inquietanti per i suoi molti risvolti sociali e psicologici cioè il consumismo tipico delle cosiddette “società liquide”. Per società liquida, Bauman intende una società dove nulla è permanente, dove non ci sono saldi valori di riferimento e il consumismo è appunto una delle caratteristiche principali. Nei primi due capitoli Bauman affronta il paradosso della libertà che l’uomo ha di consumare cosa, quanto e come vuole, ma è in realtà “costretto” a consumare se vuole rimanere nella società che si autoalimenta appunto di consumo, per evitare di essere escluso e diventare a poco a poco un emarginato.

Questo nostro attuale sistema – orami tanto diverso da quello della precedente era industriale – non ha più bisogno di molti soggetti che “producono” perché la tecnologia si è evoluta moltissimo e necessita di un numero minore di lavoratori impiegati nella produzione di beni; necessita invece di una schiera immensa di consumatori, a tal punto che tutto è ridotto a bene di consumo che può, anzi deve, essere dismesso e rottamato a breve termine, per essere sostituito da un prodotto più innovativo, più di moda (oppure si è rotto e ripararlo costa più che comprarlo nuovo, la famosa obsolescenza programmata).

Si fa anche grande e veloce consumo di informazioni da cui siamo tutti bombardati ogni giorno dai media on- e off-line, e la strategia di sopravvivenza psicologica indispensabile sembra essere diventata quella del sapersi difendere dalla maggior parte delle informazioni che si ricevono ogni giorno. Le infinite possibilità di scelta tra così tanti prodotti, servizi e informazioni appare come un’incredibile libertà, ma è un sottile inganno percettivo perché vi è una sorta di coercizione soft e tra l’altro “[…] l’obbligo di scegliere presentato come libertà di scelta non solleva alcun dissenso o ribellione, questa è la grande novità rispetto ai sistemi precedenti”; la conseguenza è che tra la gente è sempre più diffusa l’apatia politica.

La gratificazione ritardata un tempo era un valore, come pure il sacrificio dell’oggi per il domani, il sacrificio del singolo per la comunità, e i bisogni del tutto erano più importanti dei bisogni delle parti; ora questi valori vengono considerati oppressivi e contrari alla natura umana. Anche la socialità e la comunicazione nelle comunità sono disgregate quasi ovunque e questo è vero soprattutto nelle grandi città (ma non solo), a causa dell’aumento di barriere fisiche inimmaginabili un tempo (per esempio le aree commerciali di periferia dove si passa solo in auto): muri veri e propri o sistemi di allarme a difesa dei consumatori più o meno benestanti dagli attacchi di chi è rimasto fuori e delinque, o semplicemente da chi è escluso dal pregiudizio (emarginati, stranieri, profughi, ecc.). Le barriere, i muri, sono il simbolo di quella che Bauman chiama “Mixofobia” a cui dedica un intero capitolo, cioè la paura (data per scontata) di mischiarsi agli emarginati di qualsiasi tipo. Le armi degli esclusi sono atteggiamenti e abbigliamenti bizzarri, l’inosservanza delle regole, atti vandalici di sfida alla legge (tra l’altro spesso i giovani sedicenti anarchici e punkabestia imitano questi atteggiamenti, pur provenendo da famiglie “bene”, per protesta, esternando in modo maldestro e ambiguo il proprio disagio).

Certamente non mancano anche esempi positivi di convivenze alternative, ma purtroppo esistono quasi esclusivamente nell’Europa del nord dove la densità di popolazione è molto ridotta rispetto al territorio e quindi la famosa forbice tra abbienti e meno abbienti è meno larga.

Si cerca spasmodicamente il senso perduto d’identità comunitaria che spesso sfocia in atteggiamenti secessionisti, segregazionisti o xenofobi. Il senso del “noi” dà un certo sollievo e rende la convivenza più facile, senza troppi fraintendimenti e soprattutto evita di dover comprendere, riconoscere, negoziare le differenze.

Gli amministratori pubblici e i cittadini si devono quindi confrontare con problemi più grandi di loro eindubbiamente è impossibile trovare soluzioni locali a problemi sociali globali. Il motivo per cui la politica di aiutare quelli che hanno più bisogno non funziona – e non fa altro che aggravare i conflitti sociali e culturali – è che la causa profonda del generale malessere non è quello che fanno i poveri, ma lo stile di vita della minoranza dei veri ricchi e il loro modo di influenzare la rete di rapporti sociali ed economici.

Altro motivo di disgregazione deriva dal fatto che quello che Bauman definisce Homo Consumens è il componente di uno “sciame”, cioè una persona che si aggrega a un gruppo solo momentaneamente, per la durata della seduzione dell’obiettivo mutevole; quando l’obiettivo cambia, si aggregherà ad un altro sciame verso un nuovo obiettivo: “[…] Gli sciami non sono squadre, nello sciame non c’è scambio né cooperazione ma solo vicinanza fisica e direzione”.
Se ci soffermiamo a pensare, ognuno può riconoscere nella propria vita uno sciame di cui ha fatto parte per breve tempo per seguire qualche interesse (che sia esso verso il consumo di beni materiali, culturali o addirittura spirituali… ormai).

La società dei consumi si basa sull’insoddisfazione permanente, cioè sull’infelicità. Il desiderio si trasforma in bisogno e diventa un’esigenza compulsiva, una dipendenza. Chi non ha mai, neanche una volta nella vita, trovato un po’ di sollievo contro l’angoscia o il dolore facendo un po’ di “innocuo” shopping…

Ovviamente in questo sistema i poveri e gli emarginati che vorrebbero consumare ma che non possono, sono tagliati fuori e la disparità tra chi può consumare e chi non può si fa sempre più larga e quindi Bauman lancia una sfida alla morale perbenista facendo notare che la colpa dell’esclusione sociale ormai viene fatta ricadere solo sugli esclusi stessi perché essi vengono considerati rei di non aver fatto abbastanza e quindi di meritare quella condizione. “[…] Essere felici è diventato necessario al mantenimento dell’autostima, oltre a essere un segno di virtù e una condizione da ammirare. Ma se il consumo è la misura di una vita riuscita cioè della felicità e perfino della virtù, allora non c’è più limite al desiderio umano […]”.

Da questa mentalità deriva il fatto di considerare il welfare solo un peso inutile per lo Stato e non più una delle più grandi conquiste democratiche che hanno migliorato la convivenza civile e ridato speranza a milioni di persone. Lo stato sociale (anche detto, dall’inglese, welfare state) è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fonda sul principio di uguaglianza e da esso deriva la finalità di ridurre le disuguaglianze sociali.

Con grande equilibrio e incredibile acume l’autore affronta questo delicatissimo tema intitolando il capitolo-appendice con una citazione biblica cioè la risposta di Caino alla domanda di Dio che chiede dov’è finito Abele: “Welfare assediato. Sono forse io il custode di mio fratello?”. Questa domanda ormai se la pone tutto il continente europeo! Per giustificare l’esistenza del welfare (un tempo istituzione quasi eccessiva e ora in fase di eccessivo smantellamento) in una società umana e civilizzata, la domanda richiederebbe la risposta affermativa, ma il “pensiero unico” basato su competitività, profitto e rapporto costo-beneficio non vi trova alcun senso.

“[…] La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più piccoli tra i suoi membri […]” dice Bauman, ma osserva anche che non c’è nulla di “ragionevole” nell’assunzione di responsabilità, nell’essere solidali con l’infelicità dell’altro e prendersene cura, perché queste cose derivano dal senso morale. Oggi è di capitale importanza iniziare a misurare la qualità di una società dalla qualità dei suoi standard morali, anche se non rendono più ricchi né gli individui né le imprese, altrimenti la società stessa non si potrà più chiamare né umana né civile.

Al contrario, il messaggio lanciato a milioni di telespettatori dai reality show è che non ci si può fidare di nessuno e nessuno è indispensabile, la vita è un gioco duro fatto per duri, ogni giocatore gioca per sé, per andare avanti bisogna allearsi e per vincere si è costretti a tradire. La compassione e la fiducia sono sentimenti suicidi, inutili per il nostro progresso personale: è la morale della sopravvivenza, la legge della giungla…

Certo, la lettura di Bauman non è mai consolante o tranquillizzante, anzi, ma ci aiuta a prendere coscienza di meccanismi che spesso intuiamo, ma ai quali non siamo spesso in grado di dare interpretazione, né riusciamo a individuare il nesso causale tra gli eventi globali e la realtà che ci circonda. Andare oltre la superficialità ci rende più responsabili e può aiutarci ad immaginare un mondo diverso, a continuare a sognare un’alternativa e tentare di metterla in pratica almeno nel nostro piccolo, nella nostra vita e nei nostri rapporti.

Indice

– Mode volatili. L’irresistibile impulso a consumare e trasformarsi

– Lo sciame inquieto. Dall’homo politicus all’homo consumens

– Mixofobia. Alla larga dai poveri

– Risentimento. Quando il pericolo è dentro le mura

– Appendice – “Welfare assediato. Sono forse io il custode di mio fratello?”

– Bibliografia

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